Un Libro al Mese





In questo spazio desideriamo segnalare mensilmente i libri che, a nostro parere e con molta discrezione, possano semplicemente rappresentare piccoli spunti di opportunità, di possibile aiuto e condivisione. Saremmo felici se ognuno di voi vorrà// contribuire con approfondimenti oppure segnalando le proprie letture.
                                                                                                                             
                        

 
"Non appena apriva un libro si sentiva felice, 
o, per lo meno, si sentiva bene.
Era quasi una gioia infantile, ma anche una debolezza.
Aveva l'impressione che qualcuno si occupasse di lui,  
che qualcuno si prendesse cura di lui.
Per dirla tutta, quando il libraio leggeva un libro, 
aveva l'impressione di essere amato."
da Il libraio" di Régis de Sà Moreira.

11 Luglio  2019
CARTOLINE
di Annie Proulx

11 Giugno 2019

Come muoversi tra la folla.


di Camille Bordas.
“Sul nostro divano di pelle scamosciata c’era una macchia marrone più scura. Se ci passavo il palmo della mano in un verso, quasi spariva; la guardavo distrattamente e mi dimenticavo perfino della sua presenza. Ma se ci passavo la mano nel verso opposto, eccola riapparire, più scura di quanto ricordassi, come se l’avessi appena fatta“.
Inizia così il romanzo di Camille Bordas, questa scrittrice cresciuta tra Città del Messico e Parigi, che attualmente vive a Chicago. Questo è il suo primo libro scritto in inglese, ed è inutile negare che l’incipit mi ha immediatamente catapultato dentro le parole di un noto scrittore americano e in un suo bellissimo libro; “Noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per essere qui“. Se un autore all’inizio del suo romanzo si prende la briga di descrivere una macchia, soprattutto se è un bravo scrittore e conosce bene i trucchi del mestiere, vuol dire che questa macchia non solo ritornerà più volte durante la lettura del romanzo, ma soprattutto che avrà un significato. A raccontare nel libro della Bordas è Isidore, un bambino di undici anni, detto anche Dory o Izzie, il figlio più piccolo di una famiglia che vive in Francia, in una cittadina non poi così distante da Parigi. La sorella, Simone, quella più grande di lui di poco più di un anno e che con lui divide la camera da letto, lo accusa bonariamente di essere stato lui l’artefice di quella macchia quando era molto piccolo, ma poi a nessuno della famiglia importa confermare o smentire tale affermazione. Ma per Izzie quella macchia esiste, continua ad esistere, non riesce a dimenticarsene e a smettere di carezzarla. Lisciarla ha per lui un significato intimo, a volte quasi consolatorio. Una sottile forma di resistenza, di protezione, di appartenenza. La certezza di esserci, in una famiglia dove ognuno pare interessarsi solo di se stesso. La macchia è presenza, testimonianza di vita, ma anche l’attestazione che forse un tempo c’è stato amore tra i suoi genitori, quei due imperscrutabili esseri che lui non riesce a decifrare e che ritiene addirittura incapaci di amarsi, sempre sul punto di divorziare e che forse non lo hanno fatto proprio a causa sua. Soprattutto quel padre, spesso lontano, impegnato nei suoi costanti spostamenti di lavoro. Che bello crederlo un agente segreto, un eroe, forse una spia, inventarsene il mestiere più rocambolesco per riuscire a giustificare in parte il suo carattere scostante e chiuso, enigmatico. Ma il padre è solo assenza, eccetto che per quei rari momenti estivi in cui il nuoto sembra momentaneamente unirlo a lui in una passione condivisa, ma arriverà purtroppo e troppo presto, anche il momento in cui non ci sarà più, e scomparirà anche quella modesta traccia di vicinanza, di possibile affetto. Resterà la madre, resteranno i fratelli, queste monadi intelligentissime che paiono escluderlo dalla loro traiettoria, lui che non si sente alla loro altezza né per bellezza né soprattutto, per intelligenza. Questi fratelli che sanno tutto, che leggono e studiano in continuazione, catapultati verso un futuro pieno di aspettative e che “avevano sempre una ricerca a cui lavorare“, sempre barricati nelle loro stanze, difficilmente accessibili. Lui sembra però l’unico capace di notare davvero le cose, di sentirle, di toccarle appunto come tocca quella macchia sul divano, di provare empatia perché dotato di una sensibilità che lo porta spesso a sentirsi responsabile per gli altri. E quando sua madre incita lui e i suoi cinque fratelli (due maschi e tre femmine) ad avere più spirito di avventura, lui è l’unico a pensare che scappare di casa possa rispondere a questo suggerimento materno. Così ci prova diverse volte, maldestramente, senza successo, perché ancora non ha ben chiaro cosa significhi realmente “spirito di avventura “. Come non ha ben chiaro, a differenza dei suoi fratelli, cosa farà da grande. Ed è una domanda che lo tormenta, perché deve trovare una risposta adeguata, plausibile, che non sia soggetta ad ilarità e a prese in giro. Quella che gli viene in mente e trova pertinente, poco attaccabile e criticabile, è quella di voler diventare insegnante di tedesco, lingua amata e considerata utile dal padre. Cerca così di smarcarsi definitivamente dalla ripetitività di questo interrogativo ma anche dall’invadenza della sorella Simone, che sogna per lui un futuro di biografo, ovviamente il suo, eletto ad unico testimone del suo incommensurabile genio che ben presto il mondo scoprirà. Lei così ambiziosa ed irascibile, lo elegge a suo personale intervistatore, confidando sulla sua natura flemmatica e sulla sua capacità di conservare memoria delle cose. Proprio per questa memoria, sembra essere l’unico a ricordarsi del primo anniversario della morte del padre e a recarsi al cimitero, così come è anche l’unico a meritarsi l’amicizia di Denise, quella sua amica di scuola così triste, così già priva di aspettative in terza media, così disperata, depressa. Così sola. Lui sembra, e in effetti è, un vaso pronto e predisposto a raccogliere e conservare le storie degli altri, a cercare un dialogo, a tenere unite le persone, i fratelli, la madre, la casa. Lui è quello che resta, il più piccolo, quello che forse ha più bisogno di punti di riferimento, ma che comunque sa cogliere meglio degli altri il significato della parola unione che è anche comunione, condivisione. Appartenenza. La madre un giorno gli ha spiegato l’importanza dei legami, l’attaccamento, e cosa sia l’amore e cosa voglia dire amare, anche se proprio proprio ancora non ne afferra il significato più intimo, quello più segreto, quello nascosto. Anche se lui in fondo un po’ innamorato già lo è , lo è di Sara, forse un po’ anche di Rose, ma il tempo ancora non è favorevole all’amore. Deve mettersi l’apparecchio ai denti, con quel metallo che gli bucherà le gengive e dovrà imparare a usare e modellare la cera, per non sentire il dolore che gli causerà. Ancora sta elaborando quel lutto, ancora non crede che suo padre non ci sia più, se lo sogna di notte, vivo, che ha finto di morire solo per proteggerli dai malvagi di tutto il mondo. Sta crescendo, sta passando attraverso il dolore, l’assenza, sta diventando un uomo, un uomo che deve imparare come “muoversi tra la folla“. Così, lentamente, dopo aver tentato di trovare un nuovo fidanzato alla madre in rete, commettendo tutte le leggerezze e gli errori della sua giovane età, qualcosa in lui inizia a cambiare, a tratteggiarsi con più decisione, a rafforzarsi. Non ci sarà più bisogno di confortarsi e confrontarsi con quella macchia sul divano, lentamente i fratelli riconosceranno il lui l’elemento aggregante della loro famiglia, il punto di forza, l’anello di congiunzione di solitudini altrimenti volte alla deriva.
Stella Marina

11  Maggio  2019
                                           
Rue de L’ Odéon 

di Adrienne Monnier






“…era piuttosto tarchiata, tanto bionda da parer quasi una scandinava, con gote rosee e una bella fronte che i capelli lisci, pettinati all’indietro, lasciavano interamente scoperta. Mi colpirono soprattutto gli occhi, grigiazzurri e un po’ sporgenti. (&hellip Era piena di vitalità. Il suo abbigliamento, che un giorno qualcuno definì come qualcosa a mezza via fra quello di una suora e quello di una contadina, le era particolarmente adatto: una gonna dalle pieghe abbondanti, lunga fino ai piedi, e una specie di farsetto attillato, di velluto, sopra una camicetta di seta bianca. (…) La sua voce era sempre tenuta su un registro piuttosto alto: Adrienne discendeva da montanari che si chiamavano da vetta a vetta “.
Così la descriverà al suo primo incontro Sylvia Beach, che diverrà poco dopo, sua carissima e intima amica. Adrienne Monnier nacque il 26 aprile del 1892 a Parigi, e nel novembre del 1915, in tempi di guerra, realizzò il suo sogno più grande e ambizioso, che era quello appunto di aprire una libreria ed imparare ad essere una libraia. Aprì, sulla rive gauche, grazie all’aiuto finanziario dei suoi genitori “La Maison des Amis des Livres “ , una libreria dal nome così bello e così intrigante che suggerisce immediatamente l’immagine di una specie di confraternita, di amici legati tra loro indissolubilmente da quella loro stessa, medesima, grande , sconfinata, inesauribile passione. Un nome che mi avrebbe ben predisposto se fossi vissuta in quegli anni e a Parigi, e mi avrebbe sicuramente condotto a bussare a quella Maison per essere accolta e iniziata ai grandi segreti della letteratura.
Il libro è narrato ovviamente in prima persona, sono i ricordi di Adrienne Monnier , appunti, pagine di diario, flussi di ricordi, che con la sua scrittura elegante, particolarmente dotata, colta ma assolutamente mai pesante, ripercorre gli anni di quella straordinaria avventura. Per tutto il libro l’ho invidiata moltissimo, eccetto per il periodo di guerra, per le difficoltà economiche spesso pressanti , ma assolutamente per la sua purezza di intenti, per gli scrittori che ha avuto la possibilità di conoscere e che spesso sono diventati suoi amici, per quel fermento e vivacità intellettuale che animavano quella maison fatta di carta, di parole, di sogni, di poesia, di progetti, di teatro, di traduzioni, di infinita passione, mentre là fuori imperversava l’orrore e la guerra, e l’uomo dava il peggio di sé. Un privilegiato rifugio in cui reinventare il mondo, preparandolo possibilmente per una nuova e migliore rinascita. La letteratura - la nostra anima inespressa, come dice Adrienne, la nostra anima in parole, parole in nostro potere, noi soggetti al potere delle parole - è una regina delle termiti. Felicità è anche solo avvicinarla, è un modo di progredire. Esattamente così, sono in totale sintonia con questo pensiero da lei cosi ben espresso: “felicità è anche solo avvicinarla “. Ed è questo che mi muove, questo tentativo di avvicinamento che via via si fa sempre più complesso, più preciso ma contemporaneamente più sfuggente, come fosse nella sua natura più intima, esserlo. Ed è forse proprio questo che più mi attrae, che mi tiene incollata alle pagine, ogni giorno, questa sua natura indomita e indomabile, che mi porta ad attraversarla in lungo e in largo, con alla fine come unico risultato, soltanto una manciata di parole che brillano sul filo sottile ed incerto dell’orizzonte.
La prima visita interessante che Adrienne ricevette nella sua maison, fu quella di Paul Fort. Era sul finire del 1915, “lui aveva i capelli lunghi, un cappello a falde piatte, parlava in modo forbito“, era un poeta. Quello che di lui mi colpisce, guardando alcune sue fotografie, è il suo sguardo: profondo, vivace, indomito. E allora ripenso a quelle poche poesie che di lui conosco, una in particolare che inizia così “Si toutes les filles du monde / Voulaient se donner la main, / Tout autour de la mer / Elles pourraient faire une ronde… e vedo in fondo al suo sguardo, quell’enorme girotondo di persone, quelle mani che si cercano per formare un cerchio. E deve averlo intravisto anche Adrienne quel girotondo di persone poggiato sul fondo del suo sguardo appena lui entrò in libreria e le propose uno stock della sua rivista Vers et Prose. Rivista che poi attirò un girotondo di nomi interessanti, come quello di Louis Aragon, di Andrè Breton e di Philippe Soupault. Certo che vedersi giungere all’improvviso un giovane e bellissimo Andrè Breton in libreria, non deve essere stata cosa da poco, io sarei svenuta all’istante, mi sarei emozionata moltissimo, balbettando confusamente qualche parola o forse nessuna, invece lei mantenne la giusta freddezza e la giusta distanza, e così divennero amici. Ma un incontro ancor più importante avvenne quando in libreria arrivò Lèon –Paul Fargue, con sotto il braccio diverse copie del Tancredi da vendere. Lui, con la sua visione delle cose, con il suo modo di approcciarsi agli altri tramite lo choc, con il gusto e il piacere di scioccare le persone, per giocare a rivoluzionare e ribaltare costantemente i punti di vista, fu una presenza fondamentale per questa libreria appena nata, ancora incerta, ai suoi primi passi. E fu una presenza molto importante anche nella vita di Adrienne, la influenzò molto, aiutandola a trovare e a sviluppare un suo personale punto di vista. Era così, come lei dolcemente e sempre con tanta venerazione lo descrive spesso, “nessun commesso viaggiatore ha mai saputo pronunciare tanti stornelli, sciarade, giochi di parole, storiacce da osteria e da caserma, anedotti storici, ritornelli di romanze sentimentali o di canzoni comiche “come sapeva fare lui. Altrettanto importante fu l’arrivo alla maison di Jules Romains, come anche l’arrivo di Paul Claudel. Il magnetismo della poesia di quest’ultimo, letteralmente riusciva a mandare in trance la nostra giovane libraia, portandola a contatto profondo con la sua anima. Sono nomi importanti, presenze fondamentali nel cammino di una persona che sebbene già fosse per sua natura predisposta ad amare la letteratura, ha però avuto anche l’immensa fortuna di poterla approfondire e di poterla praticare, di viverla quotidianamente con scrittori-poeti di tal genio, di tale sensibilità, di tale spessore e originalità. Avrei davvero voluto incrociare lo sguardo di Blaise Cedras, o quello di Apollinaire, o di Jean Coucteau. Sicuramente quello di Andrè Gide e parlare con lui dei suoi “Nutrimenti terrestri“ che in quegli anni era un libro introvabile e ricercatissimo. O ascoltarlo mentre declamava: “Tabula rasa, ho spezzato via tutto. E’cosa fatta. Mi ergo nudo sulla terra vergine, di fronte al cielo da ripopolare“. Eppure c’era, tra tutti questi nomi, anche lui, ed io per poterlo vedere e ascoltare almeno per un minuto, mi sarei di certo inginocchiata in preghiera sui carboni ardenti, lasciando che le sue parole mi emozionassero e mi facessero piangere senza ritegno, come sono capaci di fare ogni volta che le leggo:
“Oggi la luce unica. Oggi l’infanzia intera.
Mutando vita in luce. Non passato non domani
Oggi sogno di notte. Al gran sole ogni cosa si libera
Oggi io sono per sempre“.    Paul Eluard..
Ma poco dopo quella visita sarebbe sopraggiunto anche Paul Valèry ed io personalmente, sarei impazzita di felicità, solo il nominare “Monsieur Teste“ mi procura brividi di gioia, un testo stregato, un piccolo immenso libro. Nel raccontare di Adrienne, in questo suo appassionato ricordo di un’epoca, di un sogno e di sogni che si alimentavano e si sviluppavano da quel sogno, di una libreria e di una particolare luce di Parigi, sopraggiunge, e non può mancare, il nome di Rilke, e con questo magari chiudo, che poi magari il libro ve lo leggerete da soli , mi fermo quindi, prima che io continui a svelarvelo tutto, che non si fa proprio, eh. Perché è un bel libro, e mi ha emozionato ancora di più leggerlo in questo momento in cui la Francia è così fragile, e con lei, tutti noi. La Bellezza di Notre- Dame è la bellezza appunto delle cose fragili, umane, assolutamente labili, anche se paiono e vorremmo eterne. Ma dicevo di Rilke, che Adrienne incontrò soltanto un paio di volte, consapevole però di trovarsi al cospetto di un grandissimo poeta, di un iniziato, come Novalis, Blake e Rimbaud. Lui poi le inviò per posta una sua poesia inedita, come dono. Un dono solo per lei che le giunse di mattina, versi di poeta: “Il grande perdono“. E forse questo è un dono anche per noi, oggi, e come ogni dono, va compreso e approfondito nel suo significato più profondo. Lo lascio a chiusura.
“Si racconta, ma che si sa?
In qualche posto l’Angelo dell’Oblio, radioso,
tende la faccia al vento che volta le pagine.
Limite puro. E dietro di lui tutto il paese
che più nessuno saprebbe comprendere:
che bisogna a suo tempo aver saputo,
pezzo per pezzo, quale i nostri sensi,
quale la collera lo infrangeva, ai nostri bisogni.
(Senza volere adesso negare le guarigioni inaspettate
tra le cose, che ci prendevano a testimone
senza che avessimo mai saputo nominarle…
Eppure, i frutti sostenevano i nostri nomi
e gli astri li scuotevano di rado:
nomi spugnosi che bevevano lacrime…
Quei nomi il più tenero ancora dei quali
è solo lo stampo di un grido).

Muzot, 29 giugno 1926. - Rainer Maria Rilke -



11  Aprile  2019
Il canto di Penelope. 

di Margaret Atwood.







In effetti venti anni sono troppi; un tempo decisamente troppo lungo per ritrovare la strada di casa, anche ai tempi di Omero. Se dividiamo questo tempo a metà, quel che resta è ancora un tempo esageratamente lungo, ben dieci anni, per poter credere fino in fondo ad Odisseo, anche con la migliore predisposizione d’animo. Dopo secoli e secoli, finalmente Penelope parla, trova la sua voce per raccontarsi e raccontare dal suo punto di vista l’odissea di una vita e l’odissea di essere, divenire donna, la complessità dei sentimenti e delle relazioni, dei ruoli, delle aspettative. Parla delle fragilità e della forza, dell’angoscia e del silenzio, della perseveranza e dell’abbandono. Si racconta partendo dal suo tempo e dalla sua nascita, a Sparta, lei figlia di Icario che di Sparta era il re, per arrivare fino al giorno della propria morte e al suo definitivo ingresso nell’Ade, da dove innalza questo suo tragico canto per essere ascoltata da noi mortali, ormai donna “senza ossa, senza labbra, senza petto“. Usa la sua arma migliore, l’intelligenza, e la usa con assoluta modernità visto che è con la modernità che vuole confrontarsi, mica è quella tonterellona-credulona-che-si-beve-tutte-le-mirabolanti-eroiche-fandonie del marito aspettandolo per l’eternità, impiegando il tempo a fare e disfare la sua tela pur di non tradirlo. Penelope è una donna, una madre, una compagna, la “sorella“ di dodici ancelle, che ha attraversato la Storia fin dalla sua origine, dal grembo della Grande Madre, per arrivare fino a noi, a questo istante, imparando a divenire consapevole di sé, della propria forza, della proprie emozioni, delle proprie debolezze. E anche delle proprie meschinità, in fondo la gelosia per la bella e avvenente cugina Elena non è mai stata superata, è rimasta sempre in sottofondo ma nessuno è perfetto, si sa, così neppure lei lo è stata.
Anche se a lei è stato concesso di divenire invincibile e indomabile come l’acqua (un po’ forse come tutte le donne), quando davvero decide di esserlo, lei che era anche la figlia di una naiade, oltre che del re di Sparta: “L’acqua non oppone resistenza. L’acqua scorre. Quando immergi una mano nell’acqua senti solo una carezza. L’acqua non è un muro, non può fermarti. Va dove vuole andare e niente le si può opporre. L’acqua è paziente. L’acqua che gocciola consuma una pietra. Ricordatelo, bambina mia. Ricordati che per metà tu sei acqua. Se non puoi superare un ostacolo, giragli intorno. Come fa l’acqua“.
Sempre brava la Atwood a costruire la trama delle sue storie, questa volta servendosi anche del coro greco per dar voce e rilevanza alle dodici ancelle uccise, per dare loro la parola, per permetterci di ascoltare anche il loro punto di vista, loro che erano state sterminate da Odisseo al suo rientro a casa, punite per il loro comportamento oltraggioso e lascivo. Ci rammentano, a noi lettori distratti, l’orrore di quelle loro atroci morti, presto dimenticate, ignorate, come se nulla fosse accaduto o come se quelle loro morti avessero davvero avuto una reale giustificazione all’interno della storia e troppo presto date per scontate. Eppure il testo omerico così declama; “Ma quando ebbero tutta riordinata la sala allora, spingendo le ancelle fuori dalla sala massiccia, fra la rotonda e la cinta di bel fatto cortile, in breve spazio le strinsero, da cui non potevan fuggire. E agli altri il saggio Telemaco prese a parlare: “Non certo con morte pulita toglieremo il respiro a quelle che sul mio capo versarono insulti, e sulla madre, e coi pretendenti giacevano !”........ Così, dopo tremenda esecuzione, con fuoco e zolfo tutto viene purificato, tutto viene dimenticato in fretta e si passa al capitolo successivo con il cuore in gola, perché è quello in cui Penelope riconosce finalmente Odisseo… Ma la Atwood si sofferma ancora su quelle morti, non le abbandona, le lascia parlare, affinché la nostra immaginazione possa spingersi fin dentro la loro triste infanzia, loro che erano le figlie di schiavi, “bestiole offerte a tutti oggetto di mercato finché fresche“, vendute prestissimo per lavorare a palazzo, per sgobbare dall’alba al tramonto, cibandosi degli avanzi, bevendo il vino rimasto nelle coppe, arraffando quanto più possibile potevano per sopravvivere.
Conoscevano e sapevano tutto, tutti i segreti e gli intrighi del palazzo, erano gli “occhi“ e “le orecchie“ di Penelope, e si spingevano fin dove lei non poteva né osava fare, sia per estrazione sociale sia per ruolo. Trovarsi ad Itaca, provenendo da Sparta per Penelope non fu affatto facile. Abituarsi alla nuova casa, alla suocera, a Euriclea, agli usi locali, ad una vita completamente diversa. E poi soprattutto, all’assenza del marito, perpetuamente in viaggio, lasciata da sola con un figlio piccolo da crescere e proteggere, sola ad affrontare le difficoltà quotidiane. Le dodici ancelle più fedeli le divennero come sorelle, come figlie, indispensabili complici con lei nel disfare quell’eterno sudario, poi forse però, una sola di loro, la tradì. Ma per loro, anche dopo la morte, Penelope prova tanto e solo amore, riconoscenza, sente con urgenza il bisogno di verità, per gettar finalmente luce sui fatti, loro che erano state stuprate, usate, maltrattate e poi uccise senza alcuna pietà. Loro, quelle dodici fanciulle lunari, compagne di Artemide, dimenticate da secoli e secoli di storia, ignorate e lasciate a vagare nell’Ade, senza mai essere vendicate e soprattutto senza mai essere ascoltate, senza conceder mai loro la parola. Per questo Penelope parla, e racconta, cercando di essere il più possibile obbiettiva, nonostante l’amore per il marito, nonostante un imperdonabile senso di colpa nei loro confronti, infilandosi in ogni invisibile e possibile crepa del Tempo, per parlare a noi, per scuoterci dal torpore, per osservare anche questo nostro mondo, quello di adesso dove noi viviamo e cerchiamo di comprendere, in cui “la natura umana è, come sempre, infame“, e se possibile, ancor di più di allora. Una lettura breve di circa centocinquanta pagine, che lascia però con un’infinità di domande e una tristezza di fondo che non scompare affatto una volta chiuso il libro. Permane un inquietante punto di domanda al quale è sempre più difficile trovare delle risposte adeguate e pertinenti. La scrittrice oltre che l’Odissea, per scrivere questo romanzo ha consultato il libro dei miti greci di Robert Graves, e Trickster Makes This World di Lewis Hyde. Il risultato è di notevole interesse, il personaggio di Penelope ha acquistato così spessore e complessità, contemporaneità ed universalità; è un urlo potente e coraggioso. Un perpetuo atto di accusa. (Stella Marina)



11  Marzo  2019

La custodia dei cieli profondi 

di Raffaele Riba

“Il primo nome che mi hanno dato è Gabriele, una mattina d’aprile del 1980, ma è accaduto spesso che quel nome si sia disperso in un marasma di altri meno evidenti. All’inizio mi hanno chiamato figlio, poi fratello, poi il Custode; infine l’Eremita o il Matto. E’ stato un processo lento e graduale, questo disperdersi verso il non me, come se tutte le persone che ho conosciuto avessero prima o poi perso un treno e, affacciati ai finestrini, mi avessero salutato allontanandosi. E’ un fatto che le loro voci non solo si siano abbassate di volume e poi perse nel viaggio, ma che anche la semantica dei nomi usati per salutarmi si sia allontanata via via, diventando più rarefatta, più impersonale. Dall’essere chiamato figlio e fratello all’essere additato come matto, la prossimità è diventato il deserto“.


Il libro mi è piaciuto subito,  fin dal primo sguardo, a partire da quel disegno in  copertina  tratto dal libro “Lectures on astronomical theories“ di John Herris del  1876,  sul quale   mi sono soffermata a lungo seguendo un mio pensiero o meglio più pensieri contemporaneamente, affascinata e attratta dall’orbita di una cometa che mi ha condotto lontanissimo nel tempo e nello spazio, per poi passare a quella frase scritta in rosso sul retro del libro: “voglio solo dire che la casa è pelle, che la casa è cognizione, che la mia casa è un modo che ho per dire qualcosa di me “,  frase che mi ha permesso di  ritrovare un centro, il mio sgangherato e instabile centro. Non sapevo niente di questo giovane scrittore di Cuneo prima di scoprire questo libro, eppure a quanto pare, questo è il terzo libro che ha scritto, e lui è anche un   insegnante presso la scuola Holden. Il romanzo si apre con un punto fermo, un punto fisso, attorno a cui tutto si muove, punto collocato saldamente al centro della cascina Odessa, quella casa costruita dal nonno del protagonista, un ingegnere edile, in memoria del setter irlandese di nome Odessa che proprio in quel punto dove poi furon gettate le fondamenta, perse la vita. Quindi cascina Odessa è anche un mausoleo eretto per il ricordo di un grande amico, anzi di un’amica, un luogo di legami forti, primari, e di celebrazione della vita, nella campagna non lontano dal paese di Lurano. Un piccolo pianeta al cui interno si muovono le esistenze e gli affetti di una famiglia, e prendersene cura sarà anche tentare di tenere saldamente uniti tutti i suoi elementi, permettendo al tempo di stratificare i ricordi, di condensarli, di non disperderli. La casa conserverà e restituirà ogni cosa, sarà memoria, sarà voce, sarà immagine, sarà pelle. Ma sarà soprattutto forza, quel   punto privilegiato da cui osservare il mondo, e da lì, sarà anche possibile alzare lo sguardo verso quell’universo infinito che brilla ancor di più nelle notti limpide e interrogarsi sugli affascinanti enigmi del cosmo in compagnia del padre, silenzioso, riservato, ma preciso maestro di vita. E fino ad un certo punto, tutto questo sarà semplice e possibile, naturale e possibile. Gabriele, la voce narrante, e il fratello Emanuele, più piccolo di tre anni, trascorreranno un’infanzia felice all’interno di questa cascina, alternando i giochi infantili con lo studio, i piccoli lavoretti estivi con le ore spensierate di libertà, essendo per molto tempo una “intenzione indistinta“, assorbiti completamente dalla reciproca fratellanza e dalla comunione di intenti, complici e insieme, forti, un tutt’uno. Solo un regalo ricevuto in dono dal padre, sembra essere l’unica, invisibile zona d’ombra tra questi due ancor giovani fratelli. Ad Emanuele viene regalato il secondo volume della “enciclopedia astronomica“ di Armando Curcio Editore per il primo dieci riportato a casa da scuola, e a poco serve l’intervento della madre con il regalo de “Il libro illustrato dei miti e delle leggende“ per Gabriele. Ma anche qui siamo nella normalità, si impara fin da piccoli a convivere con delle presunte ingiustizie o infondate gelosie, per quanto quel libro sull’universo pulsi di una luce del tutto speciale che ha a che vedere con la condivisione, con la paternità, con la fratellanza, con quei puntini invisibili e insignificanti che noi siamo rispetto al Tutto, ma che diventano sempre più grandi, rilevanti, man mano che lo sguardo li rimette a fuoco, ponendoli nuovamente al centro della Storia. Allora sì, si può ricominciare a parlare d’amore, di legami famigliari, di cura, di appartenenza. Si può ascoltare con attenzione i rumori sottili della casa, le voci che continuano a parlare anche se assenti. Si può intravedere in controluce, attraverso quei piccolissimi pulviscoli di polvere che piovono dall’alto come pioggia sottile, il passato che ancora e nuovamente scorre, che imprime un’impronta, un segno, un po’ come ogni anno fanno le venature di un albero nella sezione trasversale del tronco, quegli anelli che lo arricchiscono del tempo che passa, e che tengono memoria di ogni stagione passata. Ma poi qualcosa qui accade, accade lentamente, ma inesorabilmente. Lentamente le persone si allontanano tra loro, l’unità si sbriciola, ognuno cerca un luogo dove vivere da solo, lasciando, abbandonando la cascina Odessa e tutto quel loro passato insieme. Inizia il padre, con garbo ma con determinazione, se ne va, poi la madre, in una casa sul mare, da sola con tutti i suoi ricordi, anche con quelli che fanno male e che tendono ad isolarla sempre di più, per ultimo Emanuele, per studiare Astrofisica, ma con sempre meno desiderio di ritornare a casa dal fratello e condividere con lui la gestione della cascina. Rimane soltanto Gabriele, che diviene così il Custode di tutto il loro passato, lui, da solo, ad osservare e trattenere quel che resta, tentando di prendersene cura, interrompendo per questo i suoi studi di lettere all’università. E per un po’ ci riesce perché ci crede, per un po’ ha cura di quella casa abbandonata da tutti, ne diventa il centro esatto, il baricentro sospeso sull’imminente dissolvenza, tentando disperatamente di tenere legata ancora la sua famiglia, impedendo all’oblio di far tacere i ricordi, di cancellare il passato. Lentamente la muffa in casa, partendo dalla soffitta, inizia ad insinuarsi ovunque, assumendo forme multiformi sulle pareti delle stanze, coprendo sempre più spazio, insaziabile nel suo desiderio di espandersi, avida di luoghi sempre più vasti da possedere. Perfino su quel vecchio volume della enciclopedia astronomica vuol imporre la sua dittatura, corrodendo quelle pagine che sono state il cuore dell’infanzia dei due fratelli e il cuore del loro reciproco affetto e della loro crescita. E’ l’inizio dell’entropia e del sorgere di un secondo sole, di un sole blu, parallelo al sole giallo. Questo nuovo sole sorge ad est nel tardo pomeriggio, più debole dell’altro e più conosciuto sole, al tramonto cela i suoi raggi trasformandosi in un’unica nebula azzurra. Sarà lui a divenire il testimone inconsapevole di quella resa sempre più accelerata di un accordo sincronico che si è andato guastando, quell’accordo sinusoidale tra i due fratelli che ha iniziato a deteriorarsi, a cedere, a liberare energia generando una “dispersione violenta“ degli avvenimenti, aprendo il tempo a   una  resa dei conti che contempla  un nuovo modo di guardare al passato. Un libro sì, sulla dispersione degli affetti, sulla fragilità, sulla dissolvenza, sulla cura e la mancanza di cura, sul silenzio del non detto, sulla solitudine, sull’impossibilità di trattenere le cose e le persone. Sullo studio attento e millimetrico del dolore che come una supernova all’improvviso esplode con una sua triste, folgorante bellezza, liberando frammenti di ricordi, schegge impazzite di memoria, che vorticano insieme, mescolandosi precipitosamente con gli atomi dell’acqua del torrente Roburent a cui è stato nuovamente concesso il diritto del suo naturale fluire, la libertà di scorrere secondo natura, a patto però che possa concedere, e che finalmente conceda, l’oblio.      
                                           Stella Marina                             



11  Febbraio  2019

IERI

di Agota Kristòff





“Io me ne stavo seduto davanti a casa, giocavo con la terra argillosa, la plasmavo, formavo immensi falli, seni, natiche. Nell’argilla rossa scolpivo anche il corpo di mia madre, vi affondavo le mie dita di bambino per scavare dei buchi. La bocca, il naso, gli occhi, le orecchie, il sesso, l’ano, l’ombelico. Mia madre era piena di buchi, come casa nostra, i miei vestiti, le mie scarpe. Tappavo i buchi delle scarpe con il fango. Vivevo nel cortile …”
A raccontare è Tobias, e solo diciassette anni lo separano dall’età della madre, Esther. Vivono in un villaggio di un paese imprecisato, “un villaggio senza nome, in una nazione senza importanza“, e sono poverissimi. La madre è una “ladra, mendicante e puttana “, si arrangia come può, per sopravvivere. Lui è l’unico e il primo figlio, gli altri, con molta probabilità, sono stati abortiti. Quello che induce Tobias a fuggire da casa, non è tanto la sua situazione infelice, l’estrema povertà e il degrado, il sesso costante nella camera della madre e che lei pratica ogni volta con uomini diversi, o l’esser deriso dai suoi coetanei proprio per questo, lui non può ancora sapere con precisione alla sua età cosa sia o non sia la felicità (sempre ammesso che sia possibile “con precisione“ saper cosa sia) , avendo visto e vissuto solo quella sua vita, raffrontandosi solo con quella realtà , in quella misera casa situata alla fine del villaggio, l’ultima casa dell’ultima strada, come a sottolineare quella sua appartenenza agli ultimi e la scarsa considerazione ricevuta da parte di tutta la comunità. Fuggirà solo dopo aver scoperto che il suo maestro di scuola elementare, è anche suo padre, ed è sposato con un’altra donna che gli ha dato tre figli, e che la sua compagna di banco è anche sua sorella, e ovviamente lei non lo sa e non può saperlo. Questo padre che forse ha abusato o forse approfittato della madre quando era ancora minorenne e che adesso vorrebbe prendersi cura di lui, mandarlo a studiare fuori, visto i brillanti risultati che ha ottenuto con la scuola dell’obbligo, un padre che però per far questo vorrebbe una contropartita, e cioè costringere sua madre ad andarsene lontano, ad abbandonarlo, a scomparire il più lontano possibile, sia dalla vita di Tobias ma soprattutto e principalmente dalla sua, e per sempre. Davanti a questa realtà, a questa alternativa insostenibile per un bambino, lui fuggirà, lascerà la madre e questo suo improvvisato padre, non prima però di averli pugnalati tutti e due con un coltello da cucina, con un gesto definitivo e colmo di rabbia, con la certezza di averli uccisi e con il forte desiderio da lasciarsi tutto quell’orribile e misero passato alle spalle. Attraverserà, valicherà confini, cambierà nome (ma non troppo), inventandosi una nuova identità, e dopo alcuni anni trascorsi in un orfanatrofio fino al raggiungimento della maggiore età, sarà finalmente libero di stabilirsi in una nuova città di un nuovo paese, e di trovare un lavoro. Di vivere insomma e finalmente la sua vita. Ma sarà realmente così? Sarà davvero libero Tobias? Sarà più bella questa sua nuova vita?
Il romanzo ha una struttura circolare, è scritto da un tempo presente, da un Tobias di ventisette anni, che ha lo sguardo rivolto costantemente verso il suo passato, a ricercare la matrice di quella sua erranza, la matrice di certi sogni ed incubi ricorrenti, quella tigre che all’improvviso gli appare con quel suo pelo serico nel terrore di un quotidiano sempre uguale a se stesso, spesso e grigio come una muraglia invalicabile. Un’esistenza vuota e svuotata di significato, scandita dal ripetersi monotono di un lavoro in una fabbrica di orologi, e nella costante attesa di una donna immaginaria di nome Line che possa salvarlo, ricomparendo magari proprio da quel passato da cui era fuggito, una Line che apparentemente sembra non arrivare mai, ma che poi, quando arriverà, forse non sarà lei o lo sarà per poco, per un tempo breve e sospeso. Forse l’attesa è stata solo un inganno per ammansire, tenere a bada la tigre, che rivolgendosi a lui quando meno se lo aspetta, gli intima; musica! Gli chiede di suonare; Musica! e possibilmente al pianoforte, una musica capace di divenire poi assordante dentro la sua mente, in quella sua esistenza vuota piena di buchi. La scrittura è essenziale, scarnificata, dedita solo a tratteggiare rigorosamente questo cerchio claustrofobico intorno al suo personaggio, e mentre è lui stesso a scrivere, come se nello scrivere però sia contenuta l’unica possibilità di salvezza o possibile via d’uscita, non si rende quasi conto di disegnare questa linea circolare, che partendo da se stesso lo riavvolge impietosamente, chiudendolo definitivamente attorno alla sua stessa origine. La difficoltà che dice di aver sempre avuto la Kristof con la sua seconda lingua, quella con cui ha poi scritto i suoi libri, almeno i più importanti, e cioè la lingua francese, sembra diventare punto di forza invece che di debolezza, rendendo la scrittura asciutta, censurata da possibili sentimentalismi, quel tanto impersonale ed essenziale da divenir esatta, affilata, errante, con poche coordinate ma precise. Costantemente alla ricerca di una patria, una patria esistenziale, da cui riscattare poi l’orrore dell’esilio, dei legami spezzati, l’assenza, le privazioni, quel calore di parole note, usuali, affettive. Quell’infanzia perduta che non può essere più nominata perché mancano ormai le parole per definirla, perché la nuova patria la costringe a confrontarsi con un diverso linguaggio, con una diversa realtà, con suoni mai uditi e forse ostili. E così la sua è una lingua mutilata all’interno di un tempo lacerato, teso ossessivamente alla ricerca e al recupero di uno spiraglio di luce, dopo che quell’argenteo filo con il passato è stato reciso, quel passato che appartiene più alla scrittrice che al suo personaggio, ma che il suo personaggio è disposto ad incarnare per lei, sacrificandosi per lei. Per riuscire con il suo sacrificio, ad orientarla, divenendo per lei una specie di faro nella dissolvenza, nel vuoto del tempo, come una piccolissima luce sul palmo della mano. Un po’ così, insomma: “Ieri tutto era più bello, la musica tra gli alberi, il vento nei miei capelli e nelle tue mani tese il sole“.
                      Stella Marina

11  Gennaio  2019

IL GIARDINO DI CEMENTO

di  Ian  McEwan




“Nessun pensiero mi attraversava la mente mentre raccoglievo la tavola e con ogni cura cancellavo l’impronta di mio padre dal cemento fresco, soffice“.
raccontare è il quattordicenne Jack, il secondogenito di una famiglia composta da sei persone, mentre il corpo del padre, avvolto in una coperta rossa, è stato caricato a tutta velocità su di un’ambulanza diretta verso il più vicino ospedale. Non ce la farà però a sopravvivere, e lascerà la moglie con i suoi quattro figli, tutti adolescenti, tranne Tom, ancora un bambino. Da questa morte, forse attesa, (forse desiderata) perché il padre già soffriva di cuore, si dipana tutto il romanzo, iniziato con l’arrivo di diversi sacchi di cemento e poi di sabbia, fatti scaricare nel giardino di casa. Una grande casa la loro, presumibilmente in qualche zona periferica di Londra, dove oramai le vecchie abitazioni sono state demolite quasi tutte per lasciar spazio a palazzi, grattacieli e a una autostrada che però non verrà mai costruita, assenza che contribuirà   a rendere ancor più desolante il paesaggio. Vivono isolati, hanno attorno solo il vuoto ed erbacce che crescono selvaggiamente e impunemente, e quello che prima era stato il loro giardino ben curato, anche se bizzarro nella sua architettura, è stato sostituito da grigio e spesso cemento, perché quel padre fragile, irascibile e ossessivo, già prima di morire, aveva deciso di eliminarlo non potendosene più prendere cura personalmente, lui che lo aveva ideato e quindi realizzato secondo il suo proprio disegno e ghiribizzo. Su quel cemento ancora fresco, la traccia di un’assenza, eliminata con attenzione e cura dal giovane Jack, adolescente in piena tempesta ormonale, che proprio il giorno della morte del padre, si rende conto di produrre liquido spermatico, e quella chiazza umida che brilla adesso sulla sua mano, gli procura orgoglio ed una emozione improvvisa. La osserva   attentamente per individuare finalmente “quegli affarini con le lunghe code guizzanti“, che  esplicitamente evidenziano e testimoniano il suo essere finalmente un uomo.  Il padre non c’è più, e nessuno sembra rimpiangerlo o sentirne la mancanza, la grande casa resiste a tutto e diventa quasi un utero materno, protettiva e contenitiva, soprattutto quando poco dopo anche la madre si ammalerà, morendo di una morte silenziosa, priva di una vera diagnosi, quasi un lento, inesorabile lasciarsi andare. Rimangono questi quattro figli, Julie, Jack, Sue e Tom, da soli e nessuno  ancora  maggiorenne , ancorati selvaggiamente  ad un’adolescenza in piena fioritura, decisi a rimanere uniti, con lo spettro del possibile orfanatrofio per loro e per questo costretti  a nascondere il corpo della madre  in un baule in cantina, in una stanza piena di giocattoli e vestiti vecchi, lasciandolo sprofondare in quella mistura fresca di acqua, polvere e gesso, che si trasformerà ben presto  in  duro cemento usando quella stessa polvere  di gesso  avanzata  alcuni mesi prima dalla cementificazione del giardino. Un sepolcro sotterraneo, mal riuscito e fatto velocemente da mani inesperte, nascosto però allo sguardo e dai possibili sospetti di qualsiasi estraneo, che sembra poter garantire ancora una sorta di unione familiare, un equilibrio, come se niente fosse mai   accaduto, permettendo loro di continuare a vivere come sempre; insieme. Il dolore si mescola all’asprezza della crescita, agli istinti che si muovono sotto pelle e si infiammano al più lieve contatto, i due figli più grandi Julie e Jack, provano una attrazione reciproca sempre più evidente, sempre più forte, sempre sfiorata fin dai loro primi giochi di infanzia. In un certo senso sono loro a divenire i nuovi genitori, a ricoprirne il ruolo senza esserne davvero in grado, ad affrontare a loro modo i problemi di questa nuova famiglia, dove il bambino più piccolo incarna tutto il disagio e le difficoltà di essere orfano, il desiderio di essere ancora cullato, coccolato, accarezzato, in una regressione costante e preoccupante. Non è ancora preparato per affrontare la vita, ha sei anni, è “piccolo, fragile, con le orecchie un po’ a sventola, capelli neri con una folta frangia sbilenca“, l’unico incapace di comprendere completamente il significato della parola morte, pur avendola vista nel corpo irrigidito della madre. Incapace di elaborare il lutto, si ostina a reclamare e richiamare indietro l’infanzia, quella sua purezza e spensieratezza, mentre i fratelli giocano a diventare grandi, affascinati dall’avventura di crescere e di essere finalmente liberi, ma in realtà sepolti all’interno di quella casa troppo grande per loro, troppo stretta per la loro età, una barca lasciata andare alla deriva, sporca e trasandata, sospinta solo dal dolore e dall’inedia, dall’incapacità di rispondere alla vita. Sono uniti questi quattro fratelli, si vogliono bene, ma sono sempre sul punto di separarsi, ognuno alla ricerca di una propria identità, reagiscono in modo diverso al dolore, alla desolazione dell’abbandono. Basterà l’arrivo di un estraneo, di un elemento esterno che per la prima volta penetrerà nella loro casa-fortezza, il ventitreenne fidanzato di Julie, Derek, per sconvolgere, rompere quel loro presunto equilibrio, per disgregare quell’unità fragilissima e profanare quel loro patto segreto, obbligandoli a confrontarsi con l’altro, il diverso da sé, l’estraneo, e con tutto il resto del mondo. Dovranno fare rapidamente i conti con il bene e il male, con il giusto e l’ingiusto, con il lecito e l’illecito, con delle regole. Ma prima che tutto questo avvenga, un attimo prima che il loro mondo crolli e si dissolva per sempre, c’è l’ultimo atto, il momento dell’incesto, forte, potente, amaro, che scuote la vecchia casa fin dalle fondamenta, fino ad insinuarsi nella sacralità di quel sepolcro nascosto in tutta fretta in cantina. E’ a suo modo un atto d’amore e di liberazione, di crescita, di definitivo abbandono del passato, e la penna dello scrittore è abilissima in questa operazione chirurgica, tecnicamente perfetta, e corre velocissima in una spirale sempre più stretta per liberare e disegnare al contempo gli istinti dalla e nella loro morbosità, ammantandoli quasi di una purezza necessaria in un passaggio che sembra l’unica via di uscita possibile da un degrado psichico sempre più invadente ed evidente. Questo è il primo libro che ha scritto Ian McEwan, la sua prima prova, per me riuscitissima, un grande scrittore di grandissimo talento, che mette in scena sentimenti e situazioni scomode, ma assolutamente reali e possibili.  Il suo scavo è psicoanalitico, porta all’estremo situazioni ed istinti, pulsioni, affascinato in questi suoi primi anni di scrittura   dalla psicoanalisi di Freud, che ha studiato e letto approfonditamente. L’adolescenza che descrive e analizza in questo romanzo, che traccia con mano sicura e attenta portandola alle sue più conturbanti cnseguenze, è assolutamente vera, così come veri, reali sono gli impulsi che la attraversano e la alimentano. Non deluderà certo nelle sue successive prove, basta leggersi “Espiazione“ per trovarne conferma,  l’eleganza e la precisione con cui affronta temi e situazioni, analizza e demonizza, scavando sempre  senza tregua affilando con precisione assoluta il suo bisturi- linguaggio, un incontro davvero  felice,  di chi ha totale controllo sui suoi strumenti e li piega docilmente, senza sforzo,  al suo volere. Credo che non dimenticherò la lettura di “The Cement Garden“ 1978, anche se non è  il suo capolavoro né  il suo libro perfetto. Forse però qui è racchiuso il nucleo di tutto il  McEwan che preferisco, uno scrittore che si interroga, indaga, analizza, approfondisce, e sembra non stancarsi mai di farlo. Quando si esauriscono le domande e il desiderio di porsele, la curiosità di comprendere e di capire veramente chi siamo e come siamo fatti, si estingue anche la scrittura, o perlomeno il suo primigenio motivo d’essere.                    







11  Dicembre  2018


Shadowbahn                                      
    

di Steve Erickson


Credevo di aver concluso con questo libro ma mi sbagliavo alla grande! Terminato più di un mese fa, son poi passata ad altre letture. Ma lui ha continuato a perseguitarmi, soprattutto di notte, con le sue immagini potenti, con quel suo cielo mancante di un pezzo, svanito, vuoto, dove sono andate a confluire, a nascondersi, tutte le note musicali e le canzoni del mondo, sparite per sempre dalla faccia della Terra. Sarebbe terribile e terrificante un mondo senza musica, non riesco proprio a immaginarmelo; il vuoto assoluto, totale, il Silenzio nel buio di un Universo che scivola inesorabilmente verso la sua massima espansione per poi magari contrarsi definitivamente nel Nulla. Eppure è anche vero che molte delle azioni umane cancellano, annullano il suono e il conforto della musica, e certamente l’11 settembre 2001 è stata una data che ha dato inizio ad un conto alla rovescia, un countdown di un’umanità arrivata alla soglia della propria estinzione, alla perdita della sua specifica connotazione. Attorno a questo libro, lungo la sua traiettoria d’ombra e di ombre, vorticano instancabilmente altri libri, alcuni già letti, altri da leggere, che mi inchiodano a questa ferita perpetua, a quell’11 Settembre che mai più svanirà dalla Memoria, mentre il cielo invece sì, ha già cominciato a restringersi, a contrarsi, a cancellarsi, a svuotarsi. Ad essere meno luminoso. Ruotano senza sosta attorno al centro gravitazionale di Shadowbahn libri come “Sabato“ di McEwan e “L’uomo che cade“ di Don DeLillo. Ma anche “L’uomo nel buio“, di Paul Auster, “ Molto forte, incredibilmente vicino“, di Jonathan Safran  Foer. “Lunar Park“di Breat Easton Ellis, “Good Life“, di Jay McInerney. “Le altissime torri“, di Lawrence Wright, “Diplopia“ di Clèment Chèroux. “Il terrorista“, di John Updike, “Il secondo aereo“ di Martin Amis, “ La vista della casa della signora Thomson“ (Considera l’aragosta), di David Foster Wallace. Il libro di Philiph Marshall, “Le ragioni di chi ?“, di Naom Chomsky…e molti altri se ne aggiungeranno, temo, nel desiderio di voler  interpretare, decifrare, capire e circoscrivere una tragedia che sembra non voler esaurire più le sue conseguenze, rinnovandosi ovunque e imprevedibilmente in uno stato di  costante terrore.
Ma torniamo a Shadowbath, questo libro che tanto mi ha colpito.  Inizia così, con una breve frase non terminata, “Le cose non scompaiono nel nu…”, e infatti, venti anni dopo l’11 settembre del 2001, le Torri Gemelle tornano a farsi vedere, appaiono agli americani nel South Dakota. Sempre loro, identiche a se stesse ma questa volta spettrali, vuote, allucinanti visioni che hanno la capacità di scomparire e riapparire all’improvviso, proprio come gli incubi peggiori. Due monoliti che puntano verso l’alto nelle Badlands, allucinazioni pop, che si trascinano dietro tutta quella musica che dagli anni trenta è stata prodotta in America, una playlist lunghissima e articolata che va a lambire quel   sogno americano sembra oramai destinato ad una sosta interminabile e definitiva nell’incubo, nel suo doppio, nel suo lato oscuro, sconfinando definitivamente dentro una realtà parallela con derive inquietanti e irrimediabilmente compromesse. Le Torri emanano suoni quasi incomprensibili per chi tenta di avvicinarsi, assorbono ogni vibrazione e ogni frequenza emesse nei loro dintorni, in realtà sono assolutamente silenziose, vuote, mute, scheletri minacciosi di un passato pieno di morte, la musica le avvolge come un’aurora boreale, tutta quella musica di cui è fatto ogni singolo cittadino americano, tutta quella memoria musicale che ognuno porta dentro di sé, nella mente, nel cuore, in ogni fibra del proprio essere. Una di queste due Torri in realtà, al novantatreesimo piano, non è completamente vuota come sembra, nascosto, come ancora dentro al suo sacco amniotico, il fratello gemello di Elvis Presley, quello nato morto, Jesse Garon Presley, ma che in questa dimensione   vive e sopravvive   al posto del fratello. E’ il momento del suo riscatto, è il momento di raccontare la sua storia e di sterminare tutta la musica dalla faccia della terra, come vendetta per la sua non –nascita, il momento dell’Urlo Disarmonico, definitivo, totalizzante.  Vive nel lato ombra della vita, in quegli incubi collettivi che tendono a reiterare l’accaduto perpetuamente proiettandolo all’infinito nel corto circuito cerebrale fino a neutralizzarlo o almeno fino a depotenziarlo della sua carica letale.  Però le canzoni sono dure a morire, sono ostinate, sembrano capaci di resistere a qualsiasi cosa, tutto il libro ne è intriso, libro che è anche un trasversale omaggio “al cantante più famoso di tutti i tempi“. Senza tutta questa musica il viaggio per noi lettori sarebbe troppo doloroso, troppo faticoso, e soffermarsi durante il percorso ad ascoltare ogni canzone citata, aiuta certamente a recuperare un certo equilibrio psichico e mentale. Le storie si sovrappongono, mentre Jesse si risveglia (o sogna di essere)  nella Torre  Sud con una voce persistente nella testa  che gli ricorda di essere nato al posto di qualcun altro , una musica rural nucleare che suona mentre  lui  immagina  un aereo  in fiamme che sta per schiantarsi contro una delle finestre delle Torri, a bordo della loro Toyota Camry colore argento  viaggia una coppia di giovani fratelli, lui un  ventitreenne  bianco di nome  Parker, lei una quindicenne nera di nome Zema, che partiti da Los Angeles tentano di raggiungere le sponde del lago Michigan per andare a trovare la  madre. Il loro viaggio è pieno di musica, apprendono dalla radio la notizia della apparizione improvvisa delle Torri mentre ascoltano le canzoni in voga ai tempi dei loro genitori, in particolare ascoltano la playlist del padre che hanno scaricato sull’autoradio. Il padre è morto, e seguire quella lista è per loro come averlo ancora accanto, è ricordarlo, è affrontare argomenti come l’identità razziale, è rendersi conto di aver vissuto fino a quel momento come due figli unici, chiusi in se stessi, isolati, e forse finalmente trovare l’opportunità per comunicare e scoprire l’amore che li lega. Una deviazione di quattrocento chilometri dal già lunghissimo percorso in programma, per dirigersi verso quel luogo dove le Torri sono ricomparse all’improvviso, e che stanno attirando centinaia di migliaia di persone. Il forte desiderio di voler verificare l’esistenza di quella musica boreale che sembra circondarle, dove si dice che chiunque si avvicini, percepisca qualcosa di diverso da chiunque altro, senta qualcosa di assolutamente personale. Difficile spiegare razionalmente quelle apparizioni, potrebbero essere uno scherzo lungo l’asse dello spazio-tempo, una dimostrazione cosmica dei limiti del razionale, oppure monumentali lapidi della danza degli spiriti. E’ l’anima di tutta quanta l’America nel Giorno della sua definitiva resa dei conti, un audio apocalisse per mano del Dio della morte musicale, un uomo per cui non esiste nessun tempo e luogo, un uomo davvero scatenato, “un uomo in fuga“ che racconta gli incubi racchiusi “nel guscio della  disperazione  di un sognatore “, questa definitiva visione di un America alle soglie della sua sparizione. Percezioni temporali, dimensioni altre, scrittori definitivi, tracce-ombra in cui le cose accadono diversamente e dove Jasse ci conduce con tutta la sua rabbia in questa sua disperata e decisiva lotta contro le canzoni nel cuore nero dell’America, nel sangue ancora caldo di tutte le sue tragedie, con lui, a guardare ancora una volta il cielo dall’altezza delle Torri, in quel brivido di vita, di sogno e di incubo, come angeli pop prima della caduta…  
“aspettandosi di aprire gli occhi e ritrovarsi sul tetto delle Torre, sotto la nera carne di una galassia talmente vicina da poter passare un dito lungo la curva della notte come se fosse la schiena nuda di una donna“.
                                                                                           (Stella Marina)




11  Novembre  2018

STONER                                 

di John Williams




Perché piace tanto Stoner? Perché rimane così a lungo dentro di noi e continuiamo a chiederci cosa ci sia realmente piaciuto di lui e della sua vita? In parte, nella postfazione, anche Peter Cameron si pone le mie stesse domande e cerca di rispondere e di analizzare il successo che ha avuto questo libro (per altro tardivo e soprattutto in Europa), e la sua esigenza di doverlo rileggere ben tre volte. Non credo che arriverò a tanto, non so ancora ben definire quanto l’abbia davvero amato e fino a che punto, forse mi diventerà più chiaro, scrivendone. Ci sono libri di cui posso urlare, senza dubbio alcuno, il mio infinito amore per loro. Mi viene in mente così, di getto senza stare a rifletterci su molto, “Furore“, ma anche, e non vorrei essere ripetitiva, “L’urlo e il furore“. “Suttree“, “Il teatro di Sabbath“, “Underworld“, “Sotto il vulcano“, “L’Aleph“, “Notturno cileno“, “Rayuela“, “La notte“ (Giorgio Manganelli), “Cuore di tenebra“ e moltissimi altri, “Vicino al cuore selvaggio“, “Le onde“, “Memorie di Adriano“, “L’idiota“, “Moby Dick“, “La Tempesta“, ..… potrei continuare per molto molto ancora. Questi libri, imprescindibili per me, hanno avuto un effetto dirompente nella mia vita e nel mio modo di pensare, mi hanno in qualche modo cambiata, sono diventati parte di me, sono con me, sempre, e io con loro. Un’alchimia particolare e assolutamente personale quella tra lettore e autore, tra lettore e libro, tra lettore e personaggio, tra lettore e storia, storia nel senso di narrazione. Il libro viene scritto nel momento stesso in cui viene letto, questo lo diceva anche un grandissimo scrittore prima e soprattutto molto meglio di me, autore e lettore sono in parte la medesima persona e cooperano per renderlo vivo e farlo nascere ogni volta. Ecco quindi che il mio Stoner sarà assolutamente diverso da qualsiasi altro Stoner esistente, che è esistito ed esisterà, sarà diverso persino da quello originale, quello nato dalla mente di John Williams e anche se riusciranno ad assomigliarsi molto, non potranno mai essere identici. Anzi per qualcuno Stoner potrebbe essere soltanto un fallito, un incapace, un uomo che non ha vissuto e non ha saputo vivere pienamente la sua vita, che se l’è lasciata scorrere tra le dita senza mai impugnarla per dirigerla nella direzione desiderata, che non ha avuto reazioni, che non ha urlato quando avrebbe dovuto, che ha subito delle situazioni insopportabili senza mai prendere decisioni forti e drastiche, risolutive. Per altri potrebbe invece essere una sorta di eroe, un eroe al contrario, che è stato in grado di tollerare tutto per l’unico, vero, grande, intimo, inconfessabile amore della sua vita: la Letteratura. Quest’uomo di cui seguiamo tutta la sua normalissima vita, un uomo “qualunque“ che potrebbe essere uno qualsiasi di noi, lo incontriamo fin dall’età dei suoi diciannove anni, nel 1910, anno in cui si iscrive all’università del Missouri. Ed è tutto da lì che ha inizio, è lì che lui propriamente nasce e diventa se stesso. Prima di quella data era soltanto William, il figlio unico di una modesta famiglia, che abitava a Booneville e che per vivere coltivava assieme ai suoi genitori la terra della loro modestissima fattoria; non c’era altro che questo di rilevante nelle loro tre vite, la fattoria e il duro lavoro quotidiano. L’università rappresenta quindi una eccezione, quasi una trasgressione, decisa dal padre ma con l’obbiettivo preciso di poter rendere più proficuo il lavorare la terra, confidando che iscrivendo il figlio ad Agraria, le cose poi sarebbero potute andare meglio, là avrebbe potuto imparare nuove tecniche che avrebbero giovato al loro lavoro e reso meno ostica quella terra così dura, sempre più dura da addomesticare. Così William, con molti sacrifici e dovendo anche lavorare per potersi mantenere agli studi, parte per Columbia, non poi così distante da casa ma dove comunque deve stabilirsi, alloggiando presso dei parenti della madre ai quali dovrà dare però una mano nei lavori domestici, e forse più che una mano. Ed è là che inizia la sua trasformazione. Qualcosa di molto profondo e sconosciuto ma che alberga da qualche parte dentro di lui, lo spinge verso la letteratura. Il suono delle parole di un sonetto di Shakespeare, il settantatreesimo per l’esattezza, declamato splendidamente dal suo insegnante, Archer Sloane, durante una lezione, scava sottili e misteriosi passaggi che una volta percorsi non sarà mai più in grado di dimenticare. Quelle parole così potenti, che da secoli lontani riaffiorano intatte per parlare e a scuotere gli animi, sono “maledette“ e maledetto, perduto, incatenato al loro eterno potere e furore, sarà infatti chi le ascolterà , chi si soffermerà ad ascoltarle attentamente:
“In me tu vedi quel periodo dell’anno
Quando nessuna o poche foglie gialle ancor resistono
su quei rami che fremon contro il freddo,
nudi archi in rovina ove briosi cantarono gli uccelli.
In me tu vedi il crepuscolo di un giorno…….”
William purtroppo quei versi li ha ascoltati bene, li ha sentiti rimbalzare vigorosamente nel suo petto e poi fermarsi come ultima e definitiva destinazione nel cuore,  con   implacabile  determinazione , tanto da sconvolgerlo, da cambiargli la vita, facendolo fremere di pura emozione. Per questo improvviso ed inatteso innamoramento, William compie la sua prima e ritengo anche unica vera trasgressione della sua vita. Scegliendo, compie il suo destino, svincolandosi definitivamente dalla famiglia. “Sei il sognatore, il folle in un mondo ancor più folle di lui, il nostro Don Chisciotte del Midwest, che vaga sotto il cielo azzurro senza Sancho Panza“, gli dirà un giorno uno dei due  e soli amici che ha e che mai avrà, David Masters. E dentro questa frase un po’ delirante e un po’ canzonatoria, detta da studenti universitari tra un bicchiere di birra e l’altro, c’è più verità di quanto si possa inizialmente supporre. Tanto che, mentre i suoi amici partiranno per la guerra, William Stoner, da questo momento in poi soltanto “Stoner“, deciderà di non arruolarsi.  Deciderà di restare per concludere il suo dottorato, deludendo profondamente i suoi amici che continuavano ad incitarlo a gran voce con “tutti dobbiamo fare la nostra parte“, in questa guerra, e forse deludendo un po’ anche il suo insegnante - mentore.  Ma lui rimane, ed è questa a suo modo una scelta, non certo eroica anzi addirittura possibile di ripercussioni negative sulla sua futura carriera accademica, ma assolutamente corrispondente al suo modo di essere, di vivere e di pensare. Diventerà quindi un insegnante universitario svolgendo il suo lavoro fino alla fine dei suoi giorni, con totale, assoluta, irreprensibile dedizione. Ma non c’è nulla di grandioso in questa dedizione, nessuno si ricorderà di lui, né diventerà così importante per qualcuno dei suoi allievi, né farà chissà mai quale grandiosa e luminosa carriera. E allora, tutto qui, questo Stoner? Un uomo che ha scelto la letteratura al posto dell’agraria, che ha amato respirare, inebriarsi di quell‘odore stantio del cuoio e della tela delle vecchie pagine di quei libri della biblioteca universitaria, che ha amato leggere sopra ad ogni altra cosa.   Per quanto potente in lui ,  questa passione rimane sempre sotto controllo, di per sé non giustifica  a livello letterario un interesse, una curiosità così intensa  nel e per il  lettore. Siamo abituati a ben altro dopo aver letto la storia del professor Peter Kien che il grande Elias Canetti ci ha donato nel suo unico romanzo. Tra i due libri “Auto Da Fè“ (1935) e “Stoner“ (1965), sono trascorsi  appena trent’anni, non sono poi  così distanti questi due professori, certo che Kien è però capace di offrirci  un’ossessione pura e travolgente, un furore che ci inchioda alle pagine, che non ci lascia  scampo.  Stoner arriva in ritardo, con moderazione, costruendosi un ritratto che lentamente va ad aderire ai nostri lineamenti, divenendo pagina dopo pagina sempre più simile a noi, un uomo che si muove in profondità, con lentezza, con invisibili e contraddittori moti dell’anima. Eppur si muove. Tanto che arriva per lui anche l’amore per una donna, Edith, si innamora, o crede di innamorarsi di lei, e decide di sposarla. Ma anche in questa circostanza, lui cosa fa invece di scappare a gambe levate, tanto di che pasta è fatta questa donna se ne è già accorto al primo incontro, molto prima di sposarla? Anche questa volta, lui rimane. Resta accanto ad una donna mostruosa, incapace di empatia, incapace di provare sentimenti, di condividere emozioni ed attimi.  Una donna che gli farà una guerra costante e ostinata ogni giorno, che in fondo lo disprezza o che comunque non lo ama come dovrebbe, probabilmente perché lei non sa proprio amare, non ne è proprio capace. Questa donna crea una frattura nel libro, è  talmente  odiosa che noi ci schieriamo subito, iniziamo a prender  posizione, la detestiamo,  senza renderci conto che invece è un personaggio notevolmente interessante, è una proiezione dell’odio, dell’incomunicabilità, dell’incapacità di intendersi, una persona dissociata dalle proprie emozioni, segnata in qualche modo dalla vita molto presto, con qualche trauma irrisolto nel suo passato, che non conosce i propri sentimenti e non è capace di controllarli. Ma lui le resta accanto, anche quando non la ama più, anche quando è costretto a dormire sul divano, esiliato dal proprio studio costruito con amore e dalla compagnia dei suoi libri, anche quando la convivenza è diventata un inferno. Nasce da questo matrimonio infelice, una figlia, Grace, e tutto diventa molto più complicato perché lui questa bambina la ama follemente e teneramente. Ma la moglie riesce a sciupare, ad intervenire anche in questo affetto, allontanando padre e figlia sempre di più, inesorabilmente, con conseguenze disastrose e terribili. Di fronte alla mostruosità, alla incapacità di essere di questa donna, noi iniziamo a voler bene a Stoner, quasi per compensarlo di tanta cattiveria, di tanto oltraggio, di tanta distruttiva invadenza. E già il gioco è fatto, schierandoci dalla sua parte non lo mettiamo più in discussione, siamo già sulla strada dell’innamoramento, siamo i suoi fedeli paladini protettori. Ma lui fa ancor di più per meritarsi il nostro amore: si innamora ancora. E questa volta si innamora di più, totalmente, quando ormai dalla vita non si aspetta più niente, ecco che “accade“ l’amore, questa volta i sensi sono appagati e appaganti, l’intesa fisica e mentale sono qui  al massimo, finalmente  è amato per davvero da Katherine e  si rende conto  che l’amore è “ un processo attraverso il quale una persona tenta di conoscerne un’altra“. Tutto gira nel verso giusto questa volta,  o almeno così sembra.  Lei è una sua giovane allieva ed è un amore intenso e corrisposto, sulle ali di una quasi libertà, non dimentichiamoci che lui   è comunque sposato ed ha famiglia. Ovvio che questa relazione extra coniugale scateni un putiferio in ambito universitario appena viene a galla dalla superficie della clandestinità, e non può più essere ignorata, soprattutto quando come nemico dichiarato e spietato il nostro Stoner ha il rettore in persona, che non aspetta altro che di poterlo incastrare e distruggere, colpendolo nel suo affetto più intimo. Distruggere, che brutta parola, così pesante e umiliante, così definitiva e senza appello, ma in fondo così reale, così viva nel cuore dell’uomo, così inespugnabile. Un odio così profondo e in fondo così banale, per una vecchia questione mai chiarita e sempre supposta, che non vuole morire, che resiste al tempo e alle circostanze, quasi come motivo di vita. Anche in questo caso, Stoner non si smentisce, non fugge, sceglierà il contrario della sua felicità, rinunciando, abbandonando, perdendo l’amore, chiudendosi sempre di più in se stesso. Questa volta però la ferita è mortale, da qui inizia la sua caduta, la sua discesa lenta ma inesorabile verso la morte, che forse era stata semplicemente rimandata con quel suo antieroico ma in fondo anche passionale no alla guerra.  Ma a questo punto noi siamo completamente, devotamente suoi amici, siamo spudoratamente dalla sua parte, affranti quanto lui, indignati contro lui, contro questo castigo che costantemente e ripetutamente si è abbattuto sulla sua vita, piegandolo ogni volta sempre di più, spingendolo al centro di sé nel buio di una sconfinata solitudine. Cosa abbiamo noi da rimproverargli, in fondo? Potevamo costringerlo ad essere diverso da quello che era, spingerlo a reagire in modo diverso contravvenendo alla sua natura?  Chi siamo noi, per permettersi di giudicarlo?  Lui ci ha chiesto soltanto il nostro appoggio silenzioso, umana comprensione, niente di più.  Empatia soprattutto, quella che gli è quasi sempre mancata, che gli è stata negata e che in parte riesce ad intravedere solo poco prima della fine.  In  quel suo gesto finale d’addio,   che ci lega  a lui per sempre, proprio   nelle ultimissime  parole del romanzo ,  noi capiamo  che Stoner non ci è poi  così estraneo, che  non è soltanto fuori di noi, che  non è soltanto un personaggio letterario,  ma è dentro di noi,  ci assomiglia molto più di quello che siamo disposti a credere e a  concedergli, non ci rendiamo conto, se non troppo tardi, che in quel vuoto di vita, in quella solitudine, proprio  lì dentro, è accaduto il miracolo dell’amore. Non abbiamo avuto il tempo per abbracciarlo questo nuovo nostro amico, questo William Stoner, -il libro, scivolando-, si è chiuso per sempre. Rimangono però le sottili vibrazioni, quei battiti di un cuore che alla fine ha ceduto ma che è stato capace di amare tanto, a suo modo, come sapeva fare, come poteva e aveva imparato a fare. In fondo lui si era scelto la sua vita e l’aveva vissuta coerentemente alla sua scelta. Le pagine continuano a risuonare di quei suoi palpiti, a trattenere quell'aritmia di vita. Tutto quello che è invisibile e rimane inaccessibile ai nostri occhi tutto quello che è incomprensibile per la nostra mente e per il nostro cuore, risplende di luce propria, nel silenzio.   
E così ci hai fregato John Williams, bravo! Con questa struttura apparentemente semplice, con questo coinvolgimento emotivo in crescendo, con questa vita apparentemente banale, comune, una vita come tante, che in qualche modo però ci appartiene e ci coinvolge, dove le grandi emozioni sono tutte interiori, trattenute, mai esposte,  ci hai descritto  una vita ordinaria  che proprio nella  sua semplicità, nel suo accadere,  ha avuto la  capacità  di  diventare   straordinaria, unica,  e irripetibile .      

                    




11  Ottobre  2018
                                                           
IL DINER NEL DESERTO

di  James Anderson







C’è sempre una frase nascosta e che si nasconde nella trama di un libro, romanzo o racconto che sia, in questo caso non fa differenza. Rimane appollaiata tra le parole che la schermiscono, fino a quando il lettore non la individua e la afferra per la coda, portandola alla luce. Allora brilla con il suo significato più intimo e tutto il resto da quell’istante si apre ad una comprensione più profonda. Anche in questo libro se ne stava indisturbata nell’ombra a circa due terzi della narrazione, pensando di passare inosservata dopo così tanto tempo. Ma nel deserto la luce è così abbagliante, che è bastato davvero poco per stanarla e tirarla fuori. E’ breve, brevissima, ma fulminante: “Era comunque tutto in prestito“. Eccola, la piccolissima e apparentemente innocua frase, ma di innocuo ha ben poco se la si ascolta attentamente. Tutto infatti ci è dato in prestito, a cominciare da noi stessi e dalla vita, ogni cosa prima o poi va restituita al suo legittimo proprietario. Siamo già un po’ più nudi a questo punto del cammino, più vulnerabili, più insicuri, mentre si cerca di tenere il filo della narrazione, tentando di giungere alla fine delle trecentodieci pagine complessive del romanzo nel bel mezzo di un deserto circondati da personaggi non sempre rassicuranti, che possono sorprenderci e ucciderci da un momento all’altro, senza un motivo apparente, solo perché abbiamo osato ficcare il naso nelle loro vite, non necessariamente esemplari. Ma con noi per fortuna, lungo il percorso tortuoso, impervio e labirintico, c’è Ben Jones, un camionista di quasi quarant’anni che conosce alla perfezione questa lunga strada perché da sempre la percorre; la statale 117 che entra nel deserto dello Utah tagliandolo in due e dove lui svolge il suo quotidiano lavoro di consegne. Conosce ogni luogo e persona, sa orientarsi in questa terra dove un sole rosso gioca a stare in bilico sull’orizzonte, dove miraggi e fantasmi si muovono indisturbati, insieme ai delitti, e dove il confine tra “ciò che è morto e ciò che è vivo“ è spesso confuso ed inesistente. Ma lui sa come orientarsi ed entrare in sintonia con le persone che vi abitano e che qui, per motivi diversi, hanno scelto di vivere e morire. In fondo lui ama questa strada e questo deserto, rispondono al suo senso di solitudine e di smarrimento, di abbandono, sente che qui più che altrove, può essere se stesso e può essere compreso, può essere davvero libero, nonostante con fatica riesca ancora a mantenersi, nonostante i pochi guadagni e la prospettiva di dover abbandonare tutto, camion, rimorchio e pure se stesso. Muoversi in quegli spazi è pericolosissimo, ci sono dei limiti ben precisi che non possono essere oltrepassati, le domande non sono gradite su quella terra arsa dal sole e battuta dal vento, le persone sono schive e restie, solitarie e tentano di disperdere tutto il loro passato, ogni giorno di più, per riuscire ad essere sempre meno esistenti, il deserto sembra garantir loro questa dispersione, aiutandoli a smarrire le proprie tracce, a nasconderli dal resto del mondo ma anche da se stessi. Ben ha imparato ad amare queste persone per quello che sono, ad accettarle senza aspettarsi niente da loro, già contento di poterle avvicinare e di potersi avvicinare senza venir ucciso. Il romanzo ruota attorno al mistero di un violoncello rubato, un violoncello di grandissimo valore spedito di nascosto nel deserto per una storia d’amore conclusasi male. Ma il violoncello rimane in secondo piano, se non per fugaci apparizioni in cui rivendica prepotentemente il ruolo di attore protagonista e in quelle rare occasioni siamo totalmente assorbiti dalla sua consistenza, rapiti dalla sua bellezza e perfezione, da quel suo suono che si muove su corde invisibili che risuonano dentro di noi con feroce potenza. Appare per scomparire subito, lasciandoci con infinite domande nella infuocata terra del deserto, alla ricerca disperata di volti, di storie, qualcuno con cui condividere il viaggio e la bellezza di quei tramonti che, come ben sa chi conosce quel luogo (in parte reale e in parte immaginario, in fondo già Faulkner ci aveva abituato a questa trasposizione dell’immaginario) , vanno osservati dalla direzione meno ovvia, verso est, con il sole alle spalle.
Ci sono poche abitazioni in questo luogo e quelle che ci sono, sono nascoste e difficilmente raggiungibili; alcune baracche, quello che un tempo era stato un diner, Il Premiato Diner del Deserto. Pochi volti, segnati dalla vita, quello di Walt Butterfield, proprietario di quel diner che anno dopo anno è divenuto uno strano tempio del ricordo per un dolore impossibile da dimenticare e che si rinnova ancora sull’eco di un’antica violenza che non trova e non può trovare pace e che si specchia costantemente nell’orrore e nella morte. Collezionista di moto tra le più rare, Walt aveva appena vent’anni quando acquistò quello che allora si chiamava Oasis Cafè per poi trasformarlo nel suo diner. Pieno di speranza e di amore, con la giovanissima moglie al fianco, innamorato e felice. Ma poi la vita, e tutto il resto. Con lui Ben ha un rapporto profondo, fatto di silenziosi patti e regole, quasi un padre che a suo modo lo protegge e sempre a suo modo, molto a suo modo, gli insegna la vita. Una coppia strampalata di fratelli, i fratelli Lacey, Fergus e Duncan, che vivono in due vecchi vagoni merci rossi e che governano una mandria striminzita di cavalli e bovini, nascondendo qualcosa che li consuma da dentro. Impenetrabili e aggressivi, possono diventare pericolosissimi al minimo sospetto di avvicinamento, in fondo non hanno più nulla da perdere. John, il Predicatore, che dalla primavera all’autunno percorre la 117 strada con una croce di legno massiccio sulle spalle, nel vento e nel caldo torrido. Alto e magro, con una barba che cresce indisturbata a proprio piacimento, percorre circa venti chilometri ogni giorno per portare costantemente la parola di Dio dentro quel deserto, lo si sente cantare in quella terra desolata e inconoscibile, muta e respingente, lui canta e prega, ogni istante, perché ormai soltanto quello sa, può e vuole fare. E poi c’è lei, questa nuova creatura, giunta improvvisamente e inattesa come un’apparizione, tanto da ritenerla tale, Claire è il suo nome, con uno di quei volti capaci di metter “radici“ nel cuore di uomo. E quest’uomo, guarda caso, sarà proprio Ben, un dono del deserto ad uno dei suoi figli più cari. Un dono che sarà sogno e insieme incubo, una visione che riempirà e assorbirà tutta la sua vita, così potente ma allo stesso tempo così fragile, labile ed impalpabile. Così lei arriva nel deserto in cerca forse di se stessa, per ricongiungersi alle sue origini, forte e fragile insieme, con un passato recente che continua a tormentarla, con domande che la incalzano e la rendono aggressiva, perché sa che la posta in gioco è troppo alta e non può farcela da sola. Non ha però considerato l’amore, quello che può giungere inaspettatamente, nel punto più buio e nascosto della terra, quello no, non l’aveva preso in considerazione, tutta presa ancora da quella vecchia storia che ancora le sta appiccicata addosso come un abito vecchio e oramai logoro, sfilacciato, pieno di brutti strappi e di amarezza, ma separarsene proprio no, ancora non è capace, perché rimanere nudi fa paura, a volte è spaventoso, così come spaventoso a volte è ammettere a se stessi le proprie colpe, le proprie ostinazioni. Il deserto, il grande, sconfinato, silenzioso protagonista del romanzo, amplifica tutto quello che accade in un cuore, lo fa risplendere ma è ugualmente capace di riempirlo del buio più ostinato, più profondo, sommergendolo di tutto quel dolore inaccessibile e inconsolabile Tutto quello che di vero però c’è stato tra due persone, anche se per un solo attimo, non viene disperso, continua a mostrarsi nella sua pallida e inverosimile luce ricorda un commiato ma che è anche un definitivo incontrarsi, un appartenersi per sempre. E ogni volta e in ogni tramonto di quel deserto, guardando verso est, mentre la musica del violoncello si innalzerà con le sue note più virtuose ed incalzanti, quelle che fanno vibrare le corde più silenziose e private del cuore di un uomo, quegli aliti di vita potranno rendersi visibili come piccole vibrazioni di luce, riempiendo “quel luogo“ della loro presenza sottile. Danzeranno nel buio per celebrare quella festa invisibile tra i vivi e i morti, ed è attraverso quella luce che si intravede, si percepisce appena, tanto che a volte sembra un sogno, a volte un incubo, a volte solo follia, che si può imparare a vedere.
Davvero un bel romanzo, aspetto il seguito, già uscito in America con il titolo Lullaby Road. Non mi sbilancio quasi mai quando di un autore ho letto un solo libro, ma sono quasi sicura che anche il secondo sarà una gran bella lettura, di quelle che non si dimenticano e che restano a tenerci compagnia.

                                                                              (Stella Marina)



11  Settembre  2018

ANNI  LENTI

di Fernando Aramburu






La distanza tra Pamplona (luogo di partenza) e San Sebastiàn (luogo di arrivo),  in Spagna,  non è poi molta, una novantina di chilometri, forse anche meno. Ma può diventare molto ampia se a percorrerla è un bambino di soli otto anni alla fine degli anni ’60 su un autobus chiamato la Roncalesa. Sono tempi duri, tre figli sono troppi per una famiglia in cui il padre si è dato alla fuga e abitando in un piccolo paesino dove c’è poco o nulla, ad esclusione della macelleria Ceferino Arrastia, le prospettive sono davvero scarse e anche il mero sopravvivere diventa difficile. Miglior sorte rispetto ai fratelli tocca a Txiki, questo il nome del bambino protagonista del libro, che essendo il figlio minore, viene spedito a casa della zia a San Sebastiàn piuttosto che venir affidato alla Casa de Misericordia di Pamplona. Ma ritrovarsi da solo a otto anni e non poter condividere un dolore così profondo è molto difficile. L’arrivo nella nuova città e nella nuova famiglia non promette nulla di buono, piove con quella pioggia sottile e triste chiamata “sirimiri“ e  tutto  si tinge  di nostalgia e di pianto. Ad accoglierlo alla fermata dell’autobus c’è il cugino Julen, che però arriva con ritardo, controvoglia e irritato, con una sigaretta tra le labbra, pronto a sfotterlo e a deriderlo, chiamandolo “stronzo navarro“, camminando davanti a lui  a grandi falcate  senza aiutarlo a trascinare né la   pesante valigia né quella  scatola di cartone dove  due galline vive vi   si agitano  dentro senza tregua , omaggio per una ospitalità a lunga scadenza in quel quartiere povero di Ibaeta, costruito sotto il  regime franchista e  dove  la famiglia della zia Maripuy   vive.  Lo sguardo si sofferma per un attimo sul fotogramma di questa famiglia riunita per la cena, in silenzio, in cucina, una famiglia allargata di questo nuovo elemento che la fa crescere dal precedente numero di   quattro   al nuovo numero di cinque, cinque bocche da sfamare, ogni giorno. Di questa immagine si può ascoltare principalmente il rumore costante di bocche che masticano con voracità, interrotto ogni tanto dal tintinnio secco e ripetuto delle posate che si muovono nel piatto, non una parola viene scambiata o condivisa, solo il “grongo“ dalle consistenza gommosa e viscida domina indisturbato    la scena, diviso equamente tra ogni commensale, senza possibilità di replica. Sembra di esserci dentro e di poterla vivere questa immagine, riportata dagli occhi tristi di un bambino che ne assimila ogni dettaglio, ogni sfumatura, mentre cerca di comprendere la sua nuova vita, quella che sarà la sua vita da quel momento in poi. E forse con gli occhi di un bambino, con uno sguardo trasversale sicuramente più umano, si può raccontare meglio e più a fondo la gravità di certi momenti storici concentrando l’attenzione su dei semplici e apparentemente insignificanti dettagli, piuttosto che guardare alle forze d’insieme, ai grandi fatti ed eventi, alle innumerevoli cause. In questo fermo immagine semplice, comune a molte famiglie di quel periodo in Spagna, si intuiscono immediatamente alcune cose, si percepisce sia la difficoltà, subita più che compresa, del vivere, e la rassegnazione ad accontentarsi di ciò che si ha, per quanto possa essere misero, che rappresenta comunque sempre un qualcosa rispetto al possibile nulla, una maniera dignitosa per poter vivere e per poter morire. La rassegnazione tuttavia si muove su correnti sotterranee turbolente e sovversive, nel ’68 la Spagna era un paese che stava subendo da quasi trent’anni una dittatura e che solo il 20 novembre del ’75, con la morte del generalissimo Francisco Franco, cessò, o più precisamente e correttamente oserei dire, “iniziò“ a cessare. Ma fino a quella data, niente partiti, niente giornali, niente sindacati, niente riunioni, i servizi di “intelligenza“ avevano il controllo su ogni cosa, persino sulla lingua. Non si poteva parlare infatti né il catalano né il basco. L’immagine di questo polpo mostruoso condiviso a tavola da questa famiglia, ricorda un po’ questo potere tentacolare e dittatoriale che non lasciava scampo né alternative, incombendo sulle singole vite e dirigendole verso un silenzioso e imposto consenso. Precedentemente un altro autore mi aveva convinto con la descrizione di una dittatura (in questo caso argentina) raccontata   attraverso gli occhi di un bambino, un libro molto bello che mi è rimasto in mente a lungo e che forse non dimenticherò mai, “Kamchatka“, di Marcelo Figueras. Anche qui, un bambino di dieci anni è costretto a fare i conti con una realtà più grande di lui, a vivere con la sua famiglia in clandestinità per salvarsi la vita. E anche lui, come Txiki, riuscirà a raccontarci il Male facendoci anche un po’ sorridere, alleggerendo quello che gli uomini hanno saputo rendere disumano. Txiki non vive in clandestinità, vive nella sua nuova famiglia ed impara a conoscere e a “vedere“   un sacco di cose. Prima di tutto, i suoi parenti. La zia Maripuy, la sorella della madre, una donna forte e determinata, abituata al lavoro duro sin da bambina, pratica, senza tanti peli sulla lingua e senza tanti convenevoli, ma sicuramente l’unica in grado di mantenere salda e unita la famiglia.   La cugina Mari Nieves, di diciassette anni, robusta e con un appetito sessuale smisurato,  in stretta  “ amicizia “ con tutti i ragazzi del quartiere e che, proprio per questa sua propensione ,  ha costanti e furibonde liti con la madre. Lo zio Vicente, dipendente di una fabbrica di saponette che a volte si porta il lavoro anche a casa per arrotondare lo stipendio, facendosi aiutare dalla famiglia. Temperamento malinconico, con poco carattere, incapace di imporre la sua autorità e di far sentire la sua voce, esce di casa al primo problema per recarsi all’osteria dove poter annegare tutti i suoi dispiaceri e la propria incapacità. E poi il cugino Julien, di diciannove anni, con cui Txiki divide la camera. Quel cugino che poco a poco si affeziona a lui e di cui diventa il confidente silenzioso, imparando a convivere con quel suo insopportabile puzzo di piedi e con i suoi modi rudi. Un eroe tragico e inconsapevole di esserlo, che si innamora della causa basca, studiando e imparando di nascosto ogni parola caduta in disuso, fomentato in questo dal parroco Don Victoriano, nelle cui mani e soprattutto sulla cui lingua stanno le sorti di tutte le persone del quartiere. Attraverso i racconti del cugino, sempre fatti di poche parole, di piani grandiosi di cui non lascia intravedere però il fine, né i mezzi, esaltato da ideali più grandi di lui e di cui non conosce completamente la portata né tantomeno i pericoli, il bambino inizia a crescere e a capire come va il mondo, a leggere tra le righe degli eventi. Quei pochi giocattoli che ha e a cui è molto affezionato, che lo tengono legato ancora all’infanzia, alla   madre e ai fratelli lontani,quel piccolo dado azzurro con i punti dorati,  vengono definitivamente calpestati, rotti, dispersi  dalla polizia che fa irruzione  in casa  in cerca di Julen e segnano il  confine ultimo   tra infanzia e vita, tra realtà e finzione, tra giustizia e ingiustizia. Quel dado azzurro lanciato in aria dalla sorte,  deciderà  anche di quel destino avverso che perseguiterà  il cugino e  che si abbatterà, come conseguenza,  su tutta la famiglia ; a suo modo ognuno sarà investito da quella luce sinistra  che nessun cero lasciato acceso dalla zia Maripuy   davanti alla Madonna o a Santa Rita potrà scongiurare o vanificare . E nemmeno l’esilio di Julen aiuterà a render più sopportabile la situazione, quel nome difficile da pronunciare   ma reale, quel nome terrificante e spaventoso perfino da sussurrare all’interno di una famiglia che si contrae nel suo acronimo di “ ETA“. Quel nome appunto rivestirà della sua ombra, di tutte le sue possibili ombre, ogni singola vita di quel piccolo nucleo di persone, colpite come da una maledizione che ben presto non tarderà a mostrare le sue umane sembianze e forse, tragicamente, anche quelle disumane.
Il libro è molto bello, non mi aspettavo tanto dopo “Patria“, anche se in realtà “Anni Lenti“ in Spagna è uscito prima, nel 2012. Interessante è anche la costruzione del romanzo; sono i ricordi di un bambino, che cresciuto e divenuto poi farmacista, decide di affidare la sua storia a Fernando Aramburu  per poterla scrivere. Mentre ricorda quei giorni quella sua famiglia, quei suoi difficili anni di crescita e di apprendistato, cercando di essere preciso il più possibile nei dettagli, lo scrittore, accanto a quella narrazione “orale“, affianca i suoi appunti per costruire un ipotetico, possibile romanzo, concentrandosi sul come mettere in evidenza i fatti, dove  e come porre l’accento e la luce su quella storia che gli viene via via confidata e affidata. Le due voci si fondono e si rafforzano a vicenda, la verità del racconto viene resa più intensa e reale dall’invenzione romanzesca, è il suo respiro. Sappiamo che Aramburu è nato nel 1959 a San Sebastian e che in qualche modo, Txiki, è stato un po’ anche lui stesso. O un suo amico, o forse un suo vicino, con gli scrittori non possiamo essere certi di niente, “sebbene forse la verità sia priva di importanza quando si scrive con propositi romanzeschi“. Ma forse c’è sempre qualcuno a cui si deve chiedere scusa nella vita, ed un romanzo può annullare le distanze e riportare più luce, più parole dentro il silenzio, dentro ciò che è stato dimenticato, dentro ciò che è stato ferito, o ignorato.  
                                                                                                (Stella Marina)       





11  Agosto  2018


BODY ART  

di  Don DeLillo






C’è un rumore in quella grande casa sulla costa del Maine. In una vecchia casa ci sono sempre dei rumori, ma quel rumore ha suono come di presenza. Almeno è quello che a lei sembra. E lo dice a lui, nella luce chiara e luminosa di quella mattina, quella luce resa così vivida da un temporale appena terminato. Sono soli e stanno facendo colazione in quel giorno di fine settimana, con gesti rituali mentre si sussurrano frasi, brevi pensieri ancora impastati di sonno. Lui fuma la sua solita sigaretta dopo il caffè, mentre lei è completamente assorbita da quella luce di quel mattino che sembra dilatare il tempo e mostrarlo nel suo accadere, in una percezione più sottile di sempre, come se le cose le si manifestassero per la prima volta e lei imparasse a vederle, mentre strisce di lucentezza liquida vanno ad infrangersi su quella baia che lei ha di fronte allo sguardo. Forse però, in quelle frasi interrotte, lasciate scivolare dentro l’incantesimo di quella mattina, c’è un significato più profondo di quello che apparentemente sembra manifestarsi, forse in quel rumore percepito c’è già il segno di un accadimento, di un repentino cambiamento, un’incrinatura in quel quotidiano...
Lei si chiama Lauren ed è una body artist, lui è Rey Robles, un regista di alcuni film famosi, ormai però incamminato verso il declino artistico, depresso e alcolizzato. Sta tentando di scrivere una sorta di autobiografia e passeggia nervosamente per le stanze della casa registrando la sua voce su nastri di un minuscolo registratore. Di lui ci rimangono però le poche parole di quella mattina luminosa e una frase che rivolge a lei, pronunciata senza enfasi e senza particolare intonazione: “ il terrore di un’altra giornata normale , tu non sai cosa vuol dire, non ancora “. Eppure in quella frase c’è già una decisione, la premonizione di conseguenze tragiche; uscirà infatti da quella casa per dirigersi in un appartamento di Manhattan e togliersi la vita, sparandosi.
Il racconto è tutto incentrato su questa assenza, su questo vuoto che crea e cerca un diverso rapporto con il significato del tempo. Il dolore attiva percezioni di realtà diverse, nel desiderio di annullare la mancanza, l’abbandono. Così Lauren materializza l’assenza in quel rumore ricorrente che aveva spesso ascoltato con lui e assieme a lui aveva cercato di decifrare per individuarne le possibili cause. Un rumore che improvvisamente si fa presenza ed assume le sembianze di un uomo, di un essere umano del tutto particolare, piccolo e sottile, con i capelli color sabbia. Forse era sempre stato in quella grande casa e aveva abitato con loro “nascondendosi“ ma imparando a conoscerli, imparando a convivere con loro e a loro insaputa. Un uomo forse fuggito da qualche manicomio, ma assolutamente inoffensivo, pura presenza, “una labilità di presenza fisica“, senza nessun tipo di struttura mentale, quasi un bambino, indifeso ed inerme, con una andatura sghemba e incerta. L’iniziale paura lascia il posto alla curiosità, Lauren è attratta da questa presenza che sembra non riuscire a farsi capire, dotata di un linguaggio del tutto particolare che non segue le usuali vie di comunicazione e risulta difficile da interpretare, parole che “sembravano lune in diverse fasi“. Nell’aspetto le ricorda un suo vecchio insegnante che ha avuto alle scuole superiori, Mr Tuttle, così decide di chiamarlo con quello stesso nome dato che lui non riesce ad identificarsi con un nome proprio o semplicemente ha paura di dirlo, o forse il suo nome lo ha dimenticato o non lo ha mai saputo. Le sue parole però sono molto precise, sono quasi mappe che lei deve imparare a decifrare perché sembrano contenere delle indicazioni esatte, dei significati che vanno rintracciati e svelati, quindi attraversati, ma soprattutto hanno un timbro particolare, quasi un’impronta. Risuonano come l’esatta eco della voce del marito, e non per mera imitazione o per il gusto dell’imitazione. E non sono solo parole quelle che lui pronuncia ma intere frasi, intere conversazioni che lei aveva avuto con il marito all’interno di quella stessa casa. Le riconosce, come potrebbe non riconoscerle, ne ricorda ogni attimo e ogni attimo sembra nuovamente rivivere per intero come se avvenisse in quel preciso momento in “un riflesso ghiacciato di memoria“. Il passato recente ricompare nell’oralità inconsapevole di Mr. Tuttle , che forse ha semplicemente acceso il registratore di Rey ed è riuscito ad assorbire come un pappagallo ogni frase incisa su quei nastri di lavoro, perché lui è capace solo di questo, di ripetere frasi ascoltate, di delinearsi attraverso le frasi degli altri. Ma forse, c’è qualcosa in più di questo, qualcosa di indefinibile e impalpabile che si apre ad uno spazi- tempo diverso, ad una conoscenza più sottile della vita e della morte, ad una indagine più accurata del significato della parola Tempo e alla relazione che imbastisce con la vita di ognuno di noi nel suo sfuggente e incomprensibile accadere. Molto bella è l’idea dell’autore di attenuare e rendere più sopportabile questo dolore così profondo e devastante, con il crescere di quella tenerezza per “qualcosa“ di così indifeso, per un essere così inconsapevole e che inconsapevolmente offre un aiuto così potente a Lauren, forse perché capace di vedere e sentire in modo diverso, pura essenza senza pensiero, pura possibilità di vita. Lui, attraverso la sua fragilità, le riporta la presenza del marito, con la capacità di riprodurre esattamente la sua voce e che lei ovviamente chiede di ascoltare più e più volte, per quelle sottilissime vibrazioni che le danno la percezione di un tempo diverso, liquido, puro e nudo, che si manifesta in realtà sovrapposte che hanno la capacità di non contraddirsi e di non annullarsi reciprocamente. Di queste realtà Mr. Tuttle è portatore inconsapevole grazie a quella sua capacità di infiltrarsi, modellarsi dentro altre possibili esistenze, altre tempo-vite. Un essere interamente costituito di pura vulnerabilità, da un caos non eliminabile attraverso l’uso di un linguaggio capace invece per sua stessa natura di circoscrivere e definire, per quel suo tutto personale e strampalato uso di verbi destinati a disintegrarsi non appena vengono pronunciati dalle sue labbra. Grazie a lui Lauren riuscirà però a scorgere e quindi a guardare in quella smagliatura spazio-temporale che lui le ha fatto intravedere, riuscirà ad entrarci, a toccarla, rendendo meno doloroso e più comprensibile il distacco, rendendo più attivi e attenti i sensi, affinando la percezione del proprio corpo e di sé, violando i limiti dell’umano per rendersi capace di totali metamorfosi. E’ questo quello che lui le insegna involontariamente, a violare i limiti dell’umano e ad osservare ad occhi aperti la potenza della realtà, e se questo per lui rappresenta sicuramente il punto di totale disgregazione, per lei probabilmente significa la salvezza. Firmerà la sua performance “Body Time“, dedicandola al marito, in cui il suo corpo sarà capace di trasformarsi di continuo in un altro o in un’altra, esplorando identità profonde e stati indefinibili, nella rappresentazione di quell’eterno dramma umano in perpetua lotta con la morte.
“Andando e venendo me ne andrò. Andrò e verrò. Andarmene mi è capitato. Noi tutti andiamo andremo saremo andati. Perché io sono qui e dove. Me ne andrò oppure no oppure mai. E ho visto quello che vedrò. Se sono dove sarò. Perchè niente si frappone fra me“.
                                                                                                                   Stella Marina



11  Luglio  2018


IL LIBRO DEL MARE                                               

di Morten A. Stroksnes





“E ancora oggi il mare costituisce più del settanta per cento della superficie terrestre. Qualcuno una volta ha scritto che il nostro pianeta non dovrebbe chiamarsi Terra: dovrebbe semplicemente chiamarsi Mare“.
Sono arrivata alle isole Lofoten in un pomeriggio di inizio giugno di alcuni anni fa e lo spettacolo che mi si aprì davanti agli occhi fu davvero maestoso e mozzafiato, intraducibile con delle semplici parole per tentare di raccontarlo. Forse proprio perché in quella circostanza le parole non mi servirono affatto, trascorsi giorni e giorni nel più assoluto silenzio, in una contemplazione profonda, e lì, più che altrove, mi sentii parte integrante di quell’infinita massa d’acqua che mi circondava e mi ricordava costantemente che proprio al suo interno, per noi esseri viventi, tutto aveva avuto inizio. “il mare è l’origine, onde della profonda notte ancestrale ci scorrono dentro “. Ed era proprio quelle onde che sentivo scorrere furiosamente dentro di me, mi sentivo attaccata all’ombelico dell’oceano, dispersa e assorbita in quel paesaggio e, proprio come ha detto Melville, acqua e meditazione sono sposate per sempre. Forse in realtà siamo più pesci che scimmie, conserviamo ancora la memoria degli abissi, quel senso profondo di libertà e di mistero, ma anche una insanabile e primitiva inquietudine. E’ proprio questa inquietudine e il desiderio di sfidare l’impossibile a far muovere il protagonista di questo libro ed il suo amico Hugo, in un’ossessiva e disperata caccia allo squalo della Groenlandia al largo delle coste delle Lofoten a bordo di un piccolo gommone con una lenza a mano, attenti ad evitare ogni più piccolo scoglio e ogni secca, pericoli mortali. “Forze schiaccianti son tempeste e marosi/ il figlio dell’uomo non è che un granello “. Paura? Curiosità? Istinto di caccia? il mito di catturare il Mostro e di estirpare il Male? O il desiderio profondo di confrontarsi con se stessi? Cosa li muove e ci muove in ogni istante?
Morten Strøksnes, protagonista e scrittore del libro, è un giornalista, storico e fotografo norvegese. Questo libro è il racconto di un’amicizia tra due uomini, quella tra lo scrittore stesso e Hugo, un famoso artista e pittore norvegese ed è una storia vera. Vivendo in parti diverse della Norvegia, Morten a Sud e Hugo a nord, si ritrovano a Skrova proprio per dare la caccia al più antico squalo fino ad ora conosciuto, lo squalo della Groenlandia che può vivere, secondo recenti scoperte, quattrocento ma forse anche cinquecento anni, ed è considerato il più longevo vertebrato del pianeta. Lento e indolente, ha però occhi verdi fluorescenti al buio, ipnotici e letali ed è dotato di un’arma elettromagnetica segreta, riesce a percepire variazioni di campi elettrici fino a un miliardesimo di volt! “Quello che dovremmo catturare magari se ne andava già placidamente in giro per i bui abissi dell’oceano prima che il Mayflower salpasse verso la nuova colonia della Virginia del Nord, o che Niccolò Copernico scoprisse che era la terra a girare intorno al sole“. L’attesa per le condizioni metereologiche ideali per poter affrontare il mare, concede allo scrittore la possibilità di avventurarsi in lunghe digressioni, sia filosofiche, che storiche e oceanografiche, ricche di racconti e antiche leggende. Nelle pause, che possono essere di giorni ma anche di mesi, l’autore celebra il Mare, la Natura, i paesaggi incontaminati ( forse ) delle Lofoten, l’acqua che a volte è ferma e immobile come bianco metallo liquido, i piccoli villaggi di pescatori con le vecchie rorbuer, il Moskenstraumen, quel pericoloso gorgo di impetuose correnti di cui anche Edgar Allan Poe narrò nell’allucinante racconto “ una discesa nel Maelstrom“. Sonda l’autore, con infaticabile coraggio e inesauribile passione, la profondità degli abissi marini, cercando di renderli meno oscuri, svelando alcune conoscenze apprese dalla lettura di tantissimi libri e testi scientifici, rendendoceli vivi di vita e pieni di bagliori di luce. Con me trova terreno fertile il caro Strøksnes, appassionata come sono di mare, starei ore ed ore ad ascoltare i suoi racconti sui più pazzeschi animali marini, inimmaginabili anche con la più fervida fantasia. Eppure la natura è sorprendente e sorprendentemente organizzata per vivere e poter vivere nelle condizioni più impensabili. La capacità di metamorfosi, i trucchi per disorientare i predatori, alcuni pesci che all’improvviso si credono delfini ed iniziano a saltare, rincorrendosi sulla superficie del mare, dimentichi di essere altro. Ma il mare è spietato, non perdona errori né leggerezze, ingoia e disperde. Credo che come animale marino me la sarei cavata malissimo, sempre persa nelle mie deriva mentali, sarei stata una preda facilissima anche per il più tonto degli squali elefante, generalmente innocui perché si cibano di plancton, ma il plancton , come si sa, può assumere le forme più strane e sorprendenti, figurazioni caleidoscopiche inimmaginabili, può prendere la forma di quasi tutto quello che c’è nel mondo… Capire però che anche nell’abisso più profondo, alla sua fine, non c’è quel buio che credevamo vi dominasse, ma che invece luci bioluminescenti prodotte da diverse specie rendono azzurra tale profondità, ha sicuramente un aspetto consolatorio e sorprendentemente affascinante. Il Mare è tuttora un grande mistero, ancora tutto da scoprire, da interpretare, da ascoltare. Cerco così di immaginarmi la danza elegante ma anche furiosa e furibonda di un immenso calamaro gigante sul fondo del mare, con i suoi otto tentacoli che possono arrivare ad una lunghezza di otto metri. Ritrovarselo all’improvviso davanti con i suoi grandi occhi rotondi, pronto a combattere, credo sia uno spettacolo quasi infernale, forse per questo i nostri antenati sono usciti di corsa dall’acqua confidando in un habitat più tranquillo sulla terraferma. Eppure questa vita che brulica sui fondali marini mi attrae moltissimo, non per niente uno dei miei libri preferiti è il Moby Dick, quel “gran demonio vagante“, quel grosso capodoglio bianco, a cui il capitano Achab ha dato spietatamente la caccia per tutta la vita divenendo la sua ossessione, la sua unica ragione di vita . Ma sarà proprio quel capodoglio a portarlo con sé sul fondo degli abissi, facendolo rimanere impigliato nella corda del suo stesso rampone. Ma Morten e Hugo, sebbene conoscano alla perfezione il Moby Dick, non si lasciano demoralizzare dalla tragica sorte del Capitano Achab e del suo equipaggio. Continuano a tracciare ogni tipo di segno utile sulle loro carte navali, interrogando i più anziani pescatori, mai sazi di ascoltare storie e consigli mentre preparano la loro esca, cercando di sfidare l’intelligenza e la potenza marina. Confidano di veder comparire prima o poi il loro squalo con quella sua pelle che apparentemente sembra liscia ma che diventa affilata se accarezzata contropelo, dotata di piccolissimi denti epidermici, taglienti come lame di rasoio. Il suo corpo e i suoi occhi sono interamente ricoperti di parassiti, la sua carne contiene ossido di trimetilammina che è una neurotossina e se, mangiata senza essere trattata, può dare la sbronza da squalo, una sorta di ubriachezza paralizzante. In quelle lunghe e a tratti snervanti giornate di attesa, Morten e Hugo passano il tempo a guardare vecchie fotografie in bianco e nero, a leggere giornali ritrovati e dimenticati da anni in vecchie stanze, ricordano la vita dei loro avi, il modo e i mezzi con cui pescavano e cucinavano il pesce, le eroiche e indemoniate lotte che hanno intrapreso con il mare e con la natura. Si rammentano, sgomenti, di tutti quei pesci che prima in abbondanza erano presenti e che poi all’improvviso sono scomparsi da uno dei mari più puliti al mondo, ma purtroppo non privo della presenza di metalli pesanti, perché, come ci ricorda lo stesso Strøksnes , “ il mare è un come un grande organismo e questo tratto aperto è direttamente collegato al sistema globale delle correnti, di cui molte sono dirette al nord “. Tutto è interconnesso, più di quanto riusciamo ad immaginare e a comprendere, magari riuscissimo davvero a capirlo questo elementare, primitivo e semplice concetto.
L’attesa di questi due amici, è fatta anche di passaggi, di stagioni che intanto cambiano pelle, si trasformano, dall’estate si passa all’autunno, i paesaggi assumano aspetti completamente diversi mutando davanti al nostro sguardo rapito dalla stupefacente capacità di metamorfosi, il clima diviene via via più rigido, i magnifici uccelli emigrano per ritornare la prossima primavera. I colori, la luce, i silenzi hanno spessori diversi. La Natura dimostra cosa è capace di fare in pochi giorni, ma anche in pochi istanti, dalla luce si passa al buio, il sole a mezzanotte accorcia le sue distanze, tutto sembra ritirarsi dentro un riposo inquieto, capriccioso e misterioso, il mare e il cielo si fondono in un unico elemento che in breve può farsi minaccioso, spettacolare e violento. Sostare dentro la vecchia Stazione di Aasjiord, dove l’attività è cessata intorno agli anni Settanta e che adesso, grazie alle cure e la ristrutturazione di Hugo che ne è il proprietario assieme alla moglie, sta riprendendo vita, è sostare nel passato della Norvegia, nella preziosa possente fragile bellezza di questo paese. E’ ritrovare tutte le voci di persone, gli oggetti, gli utensili, i registri di quell’antica attività, tutta l’enorme quantità di pesce che lì è arrivata per poi essere lavorata e spedita all’estero. Per Hugo è una grande soddisfazione ridar vita a quella vecchia stazione di famiglia, ristrutturare le due vecchie case che la componevano, ridipingerle nei colori originali di rosso e di bianco. Questa stazione sembra una nave perfettamente attrezzata per resistere alle intemperie della Natura, due forze contrapposte ma unite da un reciproco rispetto, che si tendono un invisibile e sottile filo di reciproca intesa. Accoccolarsi al riparo, mentre fuori infuria la tempesta, interpretare correttamente quei segni di buon auspicio, ascoltare attentamente la voce della natura e di ogni suo elemento. Attendere il momento propizio, con audacia ma assolutamente senza presunzione. La disfatta può esser pronta ad ogni piccolo, microscopico, fatale errore. Le storie che le pareti di quella vecchia stazione raccontano, non fanno che sottolineare questo profondo rispetto che il mare incute e pretende. Morten e Hugo attendono, con pazienza, pescando merluzzi, affinando la tattica e la tecnica per catturare il loro squalo, attenti a non urtare la dea degli abissi, Ràn, che trascina con sé, nel suo regno in fondo al mare, tutti i marinai annegati come racconta la mitologia norrena. Lo sguardo deve affinarsi, deve farsi silenzioso per poter percepire ogni minimo cambiamento, ogni minima vibrazione. Accogliere tutta quella prepotente bellezza non è facile, non è semplice resistere al suo dominio indiscusso e indiscutibile. Niente, non siamo nulla su quella terra,( né su questa, per altro ), talmente evidente da sentirsene schiacciati, sopraffatti. Il mare se la cava benissimo senza di noi, dice l’autore, siamo noi che non ce la caviamo senza di lui. Intanto la caccia continua, lo squalo forse abboccherà, comprenderà, ricorderà attimi e volti, mentre il mare si richiuderà su una vittoria o una sconfitta. O su una tregua. Ma qualcuno una volta ha scritto che la storia è un bambino che costruisce un castello di sabbia in riva al mare. Niente di più. Niente di meno.

11  Giugno  2018

LA CANZONE DEL RITORNO                                         

di  David  Trueba





“…quando abbiamo smesso di fare castelli sulla riva del mare? Quando abbiamo commesso questo errore? Quando abbiamo accettato l’idea insolente che quella è roba da bambini? Magari non abbiamo mai smesso di fare castelli di sabbia, solo che non li chiamiamo più così. Un po’ come pur essendo genitori non smettiamo di essere figli.“
E’ Dani Mosca a porsi queste domande, il protagonista del romanzo, un cantautore e musicista di quarantacinque anni che vive a Madrid. Ed è proprio una lunghissima canzone questo romanzo, un inno d’amore alla vita, un modo per riattraversarla e ripensarla, ma anche un modo per riappropriarsene, per imparare a conviverci. La morte del padre è il tema di sottofondo su cui tutto il romanzo viene poi strutturato, l’evento tragico impone, richiede che, come figlio e padre di due bambini, Daniel si interroghi ripercorrendo all’indietro tutta la sua esistenza, cercando di percepirla fin a quel piccolissimo ed invisibile punto da cui tutto per lui ha avuto inizio, scoprendone l’origine. Come si fa e come è possibile descrivere tutto quello che ci è accaduto, raccontare le tante e diverse emozioni che ci hanno investito e attraversato nel corso degli anni, nel bene e nel male, e che hanno fatto di noi quello che siamo adesso, in questo preciso momento? Raccontare l’infanzia, gli affetti, la scoperta del mondo. L’amicizia e poi l’amore. Ma anche l’abbandono, le frustrazioni, le sconfitte, tutti i grandi e piccoli errori. La nascita, la morte, il dolore. La felicità. Condensare tutto in parole è assolutamente impossibile. Solo con la musica, soltanto la musica è capace di ridonare in un solo istante la profonda silenziosa misteriosa essenza di ciò che siamo, il nostro movimento nel tempo. Ed è servendosi della musica che Trueba e il protagonista del suo romanzo riescono insieme a rintracciare i ricordi, il flusso di una vita, a comprenderla ed accettarla per quello che è, per renderla sempre più corrispondente alla propria natura e ai propri ideali, per viverla in tutta la pienezza possibile senza rimpianti e sensi di colpa, cercando di non lasciarsela sfuggire senza averla prima davvero vissuta.
 Daniel ha promesso al padre che lo riporterà, una volta che non ci sarà più, nel suo paese d’origine, alla solidità delle fondamenta originarie, e infatti, dopo alcuni anni dalla sua morte, con un carro funebre guidato dal simpaticissimo ecuadoregno Jairo, imprescindibile presenza, percorrerà un viaggio nel cuore antico della Spagna, per arrivare in quella terra nella regione di Tierras de Campos, a Garrafal de Campos, dove appunto suo padre era nato e dove lui invece, fino all’adolescenza, aveva trascorso tutte le vacanze . Il viaggio sarà il modo per ricordare, lasciando le emozioni fluire liberamente, per abbandonarsi a tutta la bellezza di quei luoghi che gli scorrono davanti allo sguardo, cercando di comprenderne tutto il significato in quel loro mutevole e cangiante aspetto, il cui riflesso è stato tenacemente custodito dagli anni di ogni secolo, quelle costanti metamorfosi dovute alla mano del tempo e degli uomini. Principalmente in risalto e a confronto ci sono due generazioni con aspettative e valori diversi, quella del padre e quella del figlio, appunto. “La mano di mio padre aveva passato i suoi primi vent’anni a lavorare i campi e poi in guerra; la mia, in quello stesso lasso di tempo, si era dedicata a fare le seghe e a suonare la chitarra “, dirà Daniel, nato quando l’uomo metteva piede sulla Luna, a differenza del padre che invece era nato mentre gli europei si ammazzavano nelle trincee, “quando ancora, poveri ingenui, non avevano cominciato a numerare le guerre mondiali “. E’ una generazione in cui mi rifletto quella di Daniel, “una generazione impantanata in mezzo a un guado “, e spesso il confronto con la vita che hanno avuto i miei genitori è impietoso. Noi siamo quelli che abbiamo beneficiato di un certo benessere, avendo la possibilità principalmente di poter i studiare, di fare l’Università, di sceglierci una vita più liberamente avendo la leggerezza per poterlo fare, forse mai completamente consapevoli di questa grandissima opportunità. Questa responsabilità, senza dubbio una meravigliosa opportunità, comunque ha pesato e pesa, continua ad incidere sulle nostre vite, anche su quella di Daniel, che ha scelto fin da giovane una carriera potenzialmente senza un futuro, dedicandosi alla musica, scrivendo canzoni e suonando la chitarra assieme ad un gruppo sgangherato di suoi coetanei e amici, dediti all’alcol e alla droga e ad ogni tipo di sregolatezza. Naturalmente il padre non ha mai condiviso questa scelta, un padre all’inizio contadino e poi venditore porta a porta, che divenne falangista durante la Guerra civile per paura della minaccia comunista e che vide in faccia tutti gli orrori e le mostruosità di una guerra, fame, freddo, crudeltà, povertà e tanta, tantissima morte. Il figlio d’altronde non è mai riuscito a comprendere fino il fondo la profonda ostilità del padre nei confronti del suo modo di vivere e di guadagnarsi da vivere, “avanti, cercati un lavoro, figlio mio, e piantala di renderti ridicolo “, neppure quando per Dani Mosca arriverà il successo e la notorietà, soldi e tournèe in tutto il mondo. Difficile è per il padre riuscire a comprendere la necessità che questa musica ha per il figlio, il profondo senso di libertà che è capace di donargli, la fondamentale consolazione che gli offre. La possibilità di sanare le sue ferite e di cantare, di mettere in musica tutto quello che ha dentro, di rappresentare attraverso una canzone il mondo ideale in cui amerebbe e vorrebbe vivere. Quel piacere di tenere in mano una chitarra e riuscire a farla suonare splendidamente, sentendosi il cuore in gola per l’emozione. Non è così facile capirsi partendo da situazioni completamente diverse, da visioni e opportunità opposte, non è facile non investire i figli dei propri desideri, proiettando su di loro quello che a noi è mancato o le nostre aspettative o le nostre paure. E non è facile capire per i figli quello che i genitori hanno sofferto, quello che non hanno potuto avere, quello che non sono potuti o riusciti ad essere. Ricordo che mia madre quando era piccola mi voleva trasformare in una grandissima pianista (grande era troppo poco!) , ed io invece odiavo ferocemente quei tasti bianchi e neri , li detestavo. Ricordo il supplizio di quelle ore interminabili di lezione forzata quando fuori c’era un sole immenso e luminoso che splendeva, e io che non sognavo altro che scorrazzare in un prato verde, libera da qualsiasi tipo di costrizione e soprattutto dal solfeggio, da quella mano morta che ricadendo sulla tastiera, cercava di articolare un ritmo che in quel momento non mi corrispondeva affatto. Non mi bastava sapere che lei non aveva potuto studiare il pianoforte e che lo aveva tanto e ardentemente desiderato, io urlavo soltanto e vendicavo il mio assoluto desiderio di libertà, concedendomi a tutti quegli errori possibili che speravo, mi avrebbero prima o poi condotto, verso quello che veramente amavo, (adesso adoro il pianoforte, sia chiaro). A volte, anzi, molto spesso mi sorprendo a domandarmi se sono stata una brava figlia ed è la medesima domanda che si pone Daniel, quella domanda che quando i genitori vengono a mancare, diviene urgente ed estremamente dolorosa. In questo viaggio verso la terra del padre, lontano dal cuore pulsante e caotico di Madrid, Daniel trova in parte le risposte alle sue domande, riscoprendo le sue origini e la presenza degli amici più cari, anche se fisicamente non sono presenti e non hanno mai vissuto in quel piccolo paese. Riassapora l’odore e gli odori dell’infanzia, la consistenza rossa e polverosa di quella sua terra da cui è fuggito ma che lo ha anche formato, dove ha imparato a distinguere chi e come essere, cosa desiderare e cosa rifiutare. Quel suo ritornare ha un andamento lento e discontinuo, è una presa di coscienza a tratti dolorosa, malinconica ma anche piena di dolcezza e di bellissimi ricordi, ha tratti è un jazz, a tratti un rock indemoniato, a volte uno struggente soul. Ha il sapore di amori tanto amati e desiderati, il volto di due donne, Oliva e Kei, e di due madri. Ha il suono di voci amiche, di amici per l’eternità, un legame che neppure la morte può spezzare perché quegli amici, e quell’amico in particolare, Gus, è sangue e cuore, ed è e sarà per sempre, nonostante quel mix letale di pasticche, anfetamine e alcol. Quel ritornare alle origini è anche un confrontarsi a ritroso con il lontano Giappone dove Daniel ha conosciuto sua moglie, la madre dei suoi due figli, e dove ha vissuto per alcuni anni, ma è anche una dichiarazione d’amore per la sua terra, ricca di eventi e di storia, la Spagna, e per la sua lingua, lo spagnolo, così diversa dal giapponese dei suoi figli. Le radici nutrono ma a volte non permettono di volare, afferma Daniel, ma il volo è sempre solitario e individuale, ed è presa di coscienza, a volte lenta e che probabilmente non si esaurisce mai, ma che è necessaria per rispondere pienamente a noi stessi, a ciò che siamo e vogliamo essere. Il passato è ovunque, siamo impastati di passato, bisogna imparare a conviverci senza rimanerne sopraffatti e senza aver paura che scomparendo, possa cancellare ogni nostra labile traccia, ogni piccolo segno che abbiamo tentato di lasciare su questa terra. “C’è passato nel presente e c’è passato nel futuro. Impregnato, incistato, diluito, soffuso, mescolato, impastato, sfocato. C’è passato nel ricordo, nell’espressione e nei tratti del viso, nelle frasi che si dicono, nelle soluzioni che si adottano. C’è passato nell’immaginazione, che a volte è una proiezione delle esperienze vissute. C’è passato nei passi da fare, nella carriera che hai davanti, nello sguardo, nel racconto, nell’invenzione, nei sapori. Le canzoni sono intrise di passato. Non esistono canzoni del futuro, è un’arte priva di fantascienza. C’è passato nelle passioni, nella sventura, nei sogni. C’è passato nell’avvenire, nei piani futuri e persino nelle ipoteche. C’è passato nei tuoi figli, nei tuoi nipoti, nei loro gesti, nei loro nomi. C’è passato nelle strade della tua città, nei dintorni, c’è passato in ogni persona, persino in quelle che non sono nate “. Rimane la musica a sostenerci sempre, a farci commuoverci profondamente, a rammentarci volti, luoghi e sogni, facendoci vibrare come sottili corde tese sopra il cuore invisibile della nostra essenza. La musica è un po’ come questo libro, un ritorno, un ritornare, un luogo dove possono nascere canzoni. E le canzoni sono principalmente emozioni, sempre. E senza emozioni, come dice Daniel, non c’è esistenza, non si potrebbe, non si riuscirebbe a vivere. Ritrovare la forza di credere nei propri ideali, è questo il significato di questa canzone del ritorno, ricominciando a costruire i propri castelli di sabbia, anche se davvero a volte pare proprio difficile, impossibile riuscirci. “Cantarli, sognarli, o a sentirne rabbiosamente la mancanza quando senti di averli persi e ci metti l’anima per ritrovarli. Perché no? E’ lì che comincia tutto “…


                                                                                      STELLA  MARINA
 https://youtu.be/0sB3Fjw3Uvc



11  Maggio  2018

INGHIOTTITA

di Réjan Ducharme


“Non si nasce nascendo. Si nasce qualche anno dopo, quando si ha coscienza di essere. Io sono nata verso i cinque anni, se ricordo bene. E nascere a quell’età è nascere troppo tardi, perché a quell’età hai già un passato, l’anima ha già una forma“.
Ricordo molto precisamente quel momento in cui … “si nasce qualche anno dopo“. Mi rivedo seduta al tavolo da pranzo, in mezzo ai miei genitori che come al solito, seguendo il telegiornale, si scambiavano opinioni o discutevano su qualche argomento da “adulti“. Generalmente io ero completamente dissolta nel mio mondo di fantasia, assorbita dalle infinite forme che potevano assumere le molliche di pane, attenta a tagliare ed allineare perfettamente ogni cosa nel piatto, mangiando uno ad uno i fili di pasta con una devozione che ancor oggi conservo, un modo tutto mio di onorare il cibo. Improvvisamente un giorno alzai la testa, riemergendo dai miei immaginifici e magici pensieri, ed intervenni nella discussione in corso, con tono pacato ma deciso. Espressi la mia opinione motivandola così accuratamente da sembrare meditata da tempo mentre invece era estemporanea, appena nata. I miei genitori rimasero senza parole, ricordo quel silenzio quasi opprimente, vuoto, incolmabile: un orribile mostro posseduto dalla parola sedeva alla loro tavola, qualcosa improvvisamente e incomprensibilmente era cambiato, quella bambina che poco prima giocava e che loro amavano teneramente, era sparita per sempre. In quel preciso momento davvero pensai: ”Eccomi: sono io!“. “Da questo momento vi renderò la vita difficilissima, non riuscirete più a parlare senza che io dica la mia e la dirò soltanto assecondando la mia natura e il mio pensiero“. Ecco perché mi sono ritrovata così pienamente in questa frase di Rèjean Ducharme, l’autore di questo romanzo, “Inghiottita“, perché quel momento lo ricordo con precisione assoluta, perché in quel momento sentii che mi era stato donato un potere grandissimo e che dovevo imparare ad usarlo correttamente ma in fretta. Ero viva e la mia voce parlava riuscendo a toccare e ad incrinare la superficie delle cose, a insinuarsi dentro la loro apparenza per ricercarne un significato esclusivamente e solo mio. Forse “quel giorno“ avevo più di cinque anni, forse sette o otto, magari nove, ma in quel momento io nacqui a me stessa, definitivamente e per sempre.
La protagonista di questo libro ha avuto coscienza di sé molto prima di me, io ci sono arrivata un po’ dopo di lei e pur essendo una bambina di nove anni quando inizia a raccontare la sua storia, sembra dominare in piena consapevolezza tutto il mondo, sembra essere posseduta da un’anima antica che la fa muovere nella vita con una sicurezza e spregiudicatezza che solo chi ha più volte vissuto, e sempre a lungo, può aver raggiunto. E’ questo contrasto fortissimo tra una bambina appena nata alla vita, dallo sguardo ingenuo e puro, e un’anziana, visionaria e disincantata, feroce e belligerante, arrogante ed empia, insopportabile e blasfema, ad avermi affascinato di questo personaggio, queste sue due anime che convivono all’unisono dentro di lei e all’unisono si muovono per disfare e ricreare il mondo. Un’ avvelenata sete di vita la alimenta, il desiderio prepotente di rompere ogni schema, di distruggere qualsiasi forma di attaccamento con la famiglia per ri-generarsi, ri-crearsi secondo la sua natura più intima. Una personalità forte e fragile al contempo, desiderosa di annullare tutti i legami per non sentire e soprattutto non subire la sofferenza che quei legami possono a volte infliggere. Per non soffrire dell’amore non ricevuto o non offerto come desiderato, ma contemporaneamente anche consapevole di non poterne fare a meno, consapevole della necessità dell’amore che riconosce come il suo peggior nemico, da combattere fino alla completa, totale eliminazione. La solitudine sarà la sua fortezza, il suo ponte levatoio sulla vita, la sua sacca amniotica per rinascere come partorita unicamente da se stessa, dai suoi processi e percorsi mentali. Figlia di un padre ebreo e di una madre cattolica, vive in una famiglia che è in totale disarmonia, tanto che i genitori si sono spartiti all’interno della stessa casa, (casa che è una vera e propria abbazia), l’educazione dei due figli, ed inveiscono continuamente l’uno contro l’altra, incolpandosi reciprocamente e ossessivamente di non essere in grado di saper crescere un figlio, sputandosi addosso le più orribili ingiurie e offese. A lei è toccato in sorte di essere “la figlia“ di suo padre, e quindi di religione ebraica, costretta a frequentare la sinagoga, ascoltare il rabbino, sorbirsi interminabili ore di prediche, lezioni di canto, mentre in cuor suo coltiva ardentemente il sogno di divenire empia, la più empia di tutti, empia all’ennesima potenza . Sono stata risucchiata dal vortice di questa narrazione, colpita dalla qualità e dalla profondità di scrittura, da una forza che non ha cedimenti in nessuna parte della narrazione e che non concede mai tregua, è come leggere in apnea, senza la possibilità di tornare in superficie a respirare. Non si respira, si inghiotte voracemente e spasmodicamente tutto. Sono stata soggiogata da questa vita infuocata di passione, una passione al contrario, che tenta disperatamente di non sentire, di non appartenere, di non provare sentimenti, di non dipendere da nessuno, che preferisce l’odio all’amore, perché assolutamente più autentico e vero. Non bisogna lasciarsi andare ad amare, è come lasciarsi andare, farsi distruggere, desiderare di essere distrutti, è questo quello che lei pensa. Si lascia così assorbire , risucchiare da questa sua anima indemoniata, incendiata, che la conduce costantemente , senza sosta, in una lotta contro tutto e tutti, in un autismo di sentimenti disperante, assoluto, in un vuoto da cui è difficile uscire senza precipitare nell’abisso del nulla. Bèrènice, Bèrènice Einberg, questo il suo nome, tenta con ogni mezzo, con tutta la forza possibile, di non essere inghiottita da troppa Vita, ha paura di questa vita che si muove così rapidamente e così rapidamente crea legami indissolubili, generando forme, dipendenze, modi comuni di pensare e di vivere. Non può e non vuole essere risucchiata da un mondo che non le appartiene e che non ha creato lei, con regole che non le corrispondono e alle quali non vuole assolutamente sottomettersi. I genitori, il fratello, una casa, l’isola in cui vive, gli altri luoghi in cui vivrà. Gli alberi, gli animali, i fiori, le farfalle. Il suo corpo. Tutto la risucchia e da tutto vuol essere espulsa per sempre, c’è troppa vita intorno a lei, troppi tranelli orditi dall’amore. Così, chiudere gli occhi le sembra il miglior modo per resistere, ma dentro il buio dello sguardo, c’è soltanto il vuoto. Il vuoto potrebbe essere anche un nascondiglio ideale per una bambina che desideri nascere per partenogenesi, fecondata unicamente da quella sua smodata volontà di dominio che le consenta finalmente di imporre le sue regole su tutto quel mondo che riuscirà a toccare, con il suo unico, nuovo sfavillante vocabolario che ha inventato e che inventa di continuo. “Vaccata di una vaccata“, accidenti, in che razza di mondo sei capitata, Bèrènice, è proprio una gran vaccata di mondo. E’ così difficile viverlo, lo so, comprendo la tua furia incontrollabile, il tuo odio furibondo, la tua follia distruttrice , il tuo continuo gridare, urlare, demolire. Seduta tra cielo e terra, tra il giorno e la notte, osservi il tuo personale universo che così assurdamente va consumandosi tra arbitrari confini territoriali e guerre di religione, cerchi la radice del male e ci costruisci attorno il tuo dominio in un atto di persecuzione assoluta che non ha confini né limiti, né genere, né sesso. Ci vorrebbe un mentitore sublime per convincerti del contrario, e non so cosa controbattere quando tu mi dici che bisogna vivere in modo deciso, faccia a faccia con la propria angoscia. Perché sì, hai ragione, non si può fare altrimenti. Radicarsi nel proprio passato non aiuta ad estorcere il male, bisogna risalire più indietro, molto più indietro fino alla visione primordiale di quelle piccole masse sferiche da cui nacque quello strambo ghiribizzo di riprodursi , e che una volta iniziato, non ha più cessato di accadere. Che ci possiamo fare, Bèrènice? Ci abbiamo preso gusto, un gran ghiribizzo ha colto noi umani e ci siamo riprodotti in miliardi di esemplari. Forse bisognerebbe essere in grado di spingerci ancora più lontano, spararsi direttamente dentro tutto quel buio in cui non saremo mai, mai in grado di vedere intuendo solo pallidi riflessi di universi in espansione, per comprendere la radice di tutto. E come risposta tu allora urli, sbraiti, ti dimeni come in preda a convulsioni, sei tutta completamente sbagliata. Folle in quel tuo desiderio di voler sposare tuo fratello, lui, il solo che ami. Continui costantemente a inviargli lettere appassionate, peccaminose, che sai benissimo che verranno intercettate da tuo padre e non avranno risposta. E tutto questo unicamente per il gusto di scardinare quella tua assurda famiglia, sparando direttamente al cuore di quel sacro vincolo matrimoniale per poi divertirti a raccogliere tutto il loro sangue versato svolazzandoci sopra con quelle tue ali da andrena funerea. Sei pazza, eccessiva, smodata in ogni tua azione, richiesta e desiderio. Vuoi avvicinarti il più possibile a quel nulla ed essere salva. Lo sarai? Lo saremo? Saremo capaci di trattenere tutto il bello che abbiamo intravisto e vissuto, Bèrènice? Un contatto è una crepa, tu mi dici. Una disponibilità offerta alla menzogna, alla delusione, all’amarezza. C’è chi ha scritto che c’è una crepa in ogni cosa ed è da lì che entra la luce, ma io non sono nessuno per contraddirti. Tu hai vissuto mille vite più di me, hai affrontato le fiamme d’inferno per trovare almeno qualche parola vera, qualche parola nuova che non sia mai stata usata e soprattutto ripetuta fino all’inverosimile. Tu mi hai inghiottita, Bèrènice Einberg! E io ti odio, ti odio profondamente perché non posso confessare proprio a te, di amarti immensamente, piccolo demonio dalle ali di cristallo.
Scritto nel 1966, quando Rèjian Ducharme aveva venticinque anni, “Inghiottita“ lo ha consacrato come uno dei più importanti scrittori canadesi in lingua francese. Di sé ha scritto: “Sono nato solo una volta. E’ successo a Saint-Fèlix de Valois, in Quèbec. La prossima volta che morirò, sarà la prima volta. Voglio morire in verticale, con la testa in basso e i piedi in alto“…
                     
                                                                                               Stella Marina



11  Aprile  2018

LORO  
                                                         
di Joyce Carol Oates


È una storia davvero molto triste questa: tutto quello che realmente è accaduto alla città di Detroit, capoluogo della contea di Wayne, nello Stato del Michigan, Stati Uniti d’America. Agli inizi del Novecento, con Henry Ford, i fratelli Dodge, Walter Chrysler e General Motors, divenne la capitale mondiale dell’automobile. Fino ai primi anni ’60 è rimasta una delle città più importanti d’America, “la città delle opportunità“, come veniva definita e vissuta, con i suoi circa due milioni di abitanti anche se con diversi e notevoli problemi interni causati del variegato e spesso esplosivo tessuto sociale con cui si era andata costituendo, tensione sociale il cui apice sfociò nella tristissima guerriglia urbana del 1967 che oltre a causare diversi morti, segnò anche un punto di non ritorno nella storia della città. Nel 2013 e quindi nell’arco di poco più di cinquant’anni, il definitivo tracollo; sarà dichiarato il fallimento, la bancarotta dell’intera città, con un indebitamento pubblico vertiginoso e inaudito, inimmaginabile, con una popolazione ridotta a meno della metà rispetto a quella dei gloriosi anni ’50 quando era ancora la Motortown, la città che incarnava il sogno americano. Allora era anche la città della musica, prima del blues e poi del magnifico jazz. Proprio in quegli anni fu fondata la famosa etichetta Motown Records, nel ’59 per la precisione, per rimanere fino ai primi anni degli anni ’70 a Detroit, per poi trasferirsi a Los Angeles insieme a buona parte della popolazione. Alcuni nomi prestigiosi di questa etichetta discografica vanno ricordati, Marvin Gaye, Steve Wonder, Diana Ross, The Temptations, nomi che a me personalmente hanno allietato la giovinezza e insegnato a distinguere ed amare profondamente la musica. Meriterebbe soffermarsi e ricercare le diverse cause che hanno portato all’attuale stato di cose e capire il tragico destino di Detroit, però questo, per quanto molto interessante, mi allontanerebbe troppo dal cuore di questa recensione, cuore che non smette di palpitare per questo bellissimo romanzo che Joyce Carol Oates è riuscita a scrivere. Chapeau, davanti a questo libro mi inchino in religioso silenzio, ci sono pagine di inaudita bellezza che solo una grandissima scrittrice come lei poteva essere capace di scrivere! Un’ultima cosa prima di passare al libro, se riuscite, se ne avete voglia, ma soprattutto se siete interessati, guardate, osservate bene le fotografie scattate da YvesMarchand e Romain Meffre, due fotografi francesi che hanno fotografato quello che oggi è rimasto della devastazione di questa città e che parlano più di qualsiasi altra mia possibile parola. Sono raccolte in un libro, “The ruins of Detroit“ e chiedono tutta la nostra attenzione…
Joyce Carol Oates visse dal 1962-67 a Detroit, insegnando inglese all’Università, quindi ha avuto modo di conoscerla molto bene, di analizzarla a fondo, proprio nel momento preciso del suo iniziale declino, nel momento della frattura, dell’insostenibilità. In questo terzo volume della sua Epopea americana ( i volumi sono quattro), la narrazione infatti si svolge principalmente in questa città che ne è la protagonista silenziosa, dalle sue viscere nascono le storie, dalle sue strade si ramificano destini, dalle sue arterie scorrono sogni ed ambizioni, pronti a penetrare nel cuore sconosciuto di chi la attraversa, di chi poggia il piede sul suo tessuto instabile ma assai allettante, con quell’odore di facile denaro che la città sembra emanare e promettere a tutti, indistintamente. La sentiamo respirare, incredula lei stessa di quante vite sia riuscita a generare, ad accogliere dentro il suo grembo, senza più essere capace però di contenere questa sua sete, questa sua avidità di vite. Vite incendiate che le hanno allargato e sformato i fianchi, vite incontrollabili respinte ai margini, in periferie rissose, torbide, sudice e turbolente. Sono queste vite incendiate che la Oates racconta, questi “figli del silenzio“ e della povertà, della miseria, dell’ignoranza e del pregiudizio, che ogni santo giorno si affannano per trovare i soldi per mangiare, per pagare l’affitto di misere case, nella ricerca di un’esistenza più tollerabile, sopportabile, spesso accompagnata da alcol droga e prostituzione, da continui litigi, violenza e povertà. E da ira, tantissima ira che riempie il respiro e lo sguardo, satura i corpi portandoli sul baratro della disperazione.
Loretta ha sedici anni, è l’estate del 1937, e tutto inizia, anche se già tutto era iniziato prima di lei, in quel cognome che l’accompagna, Botsford , e che non promette nulla di buono. Sente l’amore in quel suo fisico da poco formato, nella sua vita sottile, in quei suoi biondi capelli che le ricadono in riccioli morbidi sulle spalle. Un padre disoccupato, alcolizzato, una madre morta, un fratello dagli zigomi prominenti, dai capelli irrigiditi dalla brillantina e con quel desiderio furioso e disperato di sparare a qualcuno, di uccidere, a qualsiasi costo senza nessun particolare motivo, per il gusto di azionare il grilletto e sentire lo sparo. Inizia così il libro, con questa esplosione di vita e di morte, di sogni e di miseria. Inizia così il cammino di Loretta nella vita, segnata dalla perdita e dalla disperazione in quella prima città brumosa in cui la vediamo vivere, costruita intorno ad un canale nel Nordest dell’Ohio. Partorirà quattro figli che avrà da uomini diversi e un nuovo cognome che lei dovrà indossare esattamente come si indossa un nuovo abito: Wendall, Loretta Wendall. Per un po’ forse lei ci ha creduto in quel cognome, forse ci ha intravisto qualche buona possibilità, la possibilità di avere una casa tutta sua, una tranquilla vita domestica, bigodini rosa e torte appena sfornate, ma ha dovuto troppo presto rendersi conto di quel grande, enorme abbaglio e cercare il modo di poter sopravvivere alla sua stessa desolazione, imparando a camminare con i tacchi a spillo sui suoi antichi sogni tingendosi di rosso fuoco le labbra. Tutti gli uomini che faranno parte in qualche modo della sua esistenza, hanno avuto una possibilità nella vita, una soltanto, alla quale non hanno saputo però tener fede. Non sono stati all’altezza e da quel loro primo fallimento non hanno saputo più riprendersi, hanno continuato a fallire, sempre di più, sempre meglio, fino in fondo. Dopo, solo il nulla, alcol e dissoluzione, quel loro chiudersi ermeticamente in un mondo di silenzio e di ira, di ostinazione sorda e rancorosa, quel lento precipitare ai margini di se stessi senza la capacità di sapersi risollevare, di trovare una via d’uscita. Forse ai suoi figli sarà concessa la possibilità finalmente di vivere un altro tipo di vita. ”Loro“ forse saranno in grado di riscattare tutte queste vite prive di luce e accese dalla violenza, forse saranno capaci di vivere in pieno sole realizzando i propri sogni, in un’America che sembra nata apposta per realizzarli. Eppure in quel cognome sembra già essere inciso un destino, ognuno a suo modo dovrà risponderne, dovrà lottare per sbarazzarsene, per scollarselo di dosso. Annullare le tracce di quel passato che sembra voler costantemente ripetersi portando al fallimento, all’annientamento, all’azzeramento di sé. Lo sguardo della Oates non riesce a non indagare e a non soffermarsi nelle pieghe di queste nuove anime, a ricercare il seme di una possibile rigenerazione. Mentre la madre passa da un marito ad un altro, da un uomo all’altro, da una città ad un’altra, e di casa in casa, lo sguardo della scrittrice va concentrandosi sulle aspettative di questi figli. Eccoli qua, nei loro nomi freschi di vita, Jules, il primogenito, Maureen e Betty. Eccoli qua i Wendall, non importa se figli dello stesso padre, loro sono i Wendall. Più tardi un altro figlio si aggiungerà a questi primi tre e anche lui sarà uno di Loro, ancora troppo piccolo perché si riesca a decifrarne il carattere e le opportunità che la vita gli offrirà, questo energico e ostinato nuovo venuto che sembra però non promettere niente di buono e soprattutto niente di diverso. La luce sembra scendere luminosa sopra Jules, il primogenito e sopra Maureen, la secondogenita. Sembra che a questa coppia di fratelli sia stato assegnato il compito di rigenerare, ricreare su nuove fondamenta la storia della famiglia, annullando il passato, mentre Betty, la terza figlia, risponderà invece con la stessa ira dei genitori, replicherà i medesimi errori, ancor più sfrontatamente. La terra brucia sotto i piedi di questi due figli che hanno una madre che non è una madre e che non si comporta come una madre, e un padre assente e violento, dipendente dall’alcol e poco incline a crescerli, ad ascoltarli, a prendersi cura di loro, troppo assetato di risentimento. La strada sembra allora sostituire e offrire quelle opportunità che la famiglia non riesce a garantire, sembra liberarli da qualsiasi vincolo e soprattutto da quella oppressione che li sospinge costantemente verso il basso, verso quella deriva da cui i genitori già da tempo si sono lasciati trascinare e annientare. La salvezza può essere anche un fuoco che brucia e distrugge, un fiammifero acceso per gioco e che in un attimo divampa e infiamma, quell’esile fiammella che all’improvviso sembra capace di inghiottire tutto il mondo e di raderlo al suolo, annullandolo in un sol momento. Forse è proprio questo che Jules vuole fare fin da piccolo, bruciare il passato e andare incontro ad un nuovo inizio, lui che sente forte dentro di sé la possibilità di essere qualcuno, che fin da piccolo ha amato allontanarsi da tutti e restare da solo, irrequieto e impaziente di vita, innamorato della carte geografiche e dell’idea del viaggio. Lui così diverso da tutti gli altri, con il cuore capace di accendersi di profonda passione, che a dodici anni si innamora perdutamente di una suora, suor Jerome e di quel suo modo di suonare il pianoforte, di quella musica che sembra un’emanazione di lei stessa, affascinato da quel modo che lei ha di piangere in cui lui riesce ad intravedere il sacro, la sacralità della vita, qualcosa di profondamente toccante e inviolabile che non saprebbe spiegare a parole, intuendo che quella purezza gli è necessaria per poter vivere e crescere: “…gli occorreva qualcosa di ardente e di puro, labbra senza rossetto, una fronte pallida, grave, un viso pronto a scoppiare in lacrime“. Una purezza risplendente che lo avvicini al segreto dell’esistenza, per lui che aveva iniziato a cavarsela da solo molto presto e a guadagnarsi da vivere ancora quasi bambino per non dover dipendere da nessuno, da nessuno di quella sgangherata famiglia e soprattutto da quel “padre“che disprezza e che segretamente avrebbe desiderato tanto uccidere. Sotto questi due figli la terra brucia, si incendiano i sogni, le speranze, prende fuoco l’amore. Jules si innamora follemente di Nadine, una fragile ragazza dell’alta borghesia. Maureen, docile e sottomessa, l’unica che sembra incarnare l’idea di famiglia e l’unica che in qualche modo si prenda cura di tutti gli altri, sente crescere dentro di sé, lentamente, un desiderio irrefrenabile di libertà, di indipendenza “per dar forma“ alla propria esistenza. La sua giovane età e il suo corpo diventeranno il mezzo per riuscire ad evadere, darà il suo corpo in cambio di denaro, cercherà di accumularne quanto necessario per partire, lei così timida e riservata, lei che ama così appassionatamente i libri e quelle silenziose ore che trascorre in biblioteca, come se in tutto quel sapere lei potesse finalmente trovare la propria salvezza. Eccoli questi due figli disperati anelare alla libertà nel tentativo di svincolarsi da ogni legame e dovere di sangue. Ardenti, febbricitanti figli di Detroit, ferocemente respinti nel loro ardore, umiliati e feriti nel corpo, annientati in quella speranza che avevano a lungo accarezzato e nutrito. Quante pagine di meraviglioso stupore in quelle che raccontano l’amore tra Jules e Nadine, come la penna della scrittrice sia riuscita a ricreare mirabilmente il miracolo dell’amore, la sua fragilità, i suoi accesi toni di contrasto, i suoi sottili chiaroscuri, la teatralità della passione che può divenire tragedia, il labile confine che separa l’amore dall’odio, la possessione dalla morte. Sono rimasta assolutamente rapita dalla bellezza di queste pagine, e le ho rilette più volte, perché ogni volta ci si chiede cosa sia l’amore, ed ogni volta non sappiamo come e cosa rispondere, e sentirne tutto l’impeto in queste pagine, sentirsi attraversare dai brividi di questa passione ardente, ci avvicina pericolosamente al suo miracolo e al suo mistero, al colore luminoso della luna che risplende sopra le nostre fragili bianche ossa rilucenti mentre ancora osiamo domandare. Neppure l’amore può salvare, mentre il fuoco continua a divampare sulla terra, mentre la violenza continua a scorrere per le strade, nelle vite, nei corpi e nella mente di questi figli di una città, di un’epoca, di un mondo, di un sistema che forse non saprà mai trovare la pace, né la giustizia. Ci saranno sempre figli che pagheranno più di altri, ci saranno sogni che non verranno mai esauditi, vite che continueranno ad essere miseramente schiacciate, corpi che continueranno ad essere umiliati, maltrattati, feriti, uccisi. Ci saranno sempre fuochi sul cammino dell’uomo, “la sola cosa necessaria da capire è che gli incendi distruggono e fanno il loro dovere, eternamente, e che gli incendi non saranno mai spenti“. Come questi fuochi si muoveranno e in che modo daranno forma alla vita, se la daranno, non è possibile saperlo mai prima. Solo la letteratura potrà muoverli verso un senso compiuto, farli ardere ancora fino a farci intravedere una forma, solo una grande scrittrice riuscirà a ricondurli verso il nostro sguardo distante e assente, permettendoci di scorgere, attraverso quegli occhi che abbiamo immaginato, l’ardente riflesso di una fiamma.
Semplicemente straordinario…
                                                                       STELLA  MARINA


11  Marzo  2018                                         

                                            
Di ferro e d'acciaio

di  Laura Pariani







Questa nuova collana della NN Edizioni, CroceVia, inaugura una nuova serie nata con l’intento di indagare “il senso e il significato di alcune parole fondamentali nella nostra cultura e nella nostra storia“. “Sono parole antiche, che usiamo tutti i giorni, e che cerchiamo di addomesticare disabitandole di una parte del loro significato, che continua a riverberare come un’eco sommessa“. Questo progetto mi piace moltissimo, la ricerca della lingua dovrebbe interessarci tutti quanti e coinvolgerci in prima persona; disabitare una parola significa imparare a disabitare una lingua, significa perdere cultura e tradizioni, valori e identità. Il primo volume di questa collana è stato affidato a Laura Pariani, scrittrice sapiente e di notevole sensibilità, sempre molta attenta al problema della lingua e alle contaminazioni linguistiche. Nata tra Busto Arsizio e Varese, da piccola ha imparato contemporaneamente il dialetto e la lingua italiana, e questo “ bilinguismo “ è spesso presente nella sua produzione letteraria. In più, la ricerca di un nonno sparito in Argentina e un suo soggiorno con la madre in quella terra, hanno ulteriormente arricchito con una nuova lingua il vocabolario di questa straordinaria scrittrice, attenta al suono e al significato profondo di ogni singola parola così intimamente correlato alla sua origine e alla sua terra di origine. Ritengo che la scelta di affidare a lei questo primo volume sia stata una scelta azzeccata e ampiamente meritata.
Il romanzo non so dire fino a che punto mi sia piaciuto. Ancora fatico a districarmi tra le sensazioni contrapposte che mi ha suscitato. Grandissima scrittura e notevole il gioco linguistico, come sempre del resto in ogni suo libro, parole in disuso vengono prepotentemente rispolverate e messe in primo piano, come fossero parole di uso corrente. Il tema è svolto in modo coerente e profondo; si trattava in questo caso di “affrontare“ la parola “passione“, e l’idea dalla quale ha poi sviluppato il romanzo mi è anche piaciuta. Tuttavia purtroppo vengo da un periodo di letture “distopiche“ e francamente sono satura di questo tipo di letture, decisamente satura, e forse questo un po’ ha appesantito questa mia lettura e inquinato in qualche modo la mia opinione, non so infatti quanto sarebbe stato diversa se avessi letto il libro in un altro momento. Confesso che mi sono un po’ annoiata in questa realtà che lei presenta, in cui non esiste più la passione, dove non esistono più sentimenti, dove non esistono più nomi ma numeri, codici e sigle, in un totale azzeramento della personalità, della identità. Una Città sopravvissuta alla Guerra dei Cinquanta minuti, una città avvolta da un Silenzio che ha il colore grigio della cenere, delle macerie, dove il controllo su ogni singola persona è assoluto, dove ogni pensiero può venire intercettato, dove chi non si adegua alle nuove norme, rischia di essere fisicamente eliminato. Ci sono nano-droni che controllano in continuazione, che rilevano ogni minimo spostamento, ogni minimo gesto, ogni stato d’animo. Tutto è visibile, non c’è più niente di intimo o segreto. Disabituarsi a sentire, a pensare, rimane l’unica alternativa possibile per poter sopravvivere, oppure imbottirsi di pillole “fizzballa“, ma anche questo i nano-droni di ultima generazione sono capaci di rilevarlo e non è possibile neppure più fizzballarsi in santa pace. Ancora a una donna, a una madre , è affidato il compito di infrangere questo nuovo stato di cose, infrangere con il suo amore per il figlio l’assoluta mancanza di empatia, di passione per la vita, l’assoluta mancanza di amore. Questa figura di madre che cammina sulle macerie dell’umanità è molto bella nella sua tragicità, vestita di nero, con la fotografia del figlio agganciata alla mantellina con una spilla da balia, rimanda alla figura di Maria, mentre attraversa da Est a Ovest questa Città agonizzante , spingendosi fin dentro l’Interregno, senza concedersi mai un attimo di respiro. Questa madre che corrisponde al numero 23.017, ed è telesorvegliata dall’operatrice H478 , questa madre che sa che andrà incontro alla morte se insisterà nella sua folle ricerca, se continuerà a chiedere, a fermare persone, a interrogare. Ma come può una madre abbandonare il proprio figlio e darsi pace? Figlio che è accusato di essere un sovversivo e per questo è stato fatto sparire, come un desaparecidos. Non c’è un attimo in questo romanzo che questa donna non sia in cammino , la sento anche adesso che ormai da qualche giorno ho terminato il libro. La sento e la vedo, ha gli occhi bagnati di lacrime, la sento perché è un’immagine potentissima questa madre che cammina mentre tutto è crollato, mentre nulla di umano è sopravvissuto, mentre la cenere è entrata ovunque cancellando ogni traccia del passato. Ma lei cammina e cerca con il cuore che palpita, contro ogni logica, contro ogni verità, contro ogni divieto. Parla da sola e non si ferma, mentre agli altri è concesso solo il silenzio e quelle notturne confessioni a dei memonastri dotati di codici supersegretissimi, confessioni di quell’ umanità negata ma che è impossibile tenersi a lungo dentro. L’operatrice H478, con L’Occhio tatuato sul polso, sorveglia questa madre giorno e notte, il suo comportamento irrazionale non è ammesso, l’attaccamento è nocivo e può portare a devianze pericolose. L’amore non è contemplato, neppure quello materno. Sorvegliare questa donna pericolosa, pericolosa perché ancora ama, perché ancora sente, perché non si arrende, perché la notte sogna un seno pieno di latte da bagnarle la camicia… Nel sorvegliarla però lentamente qualcosa si incrina nell’operatrice H478, alcune parole puntano dritto alla memoria del suo cuore, alcune parole hanno un potere destabilizzante , tornano indietro come boomerang, tornano indietro come ricordi, e i ricordi aprono varchi. H478 ha un nome, si chiama Lusine e quella madre che lei sorveglia, si chiama Maria N: ancora è poco, ma almeno sono nomi di persona. Così anche quel figlio ha un nome, si chiama Jesus. Porta al collo una collana di conchiglie , ama i libri, la musica, le parole, la poesia. Ama le persone, soprattutto le più deboli. Ama tutto quello che è stato bandito dalla Città ed è lui quel figlio che dice che per vivere non basta essere vivi. Che vivere è qualcosa che si impara. Quel Figlio che pagherà per tutti i peccati del mondo, e pagherà fino a che il mondo non avrà fine.
Mentre mentalmente riattraverso questo romanzo, sento che qualcosa di questo libro non vuole abbandonarmi. Qualcosa di sottile, che non saprei esprimere a parole, non mi lascia. Troppo semplice liquidare un libro perché me ne ricorda altri, è vero, sì, li ricorda. Ma questo libro è troppo simile alla vita, è un’accusa così precisa a quello che stiamo attraversando e vivendo quotidianamente, che si ribella ad ogni mia possibile definizione o catalogazione. Mi dice: guarda bene, questa Città è la città, la tua città come mille altre città di oggi. Questo Silenzio è il muro di ogni giorno, è la barbarie che avanza e distrugge. E questi numeri, sono tutti i volti che non osservi, quelli dove non ti soffermi, quelli che non sai ascoltare. Guarda, mi dice, non sentirti offesa, se ti dico che anche tu, come ogni altra persona, sei osservata, controllata, monitorata. Ogni tuo stato d’animo viene registrato. Ogni tuo possibile desiderio, anticipato, previsto, persino indotto. Guarda, ascoltalo bene questo silenzio, non è un silenzio rigenerante, ma è un silenzio muto, di chi ha perduto ogni parola, di chi non sa trovarne più da dire, da donare agli altri. Alzati, mi dice. Esci. Abbraccia la prima persona che incontri. Non importa se non capirà, tu comunque, abbracciala forte. La Città è adesso, ora, in questo momento e tu ci sei dentro fino al collo. Non basta esser vivi, che vivere è qualcosa che si impara.
                                                        STELLA  MARINA



11  Febbraio  2018

LA NEVE DELL' AMMIRAGLIO    

di  Alvaro Mutis





No, non è capitato soltanto a me di perdermi dentro questo libro e amarlo appassionatamente, di considerarlo uno dei libri della mia vita, necessario e insostituibile, che mi appartiene intimamente e che salverei a qualsiasi costo. Pieno di segni a matita, pesante di acqua e di vissuto, di battaglie perdute e di alcune, vinte. Di lacrime e di sabbia. Di nostalgia per la nostalgia, per quelle mille possibili vite che avrei potuto vivere a e non ho vissuto, per tutto quello che invece ho vissuto e non può più tornare; come un brezza sottile sempre presente che increspa la corrente, come uno stato d’animo, un modo di essere e di osservare. Di vivere. Solo che io non sono così brava da saperlo riportare in parole questo amore, sono incapace di riuscire a trasmetterlo con tanta intima e universale precisione. Qualcuno però, ci è riuscito. Qualcuno ha portato in musica il significato profondo di questo libro e lo ha cantato, rendendolo immortale, ancora più immortale di quanto già non fosse.

“Alta sui naufraghi dai belvedere delle torri, china
e distante sugli elementi del disastro dalle cose che accadono
al di sopra delle parole celebrative del nulla lungo un facile vento
di sazietà, di impunità sullo scandalo metallico di armi in uso
e in disuso a guidare la colonna di dolore e di fumo
che lascia le infinite battaglie al calar della sera.
La maggioranza sta recitando un rosario di ambizioni meschine,
di millenarie paure, di inesauribili astuzie, coltivando tranquilla
l’orribile varietà delle proprie superbie.
La maggioranza sta come una malattia, come una sfortuna,
come un’anestesia, come un’abitudine per chi viaggia
in direzione ostinata e contraria col suo marchio speciale
di speciale disperazione e tra il vomito dei respinti muove
gli ultimi passi per consegnare alla morte una goccia di splendore
di umanità, di verità per chi ad Aqaba curò la lebbra con uno scettro
posticcio e seminò il suo passaggio di gelosie devastatrici
e di figli con improbabili nomi di cantanti di tango in un vasto
programma di eternità ricorda Signore questi servi disobbedienti
alle leggi del branco non dimenticare il loro volto che dopo tanto
sbandare è appena giusto che la fortuna li aiuti come una svista,
come un’anomalia, come una distrazione, come un dovere “



Smisurata preghiera. Col suo marchio speciale di speciale disperazione. Seguo, piena di emozione, quella calligrafia minuta, un po’ vacillante, febbrile, tracciata forse con una matita color violetto, a volte inumidita con la saliva dall’autore di quelle fitte righe appuntate su fatture e prontuari doganali, su qualsiasi cosa potesse offrire la medesima utilità della carta, utilità unicamente suggerita dall’urgenza di scrivere, di non disperdere i propri pensieri. Quelle fitte righe sono tutto quello che Maqroll il Gabbiere, protagonista del libro e in parte alter ego dell’autore, ha lasciato di sé e della sua complicata esistenza; sono ricordi, sogni, riflessioni. Nascoste dentro la tasca di un libro e ritrovate dalla voce narrante (che narrerà la storia frammentaria e disordinata del Gabbiere), in una libreria antiquaria di Barcellona, sono il diario di un viaggio, di quel suo infelice errare nella selva amazzonica. Quello stordito, inquieto e irrequieto errare e quell’eterna deriva sono l’unica cifra possibile della sua esistenza, e questa volta Maqroll risalirà lungo il Rio Xurandò, in Colombia, partendo da Puerto España . A bordo di una barca, verso confini lontani e pieni di insidie, pericolosi e imprevedibili, misteriosi e insondabili in un viaggio di conradiana memoria. Assieme a lui, alcuni personaggi interessanti. Il Capitano dell’imbarcazione, sempre semiubriaco, sempre in bilico tra euforia e sonnolenza, figura chiave e rivelatrice, specchio vertiginoso e deformato di quella “disperanza“ di cui Mutis sempre scrive e verso cui tende tutta la sua poetica. Il meccanico, l’indio talmente silenzioso da sembrare muto, nato nelle più recondite regioni della giungla, dalla pelle liscia di serpente. Il pilota, così mimetico da sembrare inesistente. Il gigante biondo, il compagno di viaggio, che parla uno slavo incomprensibile. E naturalmente la selva, quell’oscura selva nel mezzo del cammin di nostra vita, quella selva amazzonica con la sua cupa muraglia vegetale che ha un potere incontrollabile sulla condotta di chi non la conosce davvero a fondo e che facilmente può produrre uno stato delirante, difficile da superare. Maqroll affronta tutte le insidie di questo viaggio, per imbarcarsi in un’impresa di cui non conosce nulla, una vaga meta intuita tra le righe di una storia sentita raccontare, una storia come quelle che si possono ascoltare di notte raccolti intorno a un fuoco lasciandoci trasportare dal suono di una
voce che non è detto che stia narrando il vero. Lascia una donna amata, Flor Estèvez , l’ermetica pitonessa, con la promessa di ritornare a lei, al suo corpo avvolgente e protettivo, quando sazio di avventure e di sorprese, avrà bisogno di essere nuovamente accolto e di celebrare l’amore, là, alla “ Neve dell’ammiraglio “, in quella locanda che insieme gestiscono. La figura appena tracciata di questa donna, disegnata per assenza, dal desiderio, è bellissima; potente e antica, saggia e generosa, che accoglie, comprende e cura, in silenzio. Oltre a lei, il Gabbiere abbandona anche il richiamo irresistibile del mare e un caro amico che lo aspetta, per avventurarsi da solo verso l’ignoto, verso la promessa di un possibile guadagno, che però non è poi così importante. Rilevante è solo il viaggio in sé, quella sete inesauribile di avventura, senza conoscere la meta né ’utilità di quella meta, sentendo già formicolare sulle labbra il sapore della probabile sconfitta, “la maledizione di una maliziosa metamorfosi“. Ma forse rilevante non è neppure il viaggio, ma quell’andare alla deriva sospinto da correnti, quel “trabajos“ interiore che è contemporaneamente un navigare e un’assenza di navigazione, è quel risultato dato dalla somma di mille possibilità che si annullano all’unisono, e che lo sospingono in quell’asmatica corsa verso l’oblio nella ricerca dolorosa di se stesso, “ e salvarsi dal supplizio di morire con la certezza di aver abitato un limbo, alle spalle del superbo spettacolo dei vivi.” Sono l’ignoto, l’imprevedibile, il mistero, il senso di imminente pericolo, l’assenza di regole e di giustizia a disegnare lentamente i contorni delle cose e delle persone, a dare spessore alle voci , ad aprire crepe e ferite, a marcare una distanza impenetrabile, mentre il sogno a volte si apre a sprazzi di felicità inaudita per affrontare quel viaggio al termine della notte, nel gorgo canceroso dell’interiorità di un uomo, nella sua lotta feroce con l’ombra e con l’altro da sé, a tu per tu con incubi e deliri, in quella selva “ compatta, uniforme e maligna “ , nella penombra formata dalle chiome degli alberi che si intrecciano da una riva all’altra. E’ il cuore palpitante di un uomo che scende nell’abisso, che affronta la morte, che ascolta la voce di sogni rivelatori e augurali, che indaga quello che semplificando, noi chiamiamo destino. In compagnia di vecchi dèmoni, in balia degli elementi, sul sottile filo teso tra vita e morte, in quel suo continuo perdersi con la consapevolezza del proprio fallimento, frequentatore delle più nascoste rotte, dei più segreti approdi. Con la speranza abbandonata e lasciata ai sognatori, controcorrente, evitando persino il più umile ancoraggio, rifiutando ogni sponda, in direzione ostinata e contraria, senza altro proposito che dipanare l’insipida matassa del tempo, sotto l’alto cielo degli altopiani, col suo marchio speciale di speciale disperazione, per consegnare alla morte una goccia di splendore.
Primo libro di una trilogia. Seguono “Ilona arriva con la pioggia“ e “Un bel morir“.

                                                                                                              Stella  Marina



11  GENNAIO  2018


L'ESTATE DEL CANE BAMBINO                           


di Mario Pistacchio e Laura Toffanello




Non ero ancora nata nel 1961, ma mio cugino sì. Mio cugino è stato il mio eroe, con lui ho attraversato mondi, con lui ho imparato a leggere, a sognare ad occhi aperti, a decifrare le lettere dell’alfabeto e a scoprire che unendole, producevano suoni e immagini e che assieme a loro avevo la possibilità di volare, trasformarmi, andare in qualsiasi luogo io desiderassi... e arrivarci in un istante. Appena sono riuscita a leggere da sola e soprattutto a comprendere quello che leggevo, ho ricevuto in dono il libro più bello della mia vita: “Le avventure di Huckleberry Finn “, di Mark Twain. Che rivelazione quel libro, che gioia, che profondo e genuino senso di libertà salire su quella zattera lungo il Mississipi assieme a Huck e Jim. Quel tipo di libertà che si continua ad anelare a ogni età, magari in maniera diversa, ma che diamine, a dodici anni è davvero dura da conquistare! E lo sanno bene i protagonisti del libro di Mario Pistacchio e Laura Toffanello: L’estate del cane bambino “…in quell’estate del 1961, dove mi pare di intravedere anche il volto sorridente di mio cugino intento a giocare dentro quel cubo di cemento chiamato la “Base“, che non è altro che una meravigliosa zattera di libertà , di amicizia e di crescita, una fortezza inespugnabile di gioia di vivere . E’ il fulcro del racconto, da cui si dirameranno vite e destini.
La prima cosa che ho fatto iniziando a leggere L’estate del cane bambino, è stata quella di andare a cercare Brondolo sulla cartina geografica. Ne ignoravo l’esistenza, ma il nome è davvero irresistibile e ho temuto di vedermi all’improvviso accerchiare dai sette nani e sentirmi nuovamente scivolare nella mai dimenticata fiaba dei fratelli Grimm. Devo subito aggiungere però, che mi è stato di grande aiuto il suono di quel nome così familiare (anche se leggermente alterato da una consonante), soprattutto dove sono scese copiose le lacrime senza che io riuscissi a contenerle, là dove l’ingenuità era stata tradita dalla colpa, aggredita e oltraggiata dal male, là dove la finzione romanzesca aveva aperto squarci su una realtà difficile da comprendere, da giustificare e soprattutto da accettare. Le epifanie non si dimenticano degli spettri. La presa di coscienza di ciò che si è e di ciò che sono gli altri deve fare quasi sempre i conti con la sofferenza, il male, la solitudine, le speranze deluse, i sogni infranti. Crescere significa imparare a conoscere e a convivere con il dolore, con il lato oscuro delle cose e delle persone. Menego, Michele, Ercole, Stalino il contaballe, Vittorio e Narciso, sono loro, tutti assieme i protagonisti del libro, anche se a raccontare è Vittorio. Hanno dodici anni, tranne Menego che ne ha quattordici e Narciso che invece è il più piccolo di tutti, quello che viene “accettato“ per forza perché fratello di Ercole, tollerato più che accettato perché spione, ficcanaso, sempre un passo indietro agli altri, un mocciosetto tutto pelle e ossa, un “cagone“ insomma. L’estate è quella del 1961, un’estate calda e assolata come ogni altra, dove il tempo sembra dilatarsi perché la scuola è terminata, dove finalmente si può giocare, soprattutto a pallone,un pallone fatto di stracci vecchi e una camera d’aria bucata. Si possono finalmente vivere nuove esperienze, sbirciare le ragazze, fumare senza essere scoperti sigarette rubate, tuffarsi nella laguna, sperare di catturare qualche pesce gatto, fare la raccolta di quelle bellissime e nuove figurine Panini, la novità dell’estate, nella condivisione e nell’alleanza reciproca, perché l’amicizia è davvero una grande alleanza, un patto di sangue tra fratelli. Insieme si è più forti e più audaci, insieme si possono sconfiggere ostacoli, insieme si può osare e scoprire, scoprendo ogni giorno di più. Il mondo degli adulti è opaco, stretto tra senso del dovere e divieti, serrato in un ritmo costante di lavoro, in una divisione ancora piuttosto netta tra mondo maschile e femminile, in quel piccolo paese in provincia di Chioggia, sulla foce del Brenta dove lavorare la terra è ancora la principale fonte di sostentamento. Un mondo chiuso, fatto di poche anime, dove gli uomini vanno ancora all’osteria, le donne spettegolano e il parroco crede nelle fatture. Un mondo visto dagli occhi di ragazzini che cercano di decifrarlo, troppo distanti per comprenderlo; “i grandi fanno proprio schifo“ commentano, ed è impossibile dar loro torto. Solo nonno Cestilio sembra essere l’unico possibile ponte di congiunzione tra i due mondi, lui che la guerra l’ha fatta davvero, con la sua barba lunga e le bretelle a tenergli su i calzoni. Lui che ancora le storie le sa raccontare con quella luce profonda nello sguardo di chi conosce a fondo la vita e ormai se ne infischia: “Tanti e tanti anni fa, c’erano sette pescatori…era una notte fredda e oscura, una notte, credetemi, da far paura!”…E ogni storia, come ogni antica leggenda ha la sua malìa, il suo punto cieco attraverso cui la realtà può improvvisamente penetrare e decidere di incarnarsi. Può succedere ad esempio che un bambino in un istante e per magia, venga trasformato in un cane perché non riveli a nessuno e mai, niente di ciò che ha visto. E parallelamente e altrove, può succedere che questo cane bambino venga chiamato Houdini, perché si desidera fortemente che la realtà sia meno dolorosa di quello che è, perché rimanendo ancora e ancorati all’interno di una favola, si può sperare di sconfiggere il male, o illudersi che non esista. Le due storie convergono fin quasi a divenire la medesima storia, perché la potenza dell’immaginazione le rende vive entrambe e fino a quando quel cane bambino continuerà a chiamarsi Houdini, tutto sarà ancora possibile. “Con l’illusione che niente possa mai finire davvero “, con la sensazione che quel tempo sospeso di “leggerezza“ possa davvero durare all’infinito e che niente e nessuno possa venire a guastarlo, perché quella è l’estate in cui tutto deve essere perfetto e straordinario. Il confronto con il mondo degli adulti sarà però traumatico, la realtà si rivelerà completamente diversa da quella immaginata e sognata. Un evento tragico scatenerà altre tragedie e segnerà irrimediabilmente le vite di ognuno dei protagonisti obbligandoli a guardare la realtà per quello che è, a sentire il passaggio doloroso della crescita: “Non si invecchia mai un po’ alla volta. C’è un momento preciso, nella vita, in cui ti accorgi che è successo (&hellip😉rdquo;. Vedranno in faccia il Male, imparando a riconoscerlo, a rappresentarlo e a disegnarlo in tutto il suo orrore, là dove ancora le parole sono inefficaci o verranno mutilate. Del sangue innocente sarà versato per le colpe dei padri, mentre il mondo degli adulti si rivelerà sempre più ostile e incomprensibile, misero, gretto e omertoso. Respingente. Ognuno dei protagonisti pagherà a suo modo, ognuno con il suo personale dolore e una diversa e nuova percezione dei sentimenti. Tutto crollerà, anche l’amicizia sembra destinata a soccombere. Solo il tempo aiuterà a elaborare e a risolvere in qualche modo l’accaduto. Solo il tempo lascerà affiorare una verità che riporterà gli amici, quelli rimasti, a riabbracciarsi nuovamente. “Ecco come vanno le cose: uno fa qualcosa di brutto, e poi non gli va di pagarne le conseguenze. Dicono che, finchè riesci a nasconderlo, non ti capita niente di male “, scrive Huckleberry Finn. Ma a volte, certe colpe, si pagano anche se non si è colpevoli. E quando a pagare sono dei bambini invece che gli adulti, il mondo diventa un posto davvero brutto e insopportabile in cui vivere.
Leggendo questo romanzo, mi sono più volte fermata a pensare, a ripensarlo, trovandolo molto bello, ben equilibrato, una delle più belle letture dell’anno passato. Mi ha restituito tutto il sapore di quel mio primo libro tanto amato e quella gioia di salire su una zattera per inventarmi il mondo, riportandomi intatte immagini a me molto care. Il viso sorridente di mio cugino, il mio essere sempre indietro rispetto a lui in tutto, non solo per età e non solo perché femmina, e quindi il mio arrancare per seguirlo e cercare di raggiungerlo. L’intensità indimenticabile di alcune estati, il rumore e la luce, il calore della sabbia, il bianco delle onde del mare in tempesta e io, invincibile, a cavalcioni sulle spalle di mio padre. Il suono della campanella che decretava l’inizio delle vacanze estive. Il gusto indimenticabile di cose proibite; sigarette, noccioline salate, lupini, e la gara forsennata a sputare la pelle di quei lupini il più lontano possibile. Quel salire di nascosto sul motorino non avendo ancora l’età per farlo, i film proibiti, il piacere di beffare la cassiera che poi beffata non veniva quasi mai ma ci lasciava ugualmente passare. Lo sguardo intenso di alcuni amici, la loro assenza dolorosa mai superata, il ricordo costante e indimenticabile delle loro voci, la loro speranza troncata dalla malattia. Le lettere piene di errori scritte con la penna stilografica, e quei buchi mostruosi lasciati sulla carta per cancellarli. Il mio primo amore baciato di nascosto sotto un tavolo ad una festa all’età di cinque anni. Lo squillo del telefono che interrompe una risata, e che spezza la mia fragile vita. Il dolore di uno schiaffo ricevuto immeritatamente, lo scialle nero di mia nonna. La percezione straniante del male, l’odore del sangue. Un’improvvisa mia domanda, fatta a nove anni, che lascia ammutoliti i miei genitori… Leggendo questo libro, i ricordi si sono moltiplicati all’infinito, facendosi sempre più intimi e quasi urgenti...questo libro ha saputo toccare e far vibrare corde sottilissime, mi ha emozionato molto ed è diventato “mio“. Solo mio. Ognuno ha la sua estate del cane bambino, impossibile non averla e non ricordarsene. Ognuno amerebbe rimanere dentro quel cerchio magico per sempre o il più a lungo possibile, continuando a credere che Houdini è un cane bambino e che quel bambino all’improvviso tornerà a giocare, anche se è solo un cagone e uno spione, ma che per una volta la magia gli è riuscita davvero bene ed è riuscito a beffare i più grandi…


                                                                                              Stella Marina

11 Dicembre  2017

UMAMI

di Laia Jufresa

Questo libro è un buco e io ci sono finita dentro. E dentro-dietro a quel buco, c’è un altro buco, e un altro ancora, e ancora uno. E uno, ancora… non se ne esce più. Credi sia un gioco, poi scopri che è la vita, e senti tutto il suo sapore sulla punta della lingua. Certe parole ti affascinano, e tu le insegui convinta che abbiano da rivelarti qualcosa che ancora non conosci. Prendiamo questa parola: Umami. Breve, leggera, forte, quasi infantile, intraducibile quindi dotata di un potere infinito perché può significare tutto, può essere lavorata come creta dalla tua immaginazione, può diventare un amuleto o un suono. Può essere lo spasmodico tentativo di non cadere, di tenersi in equilibrio sulle incongruenze della vita. Può essere la lotta contro la morte o l’elaborazione di una perdita. Può essere l’amore o il suo vuoto. Può essere la coltivazione della milpa, in un giardino di una casa a Città del Messico, o la relazione tra il quinto sapore e il cibo preispanico. Oppure la nebbia fresca dopo un acquazzone estivo e l’odore di pietra bagnata. O l’odore di un prato ancora umido. Può essere l’asimmetrica disposizione di cinque abitazioni in un comprensorio messicano, o quei cinque nomi scelti per distinguerle in onore dei cinque sapori percepiti dalla lingua umana: Amaro, Acido, Dolce, Salato, Umami. Può essere il tentativo di rinominare le cose, di reinventarle, usando un linguaggio nuovo attraverso cui filtra una luce che rende più sopportabile il guardare, un “biansibile“. Può essere questo sguardo obliquo sulle cose, che le accarezza senza aggredirle, che tenta di avvicinarsi senza essere nuovamente sconfitto. Questo sguardo è bellissimo e io ci sono caduta dentro. La sua luce attrae, perché si percepisce un mondo interiore che si muove lento, a passo di danza, in punta di piedi, mentre gli occhi dipingono parole nuove capaci di creare uno spazio più ampio, più libero, e allo stesso tempo più vicino al cuore della vita, riverberante di sfumature sottili, incomunicabili, che cercano una nuova nascita per azzerare i sentimenti negativi e paralizzanti, per rimodellare i contorni del proprio essere e della propria vita. Umami può essere la dolcezza di un ricordo, l’innamoramento profondo di un uomo o la disperazione di una madre che ha perduto la sua bambina. La luce di un computer che si chiama Nina Simone o il cuore, il brida, di una bambola reborn che batte per una mamma uterus mancanza. Può essere un pesce o la parola griste, unione tra il color grigio e lo stato d’animo triste. O il colore nero bagnato da un temporale, che diventa nerillante. Può essere Villa Campanario che raccoglie tutte le vite delle quattro famiglie di questo romanzo. Può essere la figlitudine, o il mondo visto da due ragazzine di nome Ana e Pina. Può essere un fantasma che non ci lascia più andare. O un senso di colpa che ci aggredisce all’improvviso.  Può essere quel sapore che satura le papille gustative senza, proprio per questo, lasciarsi distinguere, “oscillando con soddisfazione tra il salato e il dolce, un po’ così, un po’ cosà“. Può essere quella oscillazione e basta o può essere l’oscillare tra stati emotivi ed emozionali diversi, che diventano indistinguibili e che si succedono continuamente nella vita. Umami è questa oscillazione costante. Umami è la scrittura, questo sforzo di descrivere a parole una persona “sapendo che per gli altri resterà comunque un caleidoscopio: i suoi mille riflessi nell’occhio di una mosca.”  Umami è una bambina di sei anni che muore inseguendo il desiderio di trasformarsi in un pesce, in un pesce coraggioso per andare fino in fondo al lago dov’è “camuflashato“ il castel peratore Umami. Si chiama Luz e sta ancora cercando di comprendere e di insopportare il mondo dei grandi. Umami è una madre che non riesce ad esserlo e un antropologo che conosce esattamente il significato della parola umami. L’umami inizia in bocca. Inizia al centro della lingua, si attiva la salivazione. Si risvegliano i molari, vogliono mordere, hanno bisogno di movimento. L’Umami è la bellezza inaspettata di questo libro che sa sorprenderti, che ti prende a tradimento, quando meno te lo aspetti, che vorresti aver scritto tu, che avresti voluto aver già letto ma anche non aver ancora letto e potertelo gustare ancora una volta come la prima volta, sentirlo sulla punta della lingua per quel suo sapore un po’ così e un po’ cosà, per quel suo modo unico di saper raccontare. Umami è essere una persona sola e contemporaneamente mille altre, è ’ il Messico ma contemporaneamente qualsiasi altro luogo della terra. E’ la bellezza di nominare nuovamente le cose, di far calare il velo e “contemplare le incongruenze delle cose per cui siamo stati ossessionati, i buchi in cui abbiamo riversato le nostre energie …”
“Umami è il quinto sapore che le nostre papille gustative percepiscono; c’è il dolce, il salato, l’amaro, l’acido, questi sono i quattro che tutti conosciamo, e poi c’è l’umami, in Occidente è stato scoperto da poco, sarà un secolo, è una parola giapponese, significa delizioso “.
E lo è davvero delizioso questo romanzo, scritto dalla giovane autrice messicana Laia Jufresa. Qui, per Sur, nella bella traduzione di Giulia Zavagna.            ( Stella Marina )


11  Novembre  2017

La lettrice scomparsa

di Fabio Stassi






“Suonava proprio bene la targa sulla porta del mio nuovo appartamento. Un vecchio lavatoio ristrutturato in economia: né corridoi né stanze. Tutto a vista: il soffitto a botte, il letto su un soppalco e i libri che avevo portato “
A parlare è Vince Corso, protagonista del libro, insegnante di lettere in attesa di assunzione o di licenziamento che, al momento, per campare e con gli ultimi risparmi, ha deciso di aprire uno studio come “Counselor della Rigenerazione Esistenziale “. La sua profonda conoscenza della letteratura e il grande amore per i libri gli fanno supporre di aver la soluzione per ogni problema esistenziale; la cura sono i libri stessi. Fabio Stassi ha curato per Sellerio l’ormai famosissimo libro di Ella Berthoud e Susan Elderkin, “Curarsi con i libri “. Ma il sottotitolo deve aver acceso nel nostro autore la famosa lampadina di intuizione: “Rimedi letterari per ogni malanno“ e da lì, il gioco di invenzione è partito senza più fermarsi. Perché è proprio questo che Stassi fa fare al suo protagonista: prescrivere rimedi letterari per ogni malanno ad ogni suo potenziale paziente. Ogni malanno ha il suo libro corrispondente, e dentro quel libro la possibile via di uscita da quel malanno. Quindi Vince Corso, armato delle migliori intenzioni e con i suoi fedeli amici di sempre al fianco, i libri, crede di poter suggerire una possibile via di guarigione, un ritorno alla luce della vita. Ma poi, nella realtà, funzionerà proprio così? Sarà così semplice curare il mal di vivere? Riusciranno i libri a sostenere tutto il dolore della vita? Riusciranno ad essere di conforto nella disperazione più nera? Non sarà presuntuoso credere di poter essere davvero d’aiuto a qualcuno suggerendogli un percorso di rinascita attraverso la lettura? Possono realmente i libri rimediare alle storture della vita creando una realtà altra in cui immergersi per riprender fiato da quella vita che invece e purtroppo, non è altro che fonte di dolore e disperazione? Hanno davvero questo immenso potere i libri? Io, no, non posso rispondere, sono talmente di parte e talmente impastata di libri, che le mie risposte non fanno testo. Posso solo dire che in uno dei periodi più bui della mia vita, ero poco più di una bambina e persi mia madre, che se non avessi avuto il sostegno dei libri, naturalmente oltre l’amore infinito di mio padre, probabilmente non ce l’avrei fatta. Mi aggrappai ai libri come ad una ciambella di salvataggio, nonostante i tanti amici e parenti sempre intorno. Ma quel dolore dovevo davvero affrontarlo da sola, in solitudine; era mio, soltanto mio. Dovevo capire il significato di quella parola così buia, di cui non intravedevo la fine ma me la sentivo conficcata di continuo nel cuore e nel respiro. Dovevo imparare a comprendere l’assenza, la brutalità della morte, la fine. Dovevo capire perché mia madre, una donna così giovane, mi fosse stata tolta e soprattutto perché lei, l’incarnazione dell’amore e della vita, non potesse più vivere. Il percorso lento ma costante me lo suggerirono i libri, che già amavo. Fecero con le loro parole un cordone di protezione da cui mi risultò difficile sporgermi oltre, intendo dire che sarebbe stato molto facile e semplice sporgermi “oltre“, lasciando che la mia giovane vita andasse alla deriva. Cancro. Una parola così breve, dura e impietosa, che scosse tutta la mia vita, abbattendosi su di me con la forza della devastazione. Con pazienza e tanto dolore imparai anche la parola accettazione, imparai amore per la vita, per ogni attimo che ci è concesso, per ogni persona che ci è dato amare. Mi tenevo stretta ai libri di Aldo Carotenuto che mi suggerivano ogni giorno un possibile percorso, avevo bisogno di silenzio e di quelle parole che lentamente si accendevano nel mio buio interiore e che, con rispetto, mi indicavano un possibile approdo. Questo libro, non il migliore di Stassi, ma molto godibile e meravigliosamente ben scritto, pone queste domande ad ogni lettore. E’ certo che la lettura non può essere solo e soltanto cura, cura dai mali del mondo e condivisione del dolore. Sarebbe un’eterna valle di lacrime, il leggere. Ma la parola “cura sottintende anche un prendersi cura, prendersi cura di se stessi attraverso i libri, ampliare, modificare costantemente, senza mai stancarsi di farlo, la propria visione del mondo. Insegna anche a relazionarsi con gli altri, a condividere, ad avere rispetto delle opinioni altrui. Ad attraversare profondità senza paura, a spogliarsi del superfluo, ad essere sempre più se stessi, nella nostra autentica ed unica individualità. Così come si fa viaggiando, cercando di alleggerirsi per viaggiare più liberamente, per avere attenzione solo e unicamente per il viaggio in sé. In fondo ogni libro è un viaggio, un infinito viaggiare, come direbbe Claudio Magris che sul viaggiare e la lettura, ha scritto un libro bellissimo. Così anche Antonio Tabucchi: “Viaggi e altri Viaggi“ e quella sua frase indelebile, ” Un luogo non è mai solo “ quel “ luogo: quel luogo siamo un po’ anche noi. In qualche modo, senza saperlo, ce lo portavamo dentro e un giorno, ci siamo arrivati“. Non è così anche per i libri? Così, Fabio Stassi in questo romanzo, che indaga, interroga la potenzialità dei libri, la capacità che hanno di estirpare luoghi comuni e banalità, “depurare la testa e il sangue. Allontanare l’attrazione del vuoto e l’umor nero“. Quei libri che insegnano anche a saper guardare il rovescio delle cose. E la scelta del cognome “Corso“ per il suo protagonista non è assolutamente casuale. Ha a che fare con soccorso, con il soccorso del libri nelle nostre vite. La loro capacità di squarciare il buio, di venirci in aiuto da terre ignote lontane e impreviste. “Nulla era stato trascurato dalla letteratura. Neppure il più insignificante fastidio. Ogni storia letteraria non era altro che un’infinita enciclopedia di anomalie e malesseri. Bastava saperla consultare “. Ogni libro attende il suo lettore, e su quel libro in cui il lettore si riconoscerà, si accenderà la vita, per quel riflesso indiretto a apparentemente neutrale, basato sul tacito patto di finzione. E come dice Fabio Stassi, “chi parla con passione di un libro è sempre una persona innamorata“: dei libri, delle persone, della vita. E Stassi è sicuramente uno scrittore profondamente innamorato, “malato“ di letteratura, e se anche dovesse essere “ solo “ per questo (e non lo è, perché ha scritto un bel libro), gli devo davvero essere molto grata, perché mi ha ricordato il potere di questo infinito e vitale innamoramento.      
“Che la voce degli scrittori che amo è qualcosa che viene da sotto i piedi, ha a che fare con ogni centimetro della loro pelle, vive dietro le unghie e arriva fino alla testa. Si riconosce al primo suono“.

                                                               Stella Marina


11  Ottobre  2017  


PANORAMA                                                                                                              
di  Tommaso  Pincio




“I veri sentimenti li teneva per sé, coltivandoli e coccolandoli alla sua maniera, la maniera già detta, quello dell’eterno appassire“.
Tommaso Pincio, ovvero Marco Colapietro, scrittore di questo libro e “trascrittore“ per “indiscrezione postuma“ di questa storia di Ottavio Tondi, protagonista del libro “Panorama“, ha , in un moto di profondo amore per la letteratura americana, italianizzato il nome dello scrittore Thomas Pynchon , servendosene poi come suo nom de plume. Operazione riuscita a parer mio…l’eco di Pynchon risuona ampiamente in Pincio, e gli facilita il cammino, mentre il caro Marco, credo, avrebbe faticato un po’ di più a far memorizzare Colapietro...
Leggendo questo libro mi è successa una cosa curiosa, mi è capitato di leggerlo contemporaneamente ad un altro libro, cosa assai rara per me che amo leggere, affondare e perdermi in un libro per volta. Ma questa volta la lettura si è biforcata (non per niente amo Borges), portandomi contemporaneamente su due binari apparentemente separati e ben distinti. L’altro libro in questione è un bellissimo ed illuminante saggio di Jean- Claude Carrière e Umberto Eco, dal titolo irresistibile per una lettrice compulsiva come me: “Non sperate di separarvi dai libri“. Leggo l’appassionante storia di Ottavio Tondi, incarnazione vivente del lettore puro, il solo ed unico lettore resistente, “l’ ultimo“ rimasto dopo l’avvento di internet, che ha trascorso tutta la sua vita a leggere libri, per il puro e solo piacere di leggere, “ senza aspettarsi risposte o consolazione “, sacrificando tutto il resto , sacrificando tutta la sua vita a questo mero atto solitario, in una reclusione profonda e sconfinata, dove solo lo scorrere silenzioso delle pagine scandisce il passaggio del tempo. C’è in questa purezza, in questo cerchio che si chiude attorno a Tondi, un che di claustrofobico, nelle pareti di casa tappezzate di libri un assordante silenzio senza eco. Quando lo incontriamo Tondi ha circa quarantotto anni, e per la lettura ha sacrificato anche la scrittura, eliminandola completamente dalla sua vita. Lui, l’unico vero lettore, il solo che è in grado e può decidere della fortuna dei romanzi in libreria, lui, giudice assoluto di quello che può o non può essere pubblicato… Ecco che mentre leggo queste prime pagine, arrivano, dall’altro binario di lettura, Umberto Eco e Carrière a profetizzare sull’immortalità del libro, dell’oggetto libro. In questo magma liquido e caotico che è la realtà virtuale, che ci circonda tutti e più o meno tutti ci contiene, loro evidenziano gli infiniti vantaggi che internet ha apportato nelle nostre vite, ma sottolineano anche le numerose insidie a cui siamo continuamente esposti, in un sistema in cui le informazioni si moltiplicano all’infinito, rafforzandosi ma spesso annullandosi fino all’entropia. Ecco che l’oggetto libro, quello fatto di carta e di pagine da toccare e da sfogliare, viene a rivendicare e a ricordarci il suo primato, il suo assoluto e impareggiabile primato, sfidando la modernità e la memoria virtuale, memoria che potrebbe un giorno anche scomparire… L’immagine di Tondi sembra quindi uscire rafforzata da questo serrato dialogo tra questi due bibliofili d’eccezione e come un Don Chisciotte, paladino e difensore dei libri di carta, idealista dal cuore puro che sceglie i libri solo in base al merito, ecco che punta dritto al mio cuore. E mentre sto per cedere a quest’immagine di purezza immacolata, ecco che Tondi mi spiazza. All’improvviso e per cause che scoprirete se deciderete di leggere questo libro, il mio eroe smette di leggere. Una decisione irrevocabile: non leggerà più alcun libro, nemmeno una parola! E che fa allora il mio caro Ottavio Tondi dopo aver girovagato per una Roma metafisica, in cerca di memoria libresca, sperando di far rivivere tutte le pagine che ha letto sullo sfondo geometrico del quartiere Eur, come se quel bianco travertino da cui è sorto per mussoliniano volere, fosse in grado in qualche modo di ridonargli la memoria di ogni parola letta nella sua vita da lettore…che fa, Ottavio Tondi? Si tuffa per la prima volta in vita sua, per suggerimento di “un amico“, nel caos del virtuale, iscrivendosi ad un social network; Panorama. E Panorama ha delle regole ben precise, è un occhio sempre presente nelle vite dei suoi iscritti, tiene memoria di ogni passo, di ogni sguardo, di ogni respiro, di ogni pensiero, anche il più recondito e proibito… Inesperto, il mio eroe cade innamorato (virtualmente) di una giovin donzella, dal nome evocativo: Ligeia…e non poteva che essere nome di un famoso racconto, quello di Edgar Allan Poe. Avevano ben avvertito i due saggi biblofili, là, sull’altra sponda, sul binario parallelo su cui scorreva l’altra mia lettura, avevano ben avvisato Tondi di non cedere alle lusinghe del virtuale, ma lui no, non ha ascoltato, ha trovato la sua Ligeia, lo specchio dorato delle sue illusioni e delle sue fantasticazioni, ha ritrovato anche le parole per comunicare, quella scrittura di cui si era spogliato, ha ritrovato le parole per amore, per amare. Ha permesso che la sua purezza venisse contaminata dalla parola scritta, lanciandola ingenuamente nel magma risucchiante di internet e prontamente stritolata dalle tremende fauci del virtuale…
La scrittura, questa necessità primaria dell’uomo, “possiamo considerare la scrittura come il prolungamento della mano e in questo senso come qualcosa di quasi biologico. Essa è una tecnologia di comunicazione immediata legata al corpo. Una volta che l’hai inventata, non puoi più rinunciarvi“, proclama Umberto Eco nel momento esatto in cui Ottavio Tondi celebra la sua disfatta, e Tommaso Pincio, violando una privacy che in realtà non esiste, ne trascrive la storia, fino all’ultimo istante…

La vita, ci dice Pincio oppure Tondi, oppure entrambi , non cerca veramente il nuovo, il diverso, l’inaspettato. Tende alla somiglianza, cerca ciò che può riconoscere, che ha già visto sentito annusato, cerca il ritorno, cerca uno specchio. Eccoli i nostri libri, i nostri libri- specchio, dove ogni lettore, dove ognuno di noi, continuamente traccia la sua storia, e dove ogni storia converge ad alimentare questo nostro sogno di eternità. Forse un libro di carta ha ancora questo grande potere di farci credere in questo nostro folle sogno, illudendoci che la nostra breve esistenza sia sfiorata da qualcosa di più grande, da questo brivido di immortalità, che la scrittura tenta disperatamente di trattenere, fino a che ci saranno parole per raccontare, fino a che ci saranno lettori per ascoltare… ...
                                                                             STELLA  MARINA

11  Settembre  2017

BABILONIA                                       
Yasmina  Reza




“Eravamo giovani. Non avevamo idea che fosse irreversibile. Oggi ho sessantadue anni. Non potrei dire che nella vita ho saputo essere felice, in punto di morte non potrei darmi un sette, come quel collega di Pierre che aveva detto ma sì, diamoci un sette, io direi piuttosto un sei e mezzo, perché meno mi sembrerebbe di essere ingrata o offensiva, direi, barando, sei e mezzo. Quando sarò sottoterra che differenza farà? Che nella vita abbia saputo o meno essere felice non fregherà a nessuno, tantomeno fregherà a me.”
A parlare è Elisabeth, voce narrante e implacabile “occhio fotografico“ del romanzo. Una vita normale, a tratti banale, alla periferia di Parigi.  Sposata ad un uomo tutto sommato accettabile di un “amore che non mi mette in pericolo“,  con un figlio già grande,  un buon lavoro,  è una biologa, una sorella con la quale ha un rapporto non proprio idilliaco ma neppure impossibile, alcuni amici. Ha la chiara consapevolezza che il suo tempo migliore sia già passato, che la giovinezza abbia lasciato inconclusi sogni ed aspettative, ricoprendo gli anni con una spessa patina di dolorosa nostalgia come guardando ad una di quelle fotografie in bianco e nero di quel famoso reportage di Robert Frank “The Americans“ che lei ama così tanto, proprio per quella sua intrinseca capacità di saperle restituire gli anni migliori e più amati della sua giovinezza. Quel magnifico “poema per immagini“ commissionato al fotografo svizzero dalla Fondazione Guggenheim e che fece scrivere a Jack Kerouac “Quella folle sensazione in America quando il sole picchia forte sulle strade e ti arriva la musica da un jukebox o quella di un funerale che passa. E’ questo che ha catturato Robert Frank nelle formidabili foto scattate durante il lungo viaggio attraverso qualcosa come quarantotto stati su una vecchia macchina di seconda mano“.
Siamo da qualche parte nel paesaggio fino al giorno in cui non ci siamo più, dice Elisabeth sin dalle prime pagine del libro, come a rintracciare tutti i fermo immagine che l’hanno condotta fino a quel punto della sua esistenza, uno sull’altro a dar forma e consistenza ai suoi sessantadue anni di età, a dar spessore a quella solitudine che sembra essere lo strato più reale e inequivocabilmente certo del vivere.  La solitudine. Per quanto si possa essere insieme agli altri, generare figli, circondarsi di amici, mariti, mogli, compagni, amanti, parenti…: la solitudine. Quanto e fino a che punto gli altri si avvicinano a noi? E noi, a loro…? Quanto li conosciamo? Anche quelli con cui abbiamo trascorso gran parte della vita, ci conoscono, li conosciamo veramente? Fino a che punto? Quali sono realmente i nostri rapporti con loro? Quali gli inevitabili compromessi per un quieto vivere? Come non rimanere sconvolti dal lucido e disincantato sguardo di questa straordinaria scrittrice, una delle migliori scrittrici viventi a parer mio, che ha scritto un romanzo perfetto, con una lingua tagliente e sottile, ironica e tragica contemporaneamente. Dove il flusso di coscienza genera piani temporali paralleli, che si attraversano reciprocamente e di continuo, fino a generare un tessuto di attimi, di istanti, razionalmente e temporalmente scollegati tra loro ma emotivamente allacciati a vivificare il significato di una vita, a tracciare quei labili segni di appartenenza a se stessi. Così può accadere che lo sguardo di una persona si soffermi all’improvviso e senza apparente motivo, su uno sguardo estraneo, sconosciuto, e lentamente la memoria riconosca in quello sguardo il suo medesimo spaesamento, tanto da divenire intima con quello sguardo, tanto da iniziare a capirlo profondamente, a sentirlo, a viverlo.  In silenzio o nel breve intervallo tra le parole non dette, si crea uno spazio di complicità, un ponte di possibile comprensione. Perché a volte gli istanti sono nudi: non hanno pelle, non hanno pensiero, non hanno giudizio, ma soltanto cuore. E allora è possibile davvero avvicinarsi all’altro e sentire la sua vita scorrere, sentirne la consistenza, le emozioni, i fallimenti, la fragilità, la paura, il terrore, la difficoltà di vivere, ma anche l’improvvisa gioia, l’esaltante sensazione di sapersi e sentirsi vivi.  E’ così che Elisabeth e Jean-Lino si sono incontrati, riconosciuti in quello spazio di desolante solitudine, dopo aver varcato la soglia dei sessant’anni. Non sono amanti, forse amici, sono sicuramente vicini di casa, abituati entrambi a salire per le scale invece di prendere l’ascensore, perché lui è claustrofobico, lei semplicemente per mantenersi in forma. E’ in quell’angusto, anonimo e neutrale spazio dell’atrio del loro palazzo, che le loro vite si sono incrociate. Hanno più o meno la medesima età, i medesimi rimpianti, appartengono a quella folla che avanza negli anni, “in viaggio, mano nella mano, verso qualcosa di ignoto“. Ma non è il loro parlare che lo racconta, sono piuttosto i loro silenzi, i loro sguardi, il sottile pulsare del cuore, la vicinanza, la complicità inattesa e gratuita.  Un rapporto di fiducia di chi si è riconosciuto, al di là di tutto e di tutti.  Accadrà un terribile fatto, ci sarà un omicidio assurdo e impensabile dopo una serata di festa per festeggiare la primavera, ma quello sguardo di fiducia non cambierà traiettoria, rimarrà ancorato al pulsare dei sentimenti, alla capacità di comprensione e accettazione. Rimarrà fedele all’intuizione dell’emozione che un viso e una persona hanno saputo suscitare, al di là dei fatti contingenti della vita, al di là delle azioni, che saranno criticabili e punibili. Ma lo sguardo non si incrina, non perde il suo contatto con il cuore, con la comprensione, con l’accettazione.   Il legame rimane immutato e immutabile, anzi diventa occasione per osservare veramente e da vicino la luce della propria vita, quel bagliore insignificante e accecante a cui è concesso di brillare per un solo attimo.  Vedere gli istanti attraverso gli istanti, spesso anonimi, amorfi, inconsistenti, appollaiati l’uno sull’altro ma che all’improvviso si vivificano al chiaro di luna mentre cade una incorporea e impalpabile neve bianca. Una neve bianca di primavera mentre una serata insignificante e una festa insignificante accendono gli impeti di un cuore. Mi verrebbe da dire di un cuore così bianco, così poco amato, così desideroso di amare, di essere amato.  In un solo attimo quegli impeti prendono fuoco, si infiammano, per divenire agghiaccianti, per ribaltare le sorti di una vita intera, perché in ognuno di quei piccoli istanti che hanno preceduto tutti gli anni di quella serata, c’era una piccola luce, che non vista, non ascoltata, però ardeva. Ardeva nella sua ricerca d’amore. “Chi ti ama ti rilascia un attestato di esistenza (o di consistenza). Non avere nessuno significa non avere nemmeno se stessi“. Perché davvero a volte niente mai è come sembra o vorremmo che fosse. E’ sempre qualcosa di impercettibilmente diverso e che spesso cerchiamo di non vedere o non siamo capaci di vedere.  Una intuizione che a volte ci sfiora, mentre stiamo danzando la danza dell’eterno rimando augurandoci che sia sempre ad un altro che accada questa decapitazione improvvisa dei propri sogni e non a noi, questo improvviso inabissarsi della vita, questa improvvisa chiaroveggenza che spezza all’improvviso tutti i legami con la vita, e la ribalta, mandandola alla deriva. “Chi può stabilire il punto di partenza delle cose? Chi sa quale oscura e forse remota combinazione ha governato i fatti? Un risveglio al quale nessuno vorrebbe essere invitato, ma può essere davvero un momento terrificante dove quell’istante incendiatosi all’improvviso per cause apparentemente ignote e insignificanti, all’improvviso sì, ti scuote, ti percuote, fino a che non sputi vita, anima e cuore. E Yasmina Reza ti restituisce il tuo cuore messo a nudo, pulsante, solo e indifeso davanti alla tua realtà, e alla tua capacità di sostenerla questa realtà. Tutti quegli istinti che scorrono spesso inosservati e inascoltati nel morbido e rassicurante grigio scorrere della vita, te li restituisce in un canto che è quasi, alla fine, un canto di  amore e di vita. Con quel comune senso di appartenenza che ci vede tutti in cammino verso quel luogo oscuro perché sconosciuto che è forse lo stesso luogo dal quale siamo venuti. Esuli in eterno cammino: “Sulle rive dei fiumi di Babilonia ci sedemmo e piangemmo al ricordo di Sion“.
                                         Stella Marina


11  Agosto  2017                                                         

L' i d i o t a

Fëdor M. Dostoevskij





E non è che non mi sia data dell’idiota quando un irrefrenabile moto interiore mi ha costretto ad aprire rapidamente il pc, cercando come una posseduta di star dietro con i tasti alle parole che fluivano vertiginosamente una dietro l’altra, in modo convulso e poco comprensibile a me stessa, non riesco quasi a sentirmi pensare“, mi verrebbe da dire proprio come J. D. Salinger,  costretta a  lanciarmi all’inseguimento disperato  di  tutte quelle emozioni  che la lettura di questo libro mi ha suscitato, sperando di non perderne nessuna. Come confrontarsi con la grandezza di un autore immenso, uno dei più grandi di tutta la storia della Letteratura e come riuscire a trattenermi dal non leggere rapidamente quei pochi libri che ancora non ho letto di lui, per non perdere definitivamente quella gioia della prima lettura, quell’avventura unica, magica e irripetibile che è l’aprire la prima pagina di un libro mai letto in cui tutto ancora può succedere e succederti.  Quel piacere impagabile che è sedersi o sdraiarsi con la prima pagina di un romanzo di un autore che ami, come Italo Calvino insegna: “Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto…”
Mi sono innamorata, (e innamorata non è assolutamente un’esagerazione, non faccio che pensarci e ripensarlo, non accade forse così nell’amore?), di questo libro di Dostoevskij fin dalle prime righe, fin dalla iniziale descrizione del viaggio in treno sulla linea Pietroburgo-Varsavia, di quell’aria umida e nebbiosa di una Russia di fine novembre, di quei due giovani passeggeri apparentemente così diversi i cui destini stavano per convergere l’uno in quello dell’altro senza possibilità di fermare o invertire questa convergenza, senza avere la possibilità di avvertirli che il loro incontro avrebbe avuto conseguenze tragiche sulle loro vite. Che il finale del romanzo era già impresso in quei loro iniziali  sguardi, in quegli occhi grigi e piccoli ma ardenti di Rogozin in quegli occhi grandi, azzurri e fissi, con dentro una serena ma insondabile e inconsolabile sofferenza del principe Myskin. Un incontro il loro, ne sono stata subito certa, che mi avrebbe condotto direttamente all’inferno, nella cavità infuocata dei sentimenti, nel magma incandescente dell’essere, nell’incomprensibilità delle reazioni umane. Dentro l’uomo e le sue contraddizioni, i suoi istinti, le sue passioni più o meno sfrenate. Perché poi abbia amato infinitamente questo romanzo è difficile a dirsi, sicuramente non il suo capolavoro, sicuramente non il più bello. Ma proprio perché bello e capolavoro hanno una valenza anche  soggettiva oltre che oggettiva, ecco credo che in questo caso la parte soggettiva abbia giocato un ruolo decisivo e io sia stata libera di amare sfrenatamente, senza alcun ritegno, senza alcun limite posto dalla forma o dall’architettura del romanzo, questo puro spirito, questo principe Myskin, quest’ uomo metà Cristo e metà Sfinge, come lo definisce Igor Sibaldi nella introduzione, ma che per metà è anche  Don Chisciotte,  travestito qui da “Cavaliere Povero“, armato soltanto di sana (?),  fanciullesca, inguaribile  ingenuità. (Introduzione e postfazione da leggere assolutamente dopo aver letto tutto il libro, nessuna condizione alla libera interpretazione e al proprio piacere personale, anche correndo il rischio di non capire, a volte. Tanto poi, volendo, si recupera dopo).  Un libro, sempre secondo Sibaldi, “così-così agli occhi di un lettore letterariamente assennato, ma quel suo essere così-così è solamente una circostanza“. Ecco, sono davvero  felicissima  di non essere una lettrice assennata, e di aver così potuto godere di ogni singola parola di questo libro con l’abbandono di cui solo gli innamorati sono capaci, senza dovermi preoccupare di altro se non di questo piacere dissennato. Dostoevskij ha amato moltissimo questo suo libro, e secondo me a ragione, c’è tanto di lui  in questo libro, meriterebbe davvero dedicarsi minuziosamente a questa analisi…Poco invece il romanzo è stato inizialmente amato dalla critica che non ha fatto altro che elencarne difetti e mancanze. Pensato mentre era in esilio a Ginevra  sotto impellenti necessità economiche, sembra proprio che questo esilio forzato per i molti  debiti che aveva contratto in Russia abbia acuito il suo sentirsi, il suo  essere russo, il suo potente nazionalismo e il suo desiderio di raccontarlo in pagine di ampio respiro, su cui azzardare anche ipotetici confronti con l’Europa, parlare della pena capitale, del cristianesimo, del suo Dio russo-ortodosso diametralmente opposto al Dio romano colpevolizzando Roma per aver convertito la chiesa in stato assoluto e totalitario…La prepotente necessità  da  esiliato qual era di sentirsi radicato ancor di più  nella  sua terra d’origine, è stata sicuramente la dimensione ideale per ripensare il proprio destino e definire con lucidità quell’immagine di “uomo pienamente splendido“ che aveva iniziato a prender forma nella sua mente, che aveva attraversato i suoi pensieri e si era imposta come un’idea che andava in qualche modo partorita e quindi elaborata,  perché vitale per lui in quel momento.  Era  la  possibile congiunzione ideale tra i dannati della terra e quell’enigma insondabile che è la Bellezza, in un confronto che si preannunciava terribile e aspro, senza esclusione di colpi, in un esercizio serrato tra intelligenza e coscienza per arrivare all’essenza stessa della realtà, lasciando senza risposta, o comunque velandola di incertezza, quell’eterna domanda “La Bellezza salverà il mondo“? Quell’uomo ideale che si era andato delineando nella mente dell’autore si sarebbe ben presto incarnato nel principe Myskin dell’Idiota, febbrilmente disegnato e tratteggiato in quelle  numerose  bozze e prove di  romanzo.  Non era affatto  facile far vivere quest’idea  di uomo, questa visione quasi mistica e atemporale di essere, trasportare e riversare sulla pagina di un libro questo ideale, quasi l’archetipo stesso della bontà, facendolo vivere e respirare tra uomini che di splendido avrebbero avuto  ben poco, se non in  rari, contraddittori e troppo brevi  attimi. Far vivere un uomo tanto superiore  da risultare incomprensibile ai più, da risultare goffo e poco chiaro, addirittura idiota, nonostante quella luce che si sarebbe irradiata costantemente dalla sua persona, scaraventandolo all’improvviso dentro l’eterna, immutabile e contraddittoria commedia umana come “un’antimateria romanzesca“ destinata ad interrogare i cuori degli uomini, chiusi e ostili a qualsiasi confronto. Come annotò  nei suoi  quaderni che precedettero la stesura del libro: “Il principe ha soltanto sfiorato le loro vite. Ma ciò che egli avrebbe potuto fare o intraprendere, tutto ciò muore con lui. La Russia agiva su di lui passo passo. Il suo superiore vedere. Ma ovunque egli ha sfiorato qualcuno, vi ha lasciato un segno incancellabile“.
 Quest’uomo superiore per metà divino e per l’altra metà semi-umano, quasi folle, è in realtà un uomo che sa sporcarsi, che sa umiliarsi, che sa comprende l’uomo più dell’uomo stesso, capace di leggere anime e sentimenti, capace di reggere l’affronto dell’umiliazione e della perdita. Capace di  comprende meglio degli altri  l’abisso sopra  cui costantemente ci muoviamo, spesso ignari di ciò che siamo veramente,  poco inclini ad attraversare il nostro buio per dare agli altri la nostra luce  poco inclini a confrontarci con la nostra ombra. Ma quest’uomo superiore non poteva  essere amato da noi comuni mortali, già il fatto di essere superiore ce lo avrebbe reso odioso, o quantomeno antipatico,  e questo Dostoevskij lo sapeva molto bene, se non fosse stato così goffo, così incapace di relazionarsi con gli altri. Così incapace di esprimere chiaramente le proprie idee, così incapace di muoversi e di avere successo,  sempre in bilico su una catastrofe imminente, sempre sul punto di cedere, di darsi per vinto, di soccombere, di annullarsi. Lo abbiamo amato proprio per i suoi disastri perpetui, per quegli attacchi di epilessia che lo hanno reso preveggente e fragile. Lo abbiamo amato per quegli attimi che hanno preceduto  quei suoi  attacchi,  momenti di visionaria perfezione, in cui tutto il significato dell’esistenza sembrava all’improvviso dischiudersi, risplendendo sulla nostra misera e limitata comprensione del mondo. Sono quei suoi feroci attacchi di intelligenza e sensibilità pronunciati quasi in silenzio, quasi tra le righe del nel non detto e sempre senza accusa, che sono andati a minare la nostra ordinaria visione delle cose. Incarnato solo per questo scopo, eletto dall’autore  per aprire dei varchi sottili, quasi invisibili nelle nostre certezze, nelle nostre abitudini. Lui  in realtà è un essere assolutamente disincarnato, è puro spirito, è puro Bene. Ma è anche uno spirito tragico, destinato a soccombere, non abbastanza forte da contrapporsi al Male, il  suo lacerante urlo alla Munch sprofonda nel dolore incolmabile dell’esistenza che non è più in grado di recuperare la sua dimensione spirituale. L’ uomo non è più capace di cogliere il significato della propria natura, né di organizzarsi socialmente, è destinato all’autodistruzione. Sfiorare le anime non è salvarle, perché per essere salvati, bisogna essere in grado di saper rispondere, assumendosi il peso di tutte le proprie responsabilità individuali e collettive. E dopo averci ripetutamente  sfiorato, lui impazzisce. Questa è la vera tragedia. Nessuno ci salverà.  
Della trama no, non parlerò. E neppure degli altri interessanti personaggi sui quali si potrebbe parlare per ore ed ore, mettendoli a confronto, in un quartetto di ombre e di luce. Senza di loro  ovviamente  non ci sarebbe neppure il principe ,  ma parlandone dovrei svelare fatti o situazioni che andrebbero a raccontare troppo, e non voglio assolutamente togliere questo piacere a chi non ha ancora letto il libro, perché le azioni devono accadere sotto l’occhio del lettore, in un dialogo intimo con lo scrittore. Dirò solo che Ippolit, ho sì, Ippolit mi ha stregata. E la forza, l’audacia a volte l’ottusità dei personaggi femminili, oh se ci sarebbe da scrivere di queste due donne forti e maledette, che si contendono l’animo del nostro principe, incapace di non amarle tutte e due e di scegliere. Ma vedrete, vedrete, vi ci scontrerete in continuazione con queste donne e con questi uomini terribili. Ma quello che più di tutto rimarrà, oltre ad alcune pagine di altissimo e indubbio  valore letterario, oltre a idee che meritano una nostra attiva partecipazione e profonda , continua  interrogazione,  rimarrà dicevo  questa impalpabile, indefinibile, inesprimibile sensazione: “E’ difficile dare un giudizio sulla bellezza, non sono ancora preparato. La bellezza è un enigma“. Così, come la vita. Su questa sottile e incerta traccia continuerò a scrivere e a  interrogarmi. Un libro di Dostoevskij non si chiude né si conclude mai, continua ad agire dentro di noi, e se la sua bellezza non potrà salvarci, sicuramente ci aiuterà a riconoscerla. E saperla riconoscere, già è abbastanza.
 Stella Marina

11 Luglio 2017                                               

MISIA

Misia Sert





«La modernità -questo gran mistero- abita ovunque a Parigi: la si ritrova ad ogni angolo di strada, accoppiata a ciò che era un tempo, pregna di ciò che sarà. Come Atene ai tempi di Pericle, oggi Parigi è la città dell’arte e dell’intelletto per eccellenza». Sono parole che Giorgio De Chirico scrisse nel 1925, e rendono perfettamente l’idea di cosa sia stata questa città in quei meravigliosi anni ruggenti che ancora ci fanno sognare ad occhi aperti per quel fermento culturale ed artistico che la animarono, unico e credo oramai irripetibile, ahimè. 
Forse uno dei motivi per cui ho amato questo libro, è proprio per questo continuo sogno ad occhi aperti che mi ha permesso di fare, per questa totale immersione in quell’epoca straordinaria. In quell’esplosione costante di idee e di genialità, in quella costante festa mobile. Se ne percepisce il respiro, la vivacità, si vive la forza della trasgressione, l’euforia della libertà. Ci si siede accanto a Mallarmè affascinati dalla grazia dei suoi versi, si ascolta estasiati la musica di Faurè, si guarda il pennello di Toulouse Lautrec scorrere indomito sulla tela, si osserva in silenzio quello morbido e intimista di Edouard Vuillard, ci si innamora di quello iridescente del grandissimo Pierre Bonnard. Si intravedono, attraverso la luce dell’immaginazione, anche tutti gli altri pittori che non vengono nominati ma che improvvisamente dal fondo della nostra memoria, ci richiedono attenzione. E così il bel volto di Amedeo Modigliani mi viene incontro inaspettato dal boulevard Montparnasse in una splendida notte parigina mentre declama ad alta voce gli eterni versi di Dante e di Leopardi. Così Picasso, irritato dall’esuberanza del nostro livornese, furiosamente fuoriesce dai confini di questa autobiografia per condurmi di fronte a quel suo famoso dipinto olio su tela, di fronte a quel ritratto che fece a Gertrude Stein che sembra scolpito più che dipinto. Già precursore del suo periodo cubista, quel volto che il pittore cancellò più volte e che venne anche molto criticato, ma che la Stein amò appassionatamente: “Fui, e sono tuttora, soddisfattissima del ritratto. Per me, sono io: ed è la sola immagine di me che sia me“. Questo libro e le sue mille suggestioni mi stanno decisamente conducendo fuori strada. Sento che se non cambio immediatamente rotta, potrei ritrovarmi comodamente seduta accanto a Sylvia Beach, alla libreria Shakespeare and Company ad aspettare Joyce, Hemingway, e Scott Fitzgerald. Oppure rimanere per ore in trepidante attesa di Henry Miller per supplicarlo di condurmi alla hauseboat di Anais Nin, con la quale davvero avrei voglia di scambiare due chiacchiere, lasciandomi incantare dall’ardore delle sue parole e dal languido ondeggiare della Senna, quelle sue parole che nascoste sotto il cuscino mi hanno aiutato a crescere. E vedi, accidenti, mi sono dimenticata di Misia in questa incantevole notte parigina che si schiude improvvisamente davanti ai miei occhi incantati, mentre ascolto i miei passi affrettarsi su Pont des Arts. Credo di essere in ritardo e mi sto chiedendo se avrò la possibilità di incontrarti ancora…“ Camminavamo senza cercarci pur sapendo che camminavamo per incontrarci“. Oh sì, ti vedo, finalmente, in lontananza. La tua figura mi sembra gigantesca, mentre una debole luce rischiara il tuo profilo. Il palmo della tua mano è aperto e luminoso, stai facendo leggere a Madame Lèonie le linee del tuo destino che si compongono in quello strano gioco di segni, in quel gioco del mondo in cui io mi diverto a saltare lanciando di continuo il mio sassolino. Perché così tu mi dici; “per arrivare al Cielo servono solo un sassolino e la punta di una scarpa“. Perdonami Misia, non potevo davvero non salutare il mio amato argentino. Eccomi dunque che ritorno a te, giovane tigre infiocchettata dal viso dolce e crudele di gatta rosa, come amava definirti il tuo caro amico Jean Cocteau.
Misia Sert, di origini polacche, fu una delle “regine“ più riverite e influenti di quegli anni parigini, amica, spesso confidente e musa dei più grandi artisti di quella gloriosa epoca. Ci ha lasciato questa bella autobiografia, dettata al termine dei suoi quasi ottanta anni di vita, quando ormai la vista l’aveva abbandonata. La sua passione per la musica e per l’arte tout court, la resero sensibile ad ogni innovazione, capace di discernere e di intuire il vero talento, che promosse incessantemente in ogni campo sempre e con tutte le forze, con tutte le sue possibilità. Ebbe la fortuna ed il privilegio di crescere in un ambiente familiare in cui il senso estetico per la forma e per la bellezza erano quotidianamente di casa, sua nonna le insegnò l’amore per l’eleganza, per la Musica e la buona tavola. Le insegnò il senso dell’ospitalità. Imparò a suonare il pianoforte che aveva pochissimi anni, la musica fu il suo primo alfabeto. Allieva di Gabriel Faurè, che per lei predisse una carriera splendente se solo si fosse dedicata interamente ed unicamente alla musica. Ma lei scelse la Vita, l’immersione totale nella vita. Ebbe la possibilità di frequentare ed essere amica dei più grandi artisti. La ritrassero Pierre Bonnard, Renoir, Lutrec, Vuillard. Fu teneramente amata da Mallarmè, osannata da Jean Cocteau. Marcel Proust la definì "un monumento di storia, collocata nell'asse del gusto francese come l'obelisco di Luxor nell'asse degli Champs Elysèes". Fu la miglior amica e confidente di Sergej Djagilev, quell’incredibile impresario teatrale, innovatore e visionario, fondatore della compagnia dei Balletti Russi che scoprì il talento di Vaslav Nijinsky, quella fragilissima stella danzante che poi, senza più la sua protezione, non fu mai più capace di risplendere. L’amicizia tra Misia e Djagilev fu tenera e molto appassionata, lui la considerava come una sorella e aveva bisogno della sua costante approvazione e della sua costante presenza. Due sensibilità che avevano, al di là delle differenze caratteriali, una simile visione e comprensione delle cose del mondo, una profonda, intima conoscenza della musica e dell’arte. Misia si sposò ben tre volte, e furono tre uomini importanti nella Parigi di quegli anni. Solo una volta fu per lei vero amore, e quell’amore la ferì a morte, pur non riuscendo mai a smettere di amare quell’uomo. Questo suo amore corrisponde al nome del pittore e decoratore spagnolo Josè-Maria Sert, amarlo fu per lei immediato e inevitabile, i loro destini si erano irrimediabilmente incrociati e toccati lungo un’appassionata vacanza in Italia. “Per la prima volta provai la sensazione abbagliante, calma e terribile del definitivo“. Dopo vent’anni di felice matrimonio lui però si innamorò perdutamente di una giovanissima donna che poteva essergli figlia, e lasciò Misia nella disperazione più profonda. Le pagine che lei dedica a questo suo grande amore, sono vibranti, commoventi e struggenti, perché se ne intuisce la profondità e la vastità, gli estremi di gioia e di dolore, l’immenso vuoto che l’abbandono di lui lasciò nella sua vita. Una donna che aveva avuto davvero tutto dalla vita, perse la cosa che aveva amato di più. Non c’è una sola parola di odio nei confronti del marito, ma sempre e soltanto amore, fino all’ultimo giorno , fino all’ultimo istante della sua vita…
E quasi a conclusione del libro, come una scia luminosa, come un involontario testamento: “Nello stesso tempo ho sempre pensato che un grande destino comporti enormi doveri. Perché coloro che diventano un polo di attrazione trascinano inevitabilmente nella loro scia una quantità di uomini. Intorno a quelli che, come Picasso, hanno avuto in dono dalla nascita un po’ di luce, si riuniscono un’infinità di giovani che cercano, lontano dallo spirito dei partiti che li hanno sempre ingannati, di trovare qualcosa in cui credere. La fede (non uso affatto questo termine nel suo significato religioso) è un bisogno essenziale. Che incubo sarebbe un mondo in cui non ci fossero che disincanti! E come non capire, stando così le cose, che la libertà di alcuni privilegiati deve arrestarsi là dove comincerebbe a distruggere il pensiero di quelli che credono in loro ?
                                                         Stella Marina

11  GIUGNO  2017

MIA FIGLIA, DON CHISCIOTTE          

di  Alessandro Garigliano


Lo abbiamo riconosciuto tutti, è il nostro Don Chisciotte, quello con cui siamo cresciuti e con cui non abbiamo mai smesso di confrontarci, e con il quale, divenuti lettori, abbiamo soppesato, valutato tutto quello che dopo di lui, ma anche prima di lui, abbiamo letto. Siamo, nella frase che ho riportato virgolettata poco sopra, alle primissime pagine del primo volume del capolavoro di Cervantes, e Alonso Quijano, lettore compulsivo di romanzi cavallereschi, sta per trasformarsi nel nostro eroe senza macchia e senza paura, pronto a farsi cavaliere errante e andarsene per il mondo con le sue armi e cavallo, a cercare avventure, per disfare “ogni specie di torti, esponendosi a situazioni e pericoli da cui, superatili, potesse acquistare onore e fama eterna“. Uno dei più grandi libri della storia della Letteratura, dove il personaggio è riuscito a superare la fama e il nome del suo stesso ideatore, che ha camminato da solo attraversando indenne secoli e terre, conquistando anime e cuori, sconfiggendo critiche e critici, imponendosi come il primo grande romanzo della modernità.
Non sorprende affatto quindi che anche Alessandro Garigliano, l’autore di questo libro per NN edizioni, innamorato follemente e irrimediabilmente di Don Chisciotte, abbia voluto dedicargli un tributo originale e delicato, rammentandoci costantemente il suo spirito sbilenco e anarchico, eversivo e reazionario, innovativo, e rammentandoci anche di quella piacevole e vitale vertigine sovversiva che abbiamo avvertito, leggendolo. Vertigine che nessuno mai, per altro, più potrà dimenticar…
E così, Garigliano, padre di una bambina, di appena tre anni, che lui chiama la sua “principeffa“, e appassionato lettore del Don Chisciotte, è riuscito nel tentativo, per nulla scontato, di fondere le sue due principali, ardenti passioni, in un libro che è contemporaneamente saggio letterario e riflessione su un’opera immensa, il Chisciotte appunto, con il delicato apprendistato a divenire padre, a “farsi“ padre, imparando quotidianamente ad osservare e decifrare quel mondo infantile in cui a regnare è il caos e quella dimensione fantastica della realtà, in cui tutto magicamente è ancora possibile, con quella lucidità disarmante che solo i bambini conoscono. Abituarsi a leggere nei segni della sua principeffa, non è così semplice per un uomo di quarant’anni, e non è neppure semplice cercare di proteggerla senza contemporaneamente rischiare di distruggere quel delicato ma necessario mondo da cui lei attinge la sua linfa vitale, e da cui inizia a prendere le misure per orientarsi e tracciare una propria, personale mappatura del suo esistere. Lei ha bisogno dei suoi sogni per orientarsi nel caos della vita, ha bisogno del suo linguaggio inventato ; e lui lo sa. Come Sancio Panza sa che Don Chisciotte ha bisogno delle sue illusioni, delle sue fantastiche invenzioni per poter vivere. Ad una domanda di quanto autobiografico sia questo libro, Garigliano ha così risposto: “ La storia che ho raccontato non ha nulla a che fare con la mia vita reale, o meglio, mi appartiene profondamente e per nulla “. Trovo sia una risposta bellissima e molto vera. E allora, senza cercare altro, nel libro c’è un padre, che può essere un qualsiasi padre di quarant’anni, sua figlia di tre anni, Don Chisciotte e Sancio Panza. L’amore del padre nel raccontare storie e la gioia della figlia nell’ascoltarle, hanno creato il territorio ideale per farli incontrare, in cui far convergere le reciproche aspettative. E mentre lui la guarda sfrecciare in casa sul suo triciclo, impavida e indomita , sfidando ogni volta qualsiasi legge di gravità, ecco che lui ha la sua prima illuminazione: lei è come Don Chisciotte, anzi lei è Don Chisciotte e lui quindi, lui non può che essere Sancio Panza, il suo fedele scudiero che accetta di starle accanto, di appoggiare ogni sua stravagante avventura, strampalata visione, impossibile richiesta, cercando di aderire il più possibile a quella sua una combustione dirompente di eccentrica potenzialità racchiusa in quei suoi tre anni di età. Lui decide, come Sancio Panza, di rimanerle costantemente a fianco, di essere il suo fedele scudiero, di credere nei suoi sogni ; “ accetta un volo folle ma con i piedi ben piantati a terra “. Attraverso le imprese eroiche della bambina, rivivono tutte le imprese di Don Chisciotte. Attraverso le protezioni, le paure del padre, quelle di Sancio Panza. Insieme ridefiniscono il romanzo, lo riattraversano e grazie a loro, il romanzo nuovamente si incarna con quella potenza, e oserei dire prepotenza, che solo la letteratura, la grande letteratura possiede, con quella sua “ forza viva “ e dirompente che riesce ad influenzare ed a insinuarsi nella vita delle persone, senza per altro uscirne più! Il rapporto tra padre e figlia, complesso e dolcissimo, fatto di un amore adorante del quale è difficile non subire la malìa, ci induce a ricordare quei tempi in cui, anche noi, a cavallo delle spalle dei nostri padri, ci sentivamo le principeffe del mondo, capaci ogni giorno di reinventarlo a nostro piacimento, capaci di sogni ardenti e impossibili, con quella “ libertà che vola rarefatta, folle, senza motivo.” La libertà della bambina è la libertà di Don Chisciotte. Le paure e i “contenimenti“ del padre sono quelli di Sancio Panza, e sentiamo che nel suo amore assoluto c’è il timore costante della prepotenza della realtà che comunque verrà, prima o poi (come nel Don Chisciotte) a convertire quei sogni, a limitare quegli spazi infiniti in cui adesso la sua bambina scorrazza selvaggia e inconsapevole, ignara che possa esistere qualcosa di diverso dalla libera fantasia dei sogni. C’è, ad un punto del libro, poco prima della metà, una domanda bellissima, che è un po’ il cuore di tutto questo bellissimo romanzo: davvero è possibile privarsi della dimensione dell’illimitato, del caos ? Rispondete solo dopo aver letto questo libro e solo dopo aver letto il Don Chisciotte…e forse, aggiungo io, non è proprio questa utopia errante a saldarsi così fortemente ai nostri cuori e per sempre? La “ vertigine dell’imperfezione , il disequilibrio dell’incompiutezza, il caos dell’indefinito “? Non è forse per questa vertigine che amiamo così pazzamente il Don Chisciotte?
Dovrei denunciare il male assoluto che alla letteratura hanno arrecato tutti i congegni a orologeria imbastiti per irretire il lettore: le agnizioni, il climax, la coerenza, il conflitto, le unità di tempo luogo e azione. Tecniche esibite nel tempo in modi strumentali, anziché scattare per necessità cognitive narrative estetiche. Vorrei farmi di questo mio tormento una tirata interminabile, ma preferisco tacermi..."
( Stella Marina)


11  Maggio  2017                          

La stanza di Therese

di Francesco D'isa





Basta aprire la prima pagina del libro per essere catapultati nel pirotecnico mondo di Francesco D’isa, filosofo e artista visivo, e in questo camaleontico oggetto mutante. Devo riconoscere all'autore una indubbia genialità, la capacità di saper raccontare con qualsiasi mezzo: parole, fotografie, disegni, diagrammi, ritagli, schizzi… rendendo assai affascinante e dinamico il suo percorso di scrittura. Lo diceva anche Dino Buzzati che per lui dipingere e scrivere erano la medesima cosa, così deve essere anche per questo giovane artista talentuoso che propone una storia originale e ben scritta, corredata da immagini magnifiche. Probabilmente chi ama la filosofia e ne ha almeno una parziale infarinatura, riuscirà a godere maggiormente di questo libro, che in realtà è una profonda analisi sulla solitudine e sul significato della vita, non priva tuttavia di grande ironia.
Therese, la protagonista di questo racconto, una giovane donna che sceglie di spendere tutto il denaro ricevuto dall’assicurazione come risarcimento per un brutto incidente nell’affitto di una camera d’albergo, per essere lontana da tutto e da tutti e potersi così chiudere come in un bozzolo in quella stanza di cui ci disegna perfettamente la planimetria, nella quale rimarrà per un anno, o forse chissà, per molto di più... Per riuscire a mantenere inespugnabile questa fortezza di solitudine, dovrà mentire a tutti, fingendo di essere partita per un lungo viaggio in Europa, rinunciando a ogni collegamento via internet e via cellulare, eliminando ogni possibile indizio affinchè nessuno possa rintracciarla. Decide soltanto di scrivere lettere a sua sorella, più grande di lei di due anni, ovviamente intimandole il silenzio. La sorella risponderà alle lettere in modo originale: non con altre lettere come ci si aspetterebbe, ma con semplici commenti scritti di lato, sui margini bianchi delle lettere inviatele da Therese oppure con disegni, brevi schizzi che rinvierà al mittente. Attraverso questo dialogo assurdo e strampalato, pieno di tensione e di non detto, di antichi rancori, si delineano le personalità e il legame che unisce queste due donne:“Per vent’anni siamo state sorelle, per cinque amiche e per tre sconosciute“. Dalla loro diversità, esce prepotentemente la personalità di Therese, il suo disagio di vivere, quella sua necessità e volontà di cercare di rispondere alle grandi domande della vita che il rumore di fondo della quotidianità relega spesso in secondo piano. Le sue non sono domande semplici, per rispondere rispolvera tutto il grande sapere filosofico, tutta la profondità e la complessità dei grandi pensatori di tutti i secoli. Confrontandosi principalmente con il concetto di infinito e cercando di definirlo, si crea continue trappole cadendo spesso in paradossi irrisolvibili, in querelle di difficile soluzione. Questa rinuncia alla vita la porta a toccare il nulla, il vuoto e a viverli come esperienza profonda ma paralizzante. La bellezza dei numeri e dei frattali sembra a volte salvarla dalla mancanza di senso che il mondo spesso assume di fronte ai suoi occhi inquieti e mai completamente paghi di risposte. L’infinito, via via che cerca di rintracciarlo, di definirlo, le appare sempre più come una coordinata per trovare il finito che non quel traguardo che ambiva di poter raggiungere. Fin da piccola ha sognato di poter percepire “un frammento di infinito“, ed ora, nel suo ritiro forzato, si ritrova a scrivere queste parole, a circoscriverle, come punto principale di indagine.
“Che importanza hanno le cose che facciamo se non cancellano i dubbio, il rumore di fondo della vita? Che valore hanno successo, potere, amore, piacere, dolore e desideri, davanti all’infinito ? “
Therese ha la necessità di ridefinire il mondo, di rinominarlo attraverso concetti nuovi, sbarazzandosi di tutto quello che ha imparato e le hanno insegnato. Tutto quello che sa è stato ereditato da un sapere dato per scontato, accolto e assunto come verità. E quello che apparentemente sembra un rifiuto del mondo, non è altro che un andarci di nuovo incontro, con una percezione resa più acuta da un’attenzione costante e profonda, elaborata attraverso una riflessione filosofica e da quella sua sensibilità rosa dalla paura, corrosa da quell’ebrezza sanguinaria che percepisce in chi è follemente innamorato della vita e che lei respinge con tutta se stessa e che respingerà fino a che non le sarà data la possibilità, unicamente da se stessa, di scoprire finalmente un’identità più autentica, capace di reggere la tensione degli opposti e di quel suo anelito verso l'infinito. Le astrazioni come la speculazioni filosofiche tengono lontano il rumore del mondo, il suo pulsare, l’estranea moltitudine di persone che lo animano, l’accadere della vita. Così lei può riempire le sue giornate di disegni e citazioni, pensieri e lettere, ordinando una quantità considerevole di libri. Il saggio filosofico è l’unica cosa che può entrare in questo corto circuito mentale della sua reclusione, per aiutarla e sostenerla in questa sua costante opera di sottrazione da se stessa e dal Tempo. Lentamente le cose si spoglieranno del loro senso o significato originale per divenire familiari in un nuovo modo, fino a contenere nuovamente la complessità della vita, e il mistero insondabile dell’esistere. La risposta a qualsiasi domanda non avrà più connotati assolutistici, sete di infinito, ma la risposta a qualsiasi domanda sarà; “è sia sì che no“. La vita;"un'oscurità morsa dallo splendore".
“Ho amato, tanto. Tu, lui , lei, loro, chi conosco, chi non conosco, chi mi odiava, una formica, un polpo, una tazza. La passione si è distorta, si è gonfiata, ha mostrato un viso per ogni esperienza e delusione. Ho cambiato mira più volte, ma nessuna meta mi bastava, così ho allargato il bersaglio, che più si estendeva più cambiava qualità, diventava inumano, meraviglioso – capace, finalmente, di farmi esplodere. Volevo invertire il giro, far abdicare l’io ed estendere il suo regno oltre ogni limite“. (Francesco D’Isa)                                                                                                       Stella Marina


11  Aprile  2017

Il Richiamo 
Della Foresta

di Jack London



Cominciamo dall’inizio. Dal mio amore per Jack London. Un autore con cui ho cavalcato l’adolescenza ma che non mi ha mai più abbandonato perché uno che scrive (non in questo libro, ma altrove): “E’ bello cavalcare la tempesta e sentirsi divino. Oso affermare che per una particella finita di gelatina pulsante sentirsi divini è un sentimento di gran lunga più glorioso che sentirsi divino per un dio “, non lo si abbandona mai più; non si può! E’ questo un pensiero che mi ha accompagnato a lungo e al quale attingo spesso, soprattutto nei momenti più bui: ha una forza che mi costringe sempre a cavalcare l’onda e a ricordarmi di quei momenti, sempre troppo rari, ahimè, di gioiosa vittoria o di pienezza d’essere, in cui si riesce a percepire chiaramente la forza selvaggia e unica della vita. Ad avvertire e respirare il sapore salmastro del mare, la forza del vento, l’indomabilità dell’onda, come se ancora tutto fosse da scoprire e da vivere per la prima volta, come se mettessimo piede sulla verginità della terra, ancora ardente e non addomesticata, nella forza degli elementi ancora tutti da scoprire e da comprendere. Così, esattamente così, con quel preciso piacere di cui parla Jack London ne “La crociera dello Snark“: “Ecco l’ambiente feroce, ed il difficile adattamento, la cui realizzazione è un piacere per la piccola vanità tremante che sono io.“
Lessi “the Call of the Wild “sicuramente quando ero molto giovane e da qualche parte dovrei ancora conservare quella copia per adolescenti, credo illustrata. Poi ricomprai il libro, dopo molti anni, mi pare nell’86, perché avevo voglia e bisogno di rileggerlo, e lo trovai, per Einaudi, nella traduzione di Gianni Celati, che per lungo tempo è rimasta l’ultima, fino a che non sono arrivati quel rompiscatole di Mari e la casa editrice Bompiani con il desiderio di volergli restituire una nuova veste grafica e una nuova traduzione. Che fare, ordunque? Come resistere a Michael Seas e a tutta la sua lunga disquisizione iniziale (bellissima!!!) sulla traduzione italiana del titolo di questo libro? Impossibile. E non senza l’aiuto di una tempesta ormonale (per Michael, sia chiaro), ho aperto il libro e mi sono perdutamente, pazzamente innamorata   di Buck…
Ma prima di parlare di Buck, ascoltiamo le due voci di due grandi scrittori e traduttori, e vediamo come si sono giocati la partita.
“Buck non leggeva i giornali, altrimenti avrebbe saputo quale guaio stava bollendo in pentola, non per lui soltanto, ma per tutti i cani d’una certa mole con forte muscolatura e un caldo e lungo pelo, dallo stretto di Puget fino a San Diego.“ (Gianni Celati)
Poi arriva the voice e cosi traduce: Buck non leggeva i giornali, altrimenti avrebbe saputo che stavano arrivando grossi guai, non solo per lui, ma per qualsiasi cane muscoloso avvezzo all’acqua e coperto di un lungo caldo pelo vivesse fra lo Stretto di Puget e San Diego. (Michele Mari)
Ora non starò qui a disquisire sulla mia preferenza, e su altre quisquiglie, però mi piace ricordare l’amore che Michele Mari ha sempre provato per la scrittura di Jack London, amore che si percepisce in ogni parola, punto e virgola, di questo libro. “Un altro autore di racconti per me fondativi e indimenticabili è Jack London, quei racconti brevi di cani e di slitte, di solitudini disperate ed eroiche, di regressioni ataviche“, ha risposto Mari ad un intervistatore che gli chiedeva quali fossero i suoi scrittori di riferimento, quelli per lui fondamentali.
Ed ora veniamo finalmente a Buck, figlio di un enorme cane San Berardo, Elmo, il padre, e di Shep, la madre, un pastore scozzese. Viveva fin da cucciolo nella splendida casa del giudice Miller nella soleggiata Valle di Santa Clara, quella fertile vallata che si estende a sud di San Francisco. Una vita tranquilla e beata, allietata dalla compagnia dalle figlie piccole del giudice, Alice e Mollie. Una vita fin troppo tranquilla e noiosa a dire il vero, per un cane della sua stazza e del suo carattere, che però non sarebbe affatto cambiata se, in quegli anni, correva l’anno 1897 quando incontriamo Buck per la prima volta, non ci fosse stata la scoperta dei giacimenti del Klondike, e non fosse scoppiata la corsa all’oro, contemporaneamente spesso anche alla malvagità umana. Per questo Buck fu rubato e quindi venduto di nascosto e privato della sua famiglia e delle calde terre del Sud, per essere trasferito, in condizioni disagevoli, forzate e brutali, negli inospitali ghiacciai dell’Alaska e trasformato in un cane da slitta. Lui era un cane bellissimo e audace, che avrebbe saputo resistere a quel clima e a quella natura forte, pericolosa e impossibile. Buck aveva in sé quella astuzia selvaggia necessaria per non soccombere e l’intuizione innata per capire quelle poche ma essenziali parole per sopravvivere: “Una volta caduto a terra, eri finito.“...
Beh, la storia la conosciamo più o meno tutti, e invidio molto  chi ancora non ha letto il libro perché si ritroverà davanti (per la potenza delle immagini) e dentro (perché non possiamo esimerci dal viverlo in prima persona) un magnifico racconto, e quindi non svelerò altro della trama, né dei pensieri-emozioni di Buck, che sono quelli di cui ci siamo innamorati pazzamente noi che lo abbiamo letto  e saranno anche  quelli di cui vi innamorerete pazzamente anche voi, che ancora non lo avete letto”: saranno i medesimi, gli stessi pensieri, validi per tutti e per sempre. Sono quelli che ci parlano, quelli che giungono da quel cuore palpitante dell’esistenza, da quel suo cuore selvaggio, primordiale, che esiste da sempre e che ci riporta nel ventre del Tempo, “nel genuino insorgere della vita, nella marea dell’essere, nella perfetta esultanza di ogni singolo muscolo, nervo o tendine…”. Nessuno ne potrà più ignorare la forza, la sua forma limpida di accecante bellezza, quell’estasi che indica il culmine della vita, quello oltre il quale la vita non può ergersi. Quest’estasi, questo oblio di essere, come scrive magnificamente Jack London, ho i brividi mentre scrivo, “quest’estasi, questo oblio di essere vivi visitano l’artista, rapito a se stesso da una cortina di fiamme“. Sembrerebbe da quello che ho descritto precedentemente, l’inizio per Buck di una perdita, la perdita dell’amore e di una sorta di paradiso terrestre, per quello strappo improvviso e forzato dalla sua casa, dalla sua “famiglia“. Ma in realtà, inizierà per lui, come giustamente dice Mari nella prefazione, una sorta di iniziazione à rebours, un ritorno alle sue vere origini, al proprio dimenticato coraggio. Un animale traboccante di vigore e di fierezza, a tu per tu con le memorie del proprio retaggio e con i mormorii incomprensibili della foresta che diverranno sempre più chiari, fino a contenere un unico, impellente, irrinunciabile messaggio. Atavismo, eredità, primordi, sangue, antenati. C’è in realtà una breve frase che riassume splendidamente tutto questo mio lungo ed inutile discorso. E’ una frase apparentemente semplice, che diviene però gigantesca, cresce a dismisura mentre la leggiamo, e ci abbaglia con la sua bellezza. Mentre la scrivo, e la trascrivo a penna su un mio quaderno, la sento vibrare, la sento vivere, la sento respirare. Ogni volta che la rileggo mi emoziono: c’è tutto. Non serve altro. C’è tutto Buck, c’è tutto Jack London, c’è ognuno di noi.
“Era stato improvvisamente strappato al cuore della civiltà e scagliato nel cuore delle cose primordiali “  .
                                                                                                                           Stella Marina


11  Marzo  2017


LE  BRACI                              

di  Sàndor  Marai






“(…) Ma poi sei tornato, perche non potevi fare diversamente. E io ti ho aspettato, perché non potevo fare diversamente. E sapevamo entrambi che ci saremmo incontrati ancora una volta, e che poi sarebbe stata la fine. Della vita, e naturalmente di tutto ciò che ha dato un senso alle nostre vite e le ha mantenute in tensione fino a questo momento. Perché un segreto come quello che esiste fra te e me possiede una forza singolare. Una forza che brucia il tessuto della vita come una radiazione maligna, ma al tempo stesso dà calore alla vita e la mantiene in tensione. Ti costringe a vivere…”
Sono adesso così, l’uno di fronte all’altro, dopo quarantun anni e quarantatrè giorni, oramai due vecchi, con il tessuto della loro vita sfilacciato tra le dita, a rintracciarne la trama, il significato. Si incontrano in un antico castello, ai piedi dei Carpazi, di cui uno dei due è il proprietario e in cui ha trascorso tutta la sua esistenza. La scelta di questo luogo non è affatto casuale, ma risponde ad un disegno ben preciso; l’attesa di una confessione o di una rivelazione in quel luogo che è il solo custode di quella memoria di un passato che si andrà ad evocare. La sera è estiva, ma già è attraversata dai brividi delle prime avvisaglie autunnali.  La stanza in cui sono seduti è illuminata dal tremolare delle candele e dal fuoco di un camino. Sono due vecchi amici, amici fraterni, che hanno trascorso insieme tutta l’infanzia e la giovinezza. Sono amici di quell’amicizia rara ed eletta che a pochi fortunati è “affidata“ in dono, così potente ma allo stesso tempo così fragile. L’avevano saputo, fin dal primo giorno che si erano conosciuti nel collegio militare all’età di dieci anni, dormendo e vivendo l’uno accanto all’altro, che quel tipo di amicizia li avrebbe vincolati per sempre, resistendo agli anni e alla lontananza, e che li avrebbe accompagnati e tenuti uniti, in qualsiasi modo, fino alla fine dei loro giorni. C’era stato un patto tra loro immediato ed implicito, non sigillato da parole, perché per loro ogni parola sarebbe stata inadeguata ed insufficiente. Eppure ad un certo punto del cammino della loro esistenza, qualcosa tra di loro si era infranto, spezzato. Quella simbiosi nella quale come gemelli erano vissuti, e della quale si erano avidamente e reciprocamente nutriti, si era lacerata, strappata orribilmente. E  come raccontare quello strappo doloroso e imprevisto, inatteso,  se non con un monologo incalzante e in crescendo, se non con un flusso incontenibile di parole dove la voce di un amico ripercorre tutta la storia della loro vita, pensata e ripensata per anni, nella solitudine più assoluta, consegnando proprio a quella solitudine la sua anima e il suo destino, “in attesa di quel giorno in cui finalmente potrà discutere ancora una volta di tutto ciò che lo ha costretto a quella solitudine con chi lo ha ridotto in quella condizione“. Ancora una volta, e per l’ultima volta, individuare e chiarire con precisione assoluta quel punto di rottura, da cui era germogliata rapidamente quella rivelazione inattesa come una protuberanza maligna: quel tradimento mortale da parte di uno di loro due. Quanto costa ammettere che una parola, in questo caso “fedeltà“ oppure “amore“, non ha lo stesso significato né lo stesso valore per le persone e che ognuno le riveste con ciò che è. Quanto è duro nella vita constatarne la verità, purtroppo… e quanto tempo ci impieghiamo a capirlo! Henrik e Konrad, questi sono i loro nomi, questi sono i due uomini che sono di fronte a noi nella stanza, anche se uno è quasi sempre in silenzio, e solo l’altro parla. Da quello strappo ne era derivata l’amara   consapevolezza che loro due erano uomini completamente diversi, animati da sentimenti diversi, con una visione del mondo opposta e inconciliabile tanto da non potersi più riconoscere l’uno nell’altro. Il risentimento è pari all’intensità del dolore provato, l’elaborazione tortuosa di un lutto nutrirà anno dopo anno il desiderio di vendetta. E sarà proprio questo desiderio, forte, irruento, incontenibile, terribilmente umano, provato soltanto da uno dei due, a mantenerlo in vita e in forze, a farlo passare indenne attraverso la devastazione di due guerre terrificanti che distrussero e cambiarono per sempre il volto del mondo. Cadono all’unisono i principi e il patto silenzioso e di fiducia che avevano nutrito quella loro fraterna ed eletta amicizia, cadono in un giorno preciso, in un momento preciso, ricordato con tanto ardore e con una lucidità disarmante: 2 luglio 1899. Dopo, rimangono soltanto gli uomini, con la loro ferocia ma anche con la loro umanità, con quel loro personale carattere che va a delineare, a tracciare quello che sarà il loro personale destino. E come una sentenza, cade anche su di noi la potenza di questa frase, dalla quale non riusciremo tanto facilmente poi a liberarci neppure a fine lettura: “Gli uomini contribuiscono al loro destino, a determinare certi eventi. Invocano il loro destino, lo stringono a sé e non se ne separano più. Agiscono così pur sapendo fin dall’inizio che il loro modo di agire porterà a risultati nefasti. L’uomo e il suo destino si realizzano reciprocamente modellandosi l’uno sull’altro. Non è vero che il destino si introduce alla cieca nella nostra vita: esso entra dalla porta che noi stessi gli abbiamo spalancato per entrare “. Rimangono quindi le domande, assillanti e irrequiete, inquiete di verità, che vanno a riattizzare la brace sotto quella che sembrava oramai spenta cenere. Nella stanza attraverso cui noi guardiamo, con un’attenzione e precisione crescente, noi riusciamo a vedere, a sentire scorrere nei corpi ricurvi e trasparenti di questi due anziani le emozioni intense di tutta una vita. Attenzione dovuta all’indubbia maestria di Marai nel saperci condurre  dentro questa notte piena di rivelazioni e di tensione, all’interno di questa stanza dove c’è  un uomo anziano che chiede ad un altro uomo anziano il significato di un tradimento, in special modo, al di là dei fatti e di quello che poi era accaduto o non accaduto realmente, chiede conto all’amico dell’intenzionalità, dell’intenzionalità di un gesto, di un tradimento, quel tradimento che li aveva allontanati per sempre, costringendoli a separarsi e a vivere lontano uno dall’altro. E ancora e con maggior vigore, con quell’ultimo virile vigore di chi si sta preparando a separarsi dalla vita ma è ancora prepotentemente avvinghiato ad essa, quell’anziano chiede all’altro il significato ultimo dell’esistenza e più ancora, domanda della forza, della prepotenza di quella passione che alimenta e nutre la vita. “E non credi che non saremo vissuti invano poichè abbiamo provato questa passione? “. E questa volta la passione è quella di ciascun uomo, quella di ciascuno di noi, che proviamo nella e per la Vita, e forse qui, ognuno di noi si sente tirato dentro il racconto, a rispondere con la sua stessa vita. E’ un momento altissimo, di accusa, di duello senza spada, ma anche di umana tensione, di vibrante desiderio di vita, di poter vivere ancora, sentendo la forza stessa che è racchiusa nell’esistenza e che è invincibile e vince, vince sempre sull’uomo, in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo.  La passione accende le nostre misere esistenze, così “profonda, così malvagia, così grandiosa, così inumana“. Noi lettori, non possiamo emettere parola, o prendere le difese di nessuno dei due amici, non prima di chiudere il libro e forse, neanche dopo. Non siamo stati invitati per questo, non siamo stati invitati per emettere sentenze, siamo stati semplicemente invitati per assistere in silenzio ad ascoltare l’intensità di un monologo in una notte di fine estate, di un uomo che ha amato ed è stato tradito,  che ha avuto fiducia ed è stato deluso, che ha creduto fortemente nel significato nobile dell’Amicizia,  monologo che si esaurirà alle prime luci dell’alba  quando  le vite di questi  due amici si separeranno  definitivamente , spezzando quel cordone ombelicale che li aveva  tenuti  uniti e in vita, interrompendo il dolore e il ricordo.   Forti e deboli, accesi di desiderio e di rimpianti, di risentimenti, uno accusato e l’altro accusatore, incerti noi stessi se l’accusatore non sia egli stesso stato colpevole, sul filo della memoria la vita canta la sua passione. Mentre il fuoco quasi spento improvvisamente riprende ad ardere, questa volta per l’ultima volta, per cancellare definitivamente un passato che non cerca e non ha più bisogno di risposte, un nuovo giorno si prepara a nascere, in una quiete che sembra quasi una silenziosa richiesta di tornare a vivere dentro un utero materno, in un corpo di donna, al principio della vita o forse, come in questo caso, alla sua fine. Perché la vita a volte è cosi complicata, così ardimentosamente costruita sulle incomprensioni, che saperla decifrare non è così semplice, soprattutto nel momento preciso in cui accade. Indimenticabile in questo romanzo la figura di Nini, la vecchia nutrice e poi servitrice del castello, ma direi più “custode“, una figura femminile che sembra saper comprendere i tormenti umani, accogliendoli  nel suo grembo protettivo di madre e di donna, senza giudizio…come una presenza eterna, attraverso cui , ogni volta, si rinnova la vita.
“L’uomo comprende il mondo un po’ alla volta e poi muore“. (Sàndor Marai).
Curioso poi il fatto, sul quale sto riflettendo molto, come la vita di Marai, dopo aver scritto questo libro, si sia poi nutrita quasi esclusivamente di quella solitudine dolorosa di cui parla in questo romanzo. Libro per altro non considerato da lui stesso il suo migliore, perché troppo romantico. Io, naturalmente, non sono d’accordo. 
                                                                                               STELLA  MARINA




11 Febbraio 2017


IL MONDO ESTREMO

Christoph Ransmayr




“E ormai ho compiuto un’opera che né l’ira di Giove, né il fuoco, né il ferro, né il tempo che tutto rode potranno cancellare. Quando vorrà, venga pure il giorno fatale – che può però disporre solo di questo corpo – e ponga pure fine allo spazio (quale sia io non so ) della mia vita. Ma con la parte migliore di me io volerò in eterno più in alto delle stelle, e il nome mio rimarrà, indelebile. E ovunque si estenda, sulle terre domate, la potenza romana, le labbra del popolo mi leggeranno, e per tutti i secoli, grazie alla fama, se qualcosa di vero c’è nelle predizioni dei poeti, vivrò.“

Si conclude così, con queste parole, il quindicesimo e ultimo libro delle Metamorfosi di Publio Ovidio Nasone, un libro che io ho amato e amo moltissimo. Come diceva Italo Calvino, le Metamorfosi sono il poema della rapidità, tutto deve succedersi a ritmo serrato, ogni immagine deve sovrapporsi a un’altra immagine. “Questo brulicare e aggrovigliarsi continuo di vicende spesso simili e sempre diverse, in cui si celebra la continuità e la mobilità del tutto.” (Italo Calvino)
Quando lessi le Metamorfosi per la prima volta, ero davvero molto giovane, fui presa da una sorta di stordimento e di fascinazione contemporaneamente, mi sembrava impossibile che un tal libro, di tale bellezza e tutto sommato di tal coerenza, fosse stato scritto tra il 2 e l’8 d.C. Tutto è integrato, dèi, uomini, vegetali, cose inanimate, e tutto è in perpetuo movimento sotto la spinta delle passioni elementari ed eterne. Forse fu proprio questo costante mutare, questo perpetuo gioco di forme, a catturare inizialmente la mia attenzione. Per una giovane mente fu un libro fondamentale, aderii alle sue pagine con totale devozione, e se adesso ripenso al mio percorso di lettrice bulimica, non posso non “incolpare“ Ovidio per la sua raffinata arte di seduzione che impresse nella mia mente e nella mia memoria quell’arte sublime ed unica del “saper“ raccontare. Forse per questo motivo ho apprezzato molto questo libro di Christoph Ransmayr, “Il mondo estremo“, filosofo austriaco che con una scrittura lirica e visionaria, ci restituisce gli anni dell’esilio di Publio Ovidio Nasone, la sua parabola discendente di uomo e di scrittore. Confinato a Tomi (l’odierna Costanza in Romania), da Augusto imperatore perché ritenuto pericoloso e sgradito a Roma, bandito per sempre da quel regno della necessità e della ragione. Le motivazioni di questa relegatio sono innumerevoli e contrastanti, e possiamo tranquillamente soprassedere in questa sede, anche se è molto interessante andarsele a rileggerle…
“Il mondo estremo “ si apre con un viaggio per mare di Cotta, protagonista del libro, in viaggio verso Tomi, alla ricerca di Publio Ovidio Nasone e del suo capolavoro, le “Matamorfosi“, distrutte in un impeto di odio poco prima di lasciare Roma e di divenire un esule, abbandonato a una misera e triste sorte. Quello che affascina nella narrazione di questo libro, oltre allo stile, è l’uso atemporale del tempo, in cui, con un solo batter di ciglia, il mito e la realtà camminano contemporaneamente, vivi in egual misura, potenti in egual misura mentre " accadano " contemporaneamente , si compenetrano di continuo in un flusso ininterrotto, in quel luogo che seppur geograficamente localizzato e quindi ben definito, ha però il colore e le sembianze di un allucinante sogno in cui le metamorfosi sembrano essere l’unica possibilità rimasta al genere umano per sottrarsi all’incombere dell’Apocalisse e alla distruzione perpetua. Forse anche per questo si scrive e si legge, per non soccombere. E l’autore di questo libro deve averlo capito molto bene, e me lo immagino addormentarsi con la sua copia delle Metamorfosi sotto il cuscino che nel sonno continuano incessantemente a sussurrargli le imprese eroiche e le gesta di uomini e dèi. Forse la sua visione ha il sapore di quel sogno, la tensione rapsodica di un incubo, il perturbamento dell'insonnia, la forza e la potenza invincibile del mito. Seguirlo in questo viaggio è puro piacere, piacere di vedere le ombre concretizzarsi davanti al nostro sguardo e prender forma dal buio, lentamente avanzare , scivolare sulla curva del tempo, annullando le distanze tra immaginazione e realtà. Forse si percorre una terra di nessuno in una sospensione temporale che potrebbe pur assomigliare all'eternità, o forse quel corridoio buio che è l'anticamera dell'eternità, un passaggio solitario in cui i propri demoni si divertono a mutare volto costantemente, come in un carnevale che all'improvviso degeneri in folli atrocità. Si percepisce ad ogni passo la fragilità della vita, si sente e si respira il sapore della morte, quel sapore che è un misto di ferro, sangue e salmastro. Si cammina lungo quel pericoloso declivio a strapiombo sul nulla, dove gli echi delle voci possono essere mere illusioni, strabilianti visioni, dove i personaggi mitologici ci indicano il gioco del rovescio, un gioco estremo che ci mette a dura prova, perché nulla ha per noi più valore dell’esistere, e nulla è più effimero dell’esistere. Davvero gli dèi sono fuggiti, si domanda James Hillman in uno splendido libro che ha scritto sul mito, “Figure del mito“. O siamo noi che non sappiamo più vederli? Ciascun dio, prosegue Hillman, è un modo in cui sono date a noi le nostre ombre. Ecco dunque, una galleria di ombre che si materializzano dal passato per aderire con nuova forza alla veste del presente. Solo le pietre sembrano essere immortali, mantenere una inattaccabile dignità, farsi custodi del battito vitale della Vita, di tutte le vite che si sono susseguite una dopo l’altra, o che avvengono tutte, contemporaneamente. Forse proprio dalle pietre esisterà la possibilità della rinascita di una nuova umanità dopo la totale distruzione, stando alla predizione di questo estremo Ovidio. Confinato e solitario, abbrutito in una terra ostile da dove lancia la sua estrema profezia, che cade sul mondo come una minaccia, da quel limbo di terra ferrigna e dimenticata, in quella sua tensione estrema di cercar di recuperare e far rivivere ogni parola scomparsa del suo grande, eterno capolavoro. In una sorta di rabbia estrema e solipsistica, preannuncia che forse nascerà una umanità nuova , una schiatta di durezza minerale, cuore ti basalto, occhi di serpentino...
La percezione del tempo è un modo tutto umano di interpretare, di dare una successione logica agli eventi. Ma il tempo accade indipendentemente da noi, accade nel suo modo e con una sua logica, se esiste logica. Potrebbe addirittura non esistere il tempo, ed essere solo lo specchio delle nostre illusioni, del fallimento di ogni nostra più fondata e comprovata intuizione. Forse il viaggio di Ransmayr è una ricerca e una corsa febbrile contro il tempo, un modo di ingannarlo e di essere più veloce. Un modo per contrapporre al vuoto, la forza e la potenza dell’ immaginazione, il suono consolatorio, affabulatorio e immaginifico degli esametri ovidiani, per riuscire a ritrovare in quella terra estrema sul Mar Nero, in una notte di luna, le parole del poeta , nascoste da migliaia di occhi di lumache bavose , da infiorescenze schiumose protette dagli dèi, in una oscurità colmata dal canto sottile del dolore .Forse, se si riuscirà a ritrovare quelle parole confinate in un quel limbo di terra alla deriva, sospesa tra cielo e terra tra incubo e veglia, se saremo capaci di individuarne, con sguardo lucido, i contorni nella notte, oppure vederle in sogno, si avrà salva la vita. Tutta la nostra esile esistenza vibra sul suono di poche, immortali parole di poeta.
“Talvolta a Cotta sembrava che questo luogo distante neppure un’ora di cammino dal porto della città ferrigna fosse il centro segreto degli itinerari di Eco, che a forma di stella partivano tutti da lì e lì portavano: era un’ampia baia, orlata da una sottile striscia di conchiglie, fuco intrecciato e sabbia nera, in cui il mare rotolava con lunghe ondate tonanti. Solo le grida erano comprensibili, là: ogni altra parola era inghiottita dal rombo dell’acqua e del vento“.                                  

Christoph Ransmayer
                                                                          STELLA MARINA


11  Gennaio  2017 

Imparare a pregare

nell'era della tecnica

Goncalo M.Tavares



"La paura è il mistero che la velocità nasconde"
“ Il Dott. Lenz, importante chirurgo della città, uomo padrone assoluto dei suoi piaceri privati, estimatore delle piccole umiliazioni a prostitute, e che di recente aveva preso l’abitudine di ricever ...continua
“Il Dott. Lenz, importante chirurgo della città, uomo padrone assoluto dei suoi piaceri privati, estimatore delle piccole umiliazioni a prostitute, e che di recente aveva preso l’abitudine di ricevere in casa un vagabondo, di offrirgli laute elemosine, di dargli pane e cibo e soprattutto di umiliarlo, di ritardargli le elemosine, il cibo, di assaporare il piacere di trovarsi dalla parte forte e di avere due occhi sani e chiari per vedere ciò che la chiarezza del mondo mostrava: la rudezza di quello stesso mondo, la violenza e la differenza fra chi ha la salute e chi non ce l’ha, fra chi ha i soldi e chi non li ha, fra chi è vecchio e chi non lo è, fra chi è brutto o deficiente e chi non lo è, fra chi ha le cicatrici di un incidente sul volto, bruciature, tagli che sfigurano la bellezza media e chi, al contrario, non ha nulla che macchi il suo orgoglio, il suo orgoglio esteriore, fisico, l’unica moneta comune a tutti i secoli, a tutti i paesi, a tutte le lingue. Era questo che gli occhi sani e chiari di Lenz vedevano, era questo che la chiarezza del mondo gli mostrava.“
Si arriva a questa cinquantesima pagina del libro per brevi, brevissimi, fulminanti capitoli. Come scrive Alberto Manguel, Tavares è abilissimo nel ridurre il mondo in frammenti e ricostruirlo poi come se fosse la propria creazione. Aggiungendo ad ogni pagina un nuovo dettaglio e riflessioni sulla natura delle cose all’interno del racconto, riflessioni esplicitate spesso ironicamente dai tanti titoli e sottotitoli di cui l'autore si è servito per aprire ogni nuovo capitolo, ci troviamo faccia a faccia con Lenz Buchmann, protagonista assoluto del libro, homo faber ipsius fortunae. Cresciuto dal duro e severo apprendistato paterno dell’adolescenza, lo ritroviamo un uomo fatto, un medico chirurgo di gran successo. Lo vogliamo guardare dritto negli occhi quest’uomo insopportabile, di mostruosa freddezza, di glaciale intelligenza, dai perversi piaceri. Frugando attentamente nel suo sguardo, in quei suoi occhi chiari e sani, per vedere se esista in lui ancora qualche piccolo, invisibile, impercettibile, barlume di umanità. Lo sguardo che ci restituisce è freddo e affilato come una lama, naturalmente. Esercitato alla velocità della battaglia, alla rapidità delle decisioni, vi lampeggia soltanto l’eccitazione impellente per il combattimento. Lenz non ha sentimenti umani, non ha più sentimenti umani, non ha debolezze, né fragilità. E’ incapace di qualsiasi empatia. E’ un perfetto, freddo esecutore che non conosce l’errore, addestrato fin da piccolo come un soldato, sempre e in ogni istante sul campo di battaglia a pianificare la miglior strategia di combattimento in qualsiasi campo della vita si trovi impegnato ad agire. Non ha mai amato e mai amerà nessuno, neppure la moglie, naturalmente. Solo il padr**e, di cui si sente il naturale e unico erede, l’incarnazione stessa della sua volontà e della sua forza, della sua lucida e implacabile intelligenza, disdegnando ogni forma di debolezza, esattamente come lui. Programmato come una macchina per non sbagliare mai, dritto al fine che si è proposto, senza nessun tipo di scrupolo. E’ l’uomo della tecnica, completamente asservito ai suoi comandi, completamente adatto per eseguirli in modo perfetto. Tutte le azioni sono possibili e tutte vanno bene se colpiscono l’obbiettivo. La morale non esiste. Si tratta solo della capacità di saper dominare e di essere veloce. Si tratta di rapidità. Di dominare, prima di essere dominato.
Un abilissimo chirurgo, dicevamo. Certamente non ha scelto la professione per essere di qualche aiuto per l’Umanità, ma per un suo “estemporaneo ottimismo”. Una persona nata ed educata per uccidere, e solo per un “vaneggiamento intellettuale“ aveva scelto la professione di medico. La bontà è un sentimento che disprezza in assoluto, il dottor Lenz, da sempre. Il bisturi, che con assoluta precisione introduce nei corpi dei suoi pazienti, segna per lui il primo punto di attacco in un campo di battaglia, dove il nemico è, in questo caso, la malattia. L’organismo ammalato è per lui materialmente colpevole e il suo bisturi, messaggero della precisione e della rettitudine, va a raddrizzare, a rettificare ogni deviazione avvenuta nell’organismo, riportando nuova precisione e un nuovo ordine.
“Quando la sua mano destra, precisa e magica, entrava in azione, la decisione di procedere a sinistra o a destra non era una mera decisione riguardante il traffico, non contemplava l’idea di procedere per la strada più breve o più lunga(..).” Nella guida del bisturi Lenz vedeva la possibilità di mantenere acceso o di spegnere un impianto audio. E’ lui che manipolava il bottone decisivo, fino a quel momento era sempre avanzato dalla parte giusta, ma ogni volta che impugnava nuovamente il bisturi per un’altra operazione, il Dott. Lenz Buchmann non riusciva a smettere di pensare a quella seconda possibilità che, ancora una volta aveva a sua disposizione: avrebbe potuto ruotare la manopola dalla parte sbagliata, dal lato che spegneva intenzionalmente il meccanismo. E per quanto turbasse se stesso – giacchè la sua professione era la roccaforte morale che ancora custodiva in un’esistenza del cui assoluto disordine era ben conscio -, ciononostante, Lenz si sentiva attratto da quella seconda possibilità, da quel cammino negativo che non aveva mai intrapreso.”
Questa seconda possibilità, tuttavia è sempre presente nella mente di Lenz Buchmann. Ne subisce, suo malgrado, il fascino, il misterioso richiamo. Sa che ogni piccola, pur minima distrazione, potrebbe essere fatale errore. Ma “quella seconda possibilità“ scorre dentro di lui come una corrente contraria, serpeggia nel vigore del suo corpo, apre impercettibili devastazioni, minimi sotterranei focolai di disordine, si insinua nel perfetto funzionamento delle giunzioni sinaptiche. In agguato, raccogliendo le sue forze, attende…apre invisibili crepe nel perfetto sistema immunitario di Lenz. E attende...
Ha bisogno di essere potente, Lenz Buchmann. Non sin accontenta più di essere un gran professionista, il miglior chirurgo possibile. Il suo spirito di lotta e la sua potenza ambiscono al Potere. Così decide di scendere in politica, abbandonando la professione medica. Si iscrive al Partito, diventando ben presto il braccio destro del Presidente. Sicuro che presto lo diventerà lui stesso, il Presidente. Certo di essere destinato a dominare il mondo. Affascinato dal Potere, dalla sua forza, da quel dominio adesso da esercitare non più sul singolo individuo o sulla malattia, ma su tutti, sull’Umanità tutta quanta intera. Guarda dalla finestra del suo ufficio, “l’unica finestra dell’osservatore che osserva per agire“, la finestra delle grandi esistenze, la finestra di chi sa” di essere stato creato per influenzare gli uomini “ a uno a uno e poi tutti quanti, nell’insieme, guarda giù in basso, e li vede tutti quanti, gli uomini sui quali presto avrà pieno dominio, totale potere. Ma fin dove può spingersi il dominio dell'uomo nell'era della tecnica? Fin dove potrà spingersi Lenz Buchmann?
C’è qualcuno che è sempre più rapido ad imbracciare le armi. ”C’è qualcosa di rapidissimo ed insieme istantaneo che è più forte dell’uomo. Anche nei cataclismi naturali gli elementi erano semplicemente più veloci a imbracciare le armi.” Oramai è insanabile la frattura tra uomo e natura, incolmabile la distanza perché impari le forze. Sottoterra, dentro la terra nera, c’è il grande mistero, “l’ultima forza degli elementi naturali, la forza che la civilizzazione delle città non aveva addomesticato”. E la Natura non aspetta altro che il momento adatto per imbracciare il fucile. E uccidere. Una preghiera, forse, quella reiterata e disperata ripetizione di un nome. Il nome di un padre, forse. O semplicemente un nome, che viene dimenticato nel momento stesso in cui viene pronunciato. Incomprensibile ormai, dentro un foglietto di carta consumato e accartocciato, stinto da quella mano che ne ricerca i continuamente i contorni sbiaditi, mentre i diversi toni di luce di un televisore si sintonizzano su una linea costante. Una linea di luminosità che non si attenua, che non può attenuarsi più.
Scrittura tagliente e lucidissima questa di Tavares, che ha scritto un libro potente e crudelmente bellissimo Ti inchioda alla pagina senza darti alcuna possibilità di scampo, ti inchioda al Male senza saper più né a chi, né a che santo rivolgerti. ”Tavares non ha il diritto di scrivere così bene. Viene quasi voglia di picchiarlo”, scriveva di lui Josè Saramago. Veramente bravissimo Tavares in questo libro.
                                                                      Stella  Marina

11  Dicembre 2016

CIO' CHE LA NOTTE 
RACCONTA AL GIORNO

di Hèctor Bianciotti





"... saltai oltre me stesso e mi seguii passo passo... "
“ Mancavano quindici anni alla presa del potere da parte di Peròn quando io nacqui, nel mese di marzo, in quella pianura argentina che tante volte ho cercato di descrivere, o di esorcizzare. Per lungo ...continua
“Mancavano quindici anni alla presa del potere da parte di Peròn quando io nacqui, nel mese di marzo, in quella pianura argentina che tante volte ho cercato di descrivere, o di esorcizzare. Per lungo tempo ho conosciuto del mondo solo la natura più austera, più avara: una terra distesa a perdita d’occhio che ignora le amenità suggerite dal termine “paesaggio“, poiché le linee curve sono bandite da una superficie tanto omogenea che la si direbbe anteriore alla creazione, fuori dell’inafferrabile circonferenza dove il cielo e la terra si inventano dei limiti. L’alba aprendosi la spoglia, la luce di mezzogiorno l’annienta, il vento proveniente dalle origini del mondo la spazza, sollevando al paesaggio alte cortine di polvere che oscurano il sole prima di ricadere, lente, come una pioggia asciutta. In quelle contrade, laggiù, il centro del mondo si sposta con ogni uomo che cammina e tutte le distanze si irradiano a partire dal suo passo. E fu per gradi e per cieche verifiche che imparai a immaginare le montagne, le città e il mare, che talvolta un adulto nominava. Così alcune immagini mi hanno abbagliato o terrorizzato e perdurano in me, indelebili, andandosi ad aggiungere alla realtà che le ha smentite. “
Il titolo del libro è splendido, “Ciò che la notte racconta al giorno “. Il titolo originale sarebbe però in lingua francese e suona così “Ce que la nuit raconte au jour“. La lingua francese era sicuramente quella che più interessava a Bianciotti, la lingua sognata e immaginata, la lingua amata e attesa per lungo tempo quando ancora lo spagnolo era la sua lingua madre, la sua lingua d’origine, con cui doveva comunque rapportarsi, fare i conti, tracciare un confine. In un’intervista l’autore parla del francese come la più malata delle lingue latine. Un insieme di celtico, latino e germanico. “Il termine solitude“ in francese, è intimo. Mentre il corrispondente spagnolo “soledad“ è, al contrario, estremamente aperto.” Ecco che questo bellissimo libro, con una lingua raffinata e intima, segna il passaggio dalla lingua spagnola a quella francese, finalmente l’approdo ad uno spazio di pura soledad conquistata sul campo, con la vita. Bianciotti si trasferì in Francia, suo luogo d’ anima, lasciandosi alle spalle la non molto amata Argentina. La trasformazione non è stata immediata, la resistenza del linguaggio ha origini antiche, intime, segrete, circonvoluzioni tutte sue. Continuerà per tanti anni a scrivere in spagnolo, cercando il punto di distacco, di totale individuazione, di libertà. Sognando in francese il suo definitivo affrancamento da una terra e da una lingua.
Questo è l’ultimo libro che Bianciotti ha scritto prima che l’alzheimer lo devastasse. Un libro di ricordi, di piccole memorie, trattenute appena in tempo. “Oggi è la mia vita a cercami“, sono le prime parole dell’incipit, e colpiscono, emozionano. C’è come un presentimento e la volontà di non perdere l’essenza di una vita. Un osservare il rovescio della trama della sua esistenza, per vedere con quali fili è stata intrecciata e come quei fili si sono intrecciati tra loro a formare un percorso, quel disegno che, al termine della vita, compare sul diritto della trama.
"(...) Un uomo si propone di disegnare il mondo. Nel corso degli anni popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di vascelli, di isole, di pesci, di case, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto“, ( Jorge Luis Borges ).
Risplende all’origine una piccola culla, dalla forma di gondola, un neonato ancora inconsapevole dentro una stretta fasciatura, immobilizzato nella sua vitalità dalla testa ai piedi, nel rispetto di quella tradizione che riteneva che così lo scheletro si sarebbe fortificato, sviluppandosi forte e dritto. Saldo. La prima violenza subita. Il primo filo da annodare agli altri, con il suo duplice risvolto di affettuoso ricordo e intollerabile costrizione, di incubo ricorrente, improvviso e forte negli anni a seguire. Un bambino che lentamente prende coscienza di sé, all’ombra di un padre poco amato, di una madre troppo silenziosa, in una famiglia italiana numerosa emigrata per cercar fortuna in un’Argentina sconfinata. Sacchi di grano e bandoneòn, la vita nella fattoria, cinque stanze di mattoni, disposte intorno ad un porticato. Fare figli in quella famiglia significava munirsi di manodopera, ma significava anche obblighi senza possibilità di scelta. C’era poco da guardare le distese sterminate, i tramonti delle sere argentine, quelle notti “che talora riversavano il loro carico di stelle fino all’orizzonte“, quando il destino era già stato scelto dal proprio padre. Per fortuna in seno ad una famiglia c’è sempre un elemento bizzarro, non convenzionale, perturbante, che riesce a far intuire altre possibilità di vita, delle vie di fuga. E la prozia Pinotta fu per Bianciotti la sua prima ancora di salvezza. La Pinotta possedeva due dischi, solo quelli, barattati chissà con che cosa, essendo una “ malafemmina“, una vagabonda un po’ maga e un po’ strega, forse anche tenutaria di un bordello, con una innata malafede, sempre in mezzo a loschi affari, sempre in un incessante viavai di cianfrusaglie. Ma quei due dischi dischiusero un mondo, veicolando l’immaginazione, acuendo la sensibilità. Quel primo disco di musica ranchera e quel disco della Traviata, furono per Bianciotti presa di coscienza, un dischiudersi della bellezza, come subito dopo lo furono i libri, letti di notte sotto le lenzuola per non essere sorpreso, assaporando le gioie della letteratura, di nascosto. Rubando alla notte quello che il giorno gli negava. “L’emozione della prima rima: cosa c’è di più magico di quel fenomeno di ordine musicale che, unito al ritmo, concede a un pensiero qualsiasi il dono di apparire fatale, di venire da più in alto, grazie al quale una perplessità si muta in certezza e , contemporaneamente in voluttà ? ”.
La memoria disorienta, riservando ai fatti un destino incongruo alla loro importanza. Rumori, passi, la grana di un tessuto, un tono di voce, “una fiamma che grida del crepitio del legno“, l’ombra di un volo di uccelli su una prateria, l’incedere di un passante, la luce di un istante, o il suo buio, la sua penombra, rimangono come invulnerabili presenze, mentre altre cose vengono inghiottite dall’oblio, dimenticate per sempre. Così Bianciotti segue questo flusso senza opporre resistenza, seguendo con il filo dell’inchiostro quello che la memoria insegue, nel suo volo imponderabile e oscuro, in un passato che torna a vivere per conto suo, con le sue proprie leggi. Al galoppo su Colorado, il cavallo della sua infanzia, mentre davanti la terra è in fuga e il cielo arretra, nella sconfinata pianura argentina che sembra non avere limiti, nella necessità di delinearli però dei limiti, per esserne contenuto. Il nido dell’hornero rimanda intatta la sua malia ancora, dopo lunghi anni. Forte e inattaccabile, pazientemente costruito da quella coppia di uccelli in soli due giorni su dei rami spogli. Un tappeto d’erba, quattro uova bianche picchiettate di rosso al suo interno. La voce della madre che lo prepara al catechismo, la massa frusciante del grano, l’ombra del padre che incombe su di lui, sempre, onnipotente, con la schiena mai curva, il passo marziale, “la testa come tirata indietro per effetto dell’indignazione “. Il primo film visto, proiettato su una tovaglia bianca in una sorta di cinema all’aperto, un vestito da sposa nero dentro un vecchio baule, i pomeriggi di siesta, la scoperta forte e improvvisa della sessualità, della propria omosessualità. Il calore estivo, il ronzio delle api. Il fascino esercitato dagli specchi, quella realtà altra, segreta che continuerà ad attrarlo per tutta la vita e con la quale sempre si confronterà. Frate Salvador. La penombra di un parlatoio. I versi di Ruben Darìo letti in silenzio, sprofondando nella loro perfezione musicale. L’intuizione di un destino. Germogli di sogni e di desiderio. I terrificanti momenti della dittatura. Un biglietto di sola andata. Alle spalle la Croce del Sud. “Sapeva che non si è molto spesso orgogliosi di appartenere alla specie, che è cieca e senza pietà. Ma si disse - e qui ci lasciamo- che qualsiasi cosa fosse accaduta sulle rive ancora indistinguibili, la miseria, la sconfitta e anche la morte, tutto sarebbe stato alla fine, e per sempre, in onore della vita “.
Dormivi. Ti sveglio.
Il gran mattino reca l'illusione di un inizio.
Avevi dimenticato Virgilio. Sono qui gli esametri.
Ti porto molte cose.
I quattro elementi dei greci: la terra, l'acqua, il fuoco, l'aria.
Un solo nome di donna. L'amicizia della luna.
I chiari colori dell'atlante. L'oblio, che purifica.
La memoria che sceglie e che riscrive.
L'abitudine che ci aiuta a sentirci immortali.
Il quadrante e le lancette che dividono l'inafferrabile tempo.
La fragranza del sandalo.
I dubbi che chiamiamo, non senza vanità, metafisica.
Il manico del bastone che la tua mano attende.
Il sapore dell'uva e del miele.
                                                          - Jorge Luis Borges -
STELLA  MARINA




11  Novembre  2016
                                                                                                                   
CHE GUEVARA AVEVA UN GALLO

di Nicola Fantini e Laura Pariani







“La prima impressione che riportiamo sulla pagina riguarda la quantità di bambini che riempiono le strade, giocano a pallone sul marciapiedi, naufragano nel traffico, mordono un frutto maturo nell’incendio del sole. Ciechi di luce, ridono attraverso il fumo dei tubi di scappamento e la vertigine della folla. Cantano con la voce che è fiamma e allegria. Li guardiamo correre nel fango delle pozzanghere. Schiuma verde sotto i loro piedi brevi. Ci chiediamo da dove siano spuntati, che paradiso portino con sé, dove vadano. La strada come scuola di sole e ombra. Seduti al bar, li spiamo giocare per strada nella tenebra azzurra della tarda sera. Infanzia nostra e del mondo che gira alla cieca. Si racconta che, quando Saint-Exupèry visitò questa città per organizzare la rete di aviazione postale sudamericana, fu portato da un conoscente a visitare le periferie miserabili di Asunciòn; e gli capitò di vedere bambini che mangiavano terra. Ma poi non ne scrisse… Sulle sue pagine parlò dell’impressionante paesaggio del Paraguay, ma dei bambini neanche una riga. Noi non li vediamo mangiare terra, ma lavorare sì: spingono carretti, raccolgono spazzatura, trasportano taniche d’acqua, lustrano scarpe, vendono giornali. “El que traga amargo no puede escupir dulce“, dice il proverbio, e noi ci ripromettiamo, in questo viaggio di raccontare anche l’amaro, se lo incontreremo.“
Il titolo di questo libro è già bellissimo di per sè, già prima di aprirlo ne restiamo affascinati, già prima di iniziare questo viaggio nell’immensità di un territorio sconosciuto che ha esercitato nei secoli un fortissimo richiamo su irregolari, pionieri, sognatori di mondi alternativi e dell’ “uomo nuovo“. Proprio per questa fascinazione antica, per questa idea di luogo dove si possono finalmente  avverare tutti i sogni, una  coppia di sessantenni, Beppe e Mirella,  protagonisti del romanzo, alla fine scelgono  come meta per festeggiare il loro quarantesimo anniversario di nozze, il Paraguay, partendo dall’Italia  diretti ad  Asunciòn… C’è anche un altro motivo che li spinge verso il Paraguay, il poter incontrare e ricongiungersi con  il loro figlio Adriano,  archeologo in quelle terre lontane.   Ben presto però, quello che doveva essere un viaggio di piacere, per scoprire le bellezze di un paese, si rivelerà invece un viaggio misterioso e pieno di insidie, in cui nulla è come sembra, un gorgo risucchiante in cui sarà molto difficile riuscire a districarsi e perfino a salvarsi la pelle…. Sarà una bellissima donna misteriosa e guerrigliera, ad aiutarli nel loro viaggio, ma dal nome beffardo e alquanto equivoco, Invencìon, specchio perfetto di un paese bellissimo ma assolutamente indecifrabile, fatto da molti strati e da molte pelli, sovrabbondante di sogni e di molte, amarissime disillusioni.
L’architettura del romanzo è interessante, anche se a volte, io trovo, non completamente riuscita, soprattutto nella parte iniziale. La trama della storia romanzesca si alterna a pagine bellissime di appunti di viaggio, che costituiscono l’occhio sempre attento e vigile sulla situazione socio-politico-culturale del Paraguay, sulla sconfinata bellezza della natura, e sulle difficoltà di descrivere un paese in costante contraddizione con se stesso. Un occhio che cerca di riportare fedelmente tutto quello che vede, come in un reportage, con l’obbiettivo della telecamera sempre fisso sullo scorrere multiformi e dissonanti delle immagini. La storia, consapevole di questo occhio sempre attento, si concede la possibilità di poter divagare, di poter prendere abbagli,  costruendo su linguaggi diversi, il dialetto milanese e lo spagnolo corrente, ricco anche di idiomi,  un racconto avvincente e spesso divertente, con  quella  vena comica che nasce dal contrasto tra due lingue inconciliabili e incomprensibili tra di loro, ma che nelle mani, anzi, sulle labbra  di due sessantenni può diventare una potentissimo mezzo di comicità, riuscendo a divertire pur in mezzo alla catastrofe e  alla tragedia, ad attenuare sulla frontiera della notte, le mille voci  e i mille volti di una  città mentre il cielo si prepara a ricamarsi di stelle.
Asunciòn, Yaguaròn, Iturbe, il Dipartimento di Coaguazù, dove prospera ogni tipo di traffico illegale droga-armi-esseri umani. Estancias gesuitiche, Dipartmento di Guairà, di Caaguazù, posti di blocco, sierras , verde nero delle fittissime boscaglie e il rosso della terra. Le colonie fondate da gente venuta da oltremare: i tedeschi di Neuland, gli svizzeri di Dr Moisès Bertoni, i siciliani di new Trinacria. Canne da zucchero e banani. Cosa ha mai questo territorio per suscitare tanti sogni? I bambini guaranì giocano su piazzali di polvere, costruendo collanine di semi. I mennoniti, scappati dalla Russia all’epoca della rivoluzione, allevano vacche e credono che solo il lavoro agricolo sia quello veramente ed unicamente benedetto da Dio. Mettere la vita in un romanzo, impresa febbrile, nella ricerca disperata di fotografare un intero paese, di fermare i ricordi di un viaggio, di volti, di animali, di luci, di ombre. Una raccolta rapsodica di suoni- voci-   parole, fra  cui una  bellissima,  dal suono così dolce Ywy mara-ey; Terra senza Male. “Storie minime come una baracca col tetto di lamiera e sterminate come latifondi. Storie infestate da serpenti e tigri; incendiate dalla siccità o tracciate a colpi rabbiosi di machete; destinate a perdersi come un sentiero di terra rossa sotto un improvviso diluvio nel verde furioso della foresta. Storie che non sono mai andate a scuola. Racconti di ribellione campesina tra i raccoglitori di mate, poveri cristi scalzi e irredenti nell’umido forno della selva, piegati sotto il carico di quintali di foglie “. Commistione di bellezze celestiali ed armi, la Storia a queste latitudini, cammina accecata di Fatalità, opprimendo e calpestando cadaveri. La terra dei sogni contiene spesso, troppo spesso   il grido della morte e dell’illegalità.  Le cantilene di una curandera si innalzano mentre lega al collo dei malati un rosario d’ambra. Tutto viene registrato, ogni piccolo dettaglio, dal sottofondo della storia che corre verso il suo epilogo disperato, verso quell’aereo che riporterà la nostra divertente coppia in Italia, mentre tutto continua a muoversi sotto le parole, tutta quella terra sfiorata dallo sguardo straniero  continua a raccontare, come se finalmente potesse liberarsi una volta per tutte e per sempre,  di tutto il  suo male.


                                                                            STELLA  MARINA


11  Ottobre  2016 

BRUGES LA MORTA 
                  
di Rodenbach Georges
                                                                                              






“Ma più tardi, rimasto solo, si era ricordato di Bruges e un’intuizione immediata lo aveva convinto a stabilirvisi definitivamente. Un’equazione misteriosa si era creata: alla sposa morta doveva corrispondere una città morta. Il suo lutto immenso esigeva uno scenario adeguato ”
Più che di un romanzo, forse si può parlare di un racconto, o forse di una novella nella tradizione simbolista e decadente. Si legge tutto d’un fiato, io l’ho letto in una sola notte, immergendomi nell’atmosfera dell’incantevole città di Bruges, che qui però viene ritratta nei suoi toni grigi , nebbiosi e disperanti, spesso ossessivi, in una atmosfera  austera e di devozione totale. La città descritta, soror dolorosa, non è altro infatti che il riflesso, lo specchio dello stato d’animo di un vedovo, Hugues Viane, protagonista del libro, inconsolabile e ossessionato dai ricordi sempre presenti dell’amor perduto. Vive solo per onorare quel ricordo, tutto della moglie deve continuare a sopravvivere, ogni oggetto, ogni pensiero, quella lunga treccia di capelli biondi recisa e conservata e messa sotto vetro, in uno scrigno trasparente, sopra al pianoforte…
La città e il protagonista vivono in un rapporto di totale simbiosi, dentro la rigidità di un color grigio spesso e invalidante, perturbante, impastato di una costante tristezza funebre, che rimanda di continuo ad un ticchettio di incensieri. Un’intensità di grigio che si è stratificato nel rigore di una fede severa, che non ammette altro che se stessa, oltre e al di fuori ci possono essere solo il peccato e la dannazione eterna.  
I canali della città rimandano i tratti deformati del volto della moglie, i ricordi non sono sufficienti da soli a trattenere, servono a volte delle apparizioni, delle somiglianze, sulle quali continuare a perpetrare la memoria. Tutto il libro è incentrato sui temi del doppio, della somiglianza, dell’ombra. Sarà un incontro con una persona totalmente “somigliante“ a sconvolgere la vita di Hugues, le sue abitudini, a turbarlo profondamente e irrimediabilmente; Il demone dell’Analogia scuoterà  la sua fragile vita. “La somiglianza è la linea d’orizzonte fra l’abitudine e la novità“, l’incanto del sopraggiungere di una donna nuova che somigli all’antica ….”.Sono i mille fili invisibili della somiglianza a costruire costantemente  la tela della vita di Hugues, che si specchia costantemente delle pieghe della città, nelle sue vie atrofiche, nei rintocchi di campane pallide e distanti,   subendone l’atmosfera cupa e ossessiva, ascoltandone il battito funereo, come di cenere morta. I muri della città emanano consigli di fede e di rinunzia,di fedeltà al dolore.
Il racconto è molto bello, un gorgo di disperazione risucchiante, scritto dall’autore nel 1892, un documento significativo della letteratura di fin de siècle, molto amato da Mallarmè. La scrittura è ineccepibile, si muove in modo lirico e sorprendente   in quella danza perpetua tra vita e  morte in cui si annullano ogni volta  in quella tonalità di colore che domina la scena, sembra di sentirselo in bocca il sapore di quel colore  grigio invalidante, traboccante di rinuncia e di devozione. Il bruciare dei sensi e l’ardore della carne si spengono nella paralisi della morte che come una maschera tragica si muove sul fondo della scena, a ricordare la vanità di ogni ardore e di ogni ardire, il pericolo di ogni tentazione e la possibile morte eterna. Un odore di incenso pervade le pagine, l’aria è come di rame, sospesa e rarefatta nell’attesa di un sacrilegio… l’ombra aspetta il suo momento per sopraggiungere come un animale feroce e quando avverte che il suo momento è finalmente arrivato, balza veloce e uccide. Un libro di cui indiscutibilmente se ne subisce la malìa ossessionante ed ossessiva. Bruma fluttuante che s’addensa e fa riflettere.
“Certo, Bruges la morta si può sempre affrontare come documento letterario di un’epoca, per gusto archeologico o universitario, per studiare da quale brecciolino psicologico ha avuto inizio l’infelicità franante del nostro secolo.  Si può sempre cucire un rapporto tra Rodenbach e i nostri crepuscolari, indovinare la stessa stoffa grigia e lisa, le stesse toppe cattolicheggianti, i risvoltini d’elegante desolazione simbolista. Ma questo non basterebbe a far sentire la necessità del romanzo, la sua appartenenza all’indistruttibile tribù dei piccoli classici, quei libri che senza incutere eccessivo timore aiutano a comprenderci meglio“. ( Marco Lodoli, dall’introduzione al libro )   
                                                                                                                                 Stella Marina           





11  Settembre  2016


L'AMORE FATALE                     

di  Ian  McEwan


Edizioni Einaudi









“Che idiozia, lanciarmi dentro questa storia e i suoi labirinti, allontanandomi di volata dalla nostra felicità, tra l’erba tenera di primavera accanto al cerro.“
L’amore è sempre fatale quando accade. E come scriveva Shakespeare,” l’amore è cieco e gli amanti non possono vedere le piacevoli follie che essi commettono”.  E la ragione serve a ben poco in questa cieca, appassionata, ineluttabile follia. Personalmente un amore razionale, cioè vissuto con la ragione, non l’ho mai conosciuto e mai vissuto e francamente non vorrei mai viverlo, dovesse casomai esistere da qualche parte o per qualcuno. Quindi il titolo, sembrerebbe portarci direttamente dentro questo sentimento così necessario e al tempo stesso sconvolgente, dove i limiti del giusto e dello sbagliato vengono annullati, e dove ogni possibile strategia o finzione, vengono smascherate all’istante. Il titolo in lingua originale è anch’esso forte: “Enduring love”. Duraturo? Tollerante? Paziente? Certo che ogni volta ci aspettiamo che lo sia, duraturo, tollerante ed anche paziente. Il suono del titolo in lingua inglese  però,  oltre che suggerirmi questa speranza, mi lascia come il suono di uno strappo, quasi nascosto dall’apparenza conciliatoria dell’aggettivo, o come un lieve ghigno appena intuibile tra la vocale “e“ e la consonante “n“, che si contrae definitivamente nella durezza irrevocabile della lettera “d“, per poi però cambiar rotta, ammorbidendosi in quel finale speranzoso e consolatorio, quasi provocante, che mostra tutta la sua carica seducente in quella lettera  g accavallata su se stessa, che promette faville…Promette, appunto.
E il romanzo inizia proprio sotto il segno propiziatorio di quella consonante g, sensuale e leggermente alcolica, che va incontro, rassicurante, ai nostri due amanti. Loro si sono appena  accomodati  su di  un prato luminoso e verde  per un picnic, desiderosi di stare insieme dopo alcune settimane di separazione e desiderosi di raccontarsi,  ancora inconsapevoli che nel giro di pochi secondi  quelle  complicate coincidenze del Destino che   avevano   lavorato in segreto  per  mettere a dura prova quell’”enduring“, che noi tutti sempre ci auguriamo che sia,  e che  anche loro, i nostri  personaggi letterari nati per amarsi e per dare stabilità alle nostre certezze si auguravano dal profondo del loro cuore  che così  fosse,  quelle complicate coincidenze appunto,  si erano adesso  allineate sulla loro scacchiera,  ed  erano pronte, pronte  per…
L’inizio è bellissimo. Scritto con la grazia e l’eleganza di cui McEwan è straordinariamente capace, in una sorta di “grazia matematica“, in cui le coincidenze si incarnano  per combinarsi tra di loro,  in quella danza affascinante e misteriosa di preparazione all’accadere. L’immagine iniziale discende su di noi come una nevicata improvvisa e inaspettata, in cui i movimenti seppur febbrili, vengono registrati come a rallentatore e quasi in silenzio, perché di quella meccanica del movimento che è anche meccanica del Caso, non si perda nessun elemento, anzi, se ne registri consapevolmente ogni dettaglio. Su quella meccanica vorticante e rotatoria, direi danzante, lo scrittore ha costruito tutto l’impianto del racconto con una perfezione pressoché assoluta. L’intuizione premonitrice che spesso accompagna i momenti fondamentali e fatali delle nostre esistenze, mette in moto il meccanismo del racconto, e nel preciso momento che le coincidenze si combinano tra di loro, in un sincronismo perfetto, tutto cambierà improvvisamente e niente sarà più come prima. Un elemento perturbante e inatteso cambierà le dinamiche di coppia, ma non solo, cambierà il modo in cui i personaggi guarderanno se stessi, svestendoli di ogni  certezza,  obbligandoli a rivisitare tutta la loro vita e attraversare quei bui corridoi dell’anima in cui non ci sono più risposte rassicuranti ma solo emozioni allo stato puro, oscure forze incontrollabili che gridano dal fondo, che vanno ad attivare    quel “nostro primitivo sistema nervoso, il cosiddetto gran simpatico, un meccanismo meraviglioso che ci accomuna a tutte le altre specie animali che devono la loro sopravvivenza alla prontezza di reazione, all’efficacia e alla forza nella lotta, e alla rapidità nella fuga“.
L’elemento perturbante di questo racconto si chiama Jed Perry ed è affetto dalla sindrome di de Clèrambault. Entra in modo perentorio e devastante nella vita dei nostri due personaggi, la nostra coppia di innamorati, Joe e Clarissa. Ma è veramente lui il colpevole di questa devastazione, la sua follia, il suo febbricitante delirio che cresce a dismisura nelle pagine del romanzo? Oppure c’è in ogni rapporto d’amore una parte inesplorata, rimossa e insondabile, pronta ad esplodere appena se ne presenti l’occasione? Si scava nella vulnerabilità di una coppia, nella sua intrinseca fragilità, nell’enigma, nell’inquietudine, perché l’amore non mette al riparo, al sicuro da niente e da nessuno, neppure da se stessi. La collera verbale, ma più spesso una collera muta, risalendo da quei bui anfratti in cui viene spesso relegata, come una corrente contraria all’amore  prende forza e diventa sempre più  potente, annullando ogni tentativo di patteggiamento su quel territorio familiare della complicità, di un vissuto stabile e sicuro. E mentre la relazione d’amore della coppia si va sgretolando, sempre più immemore di quel trucco che tiene in vita l’amore, l’amore di Jed, non ricambiato, diviene sempre più forte, più solido, vivo di una emozione palpabile. Forte, vero e credibile, nonostante la sua ovvia patologia. Ma non cresce questo amore come logica conseguenza di quella crisi che si sta insinuando nella coppia e che va a recidere quel rapporto di reciproca fiducia di cui si era alimentato, no, nasce come contropartita, come rovesciamento del punto di vista: “La sindrome di de Clèrambault era l’oscuro specchio deformante nel quale si rifletteva alterato il mondo radioso di amanti il cui sconsiderato abbandono era considerato sano“.
La storia, bellissima quanto inquietante, ci lascia un’infinità di domande. I personaggi si chiudono nel loro solipsismo, nella voragine di un vuoto, incapaci di essere all’altezza delle situazioni, sordi alle richieste dell’altro. Fragilità e sensazione di fallimento, un precipitare nelle crepe della propria esistenza, senza che nessuno venga mai in aiuto. Nemmeno l’amore, che è diventato sordo, cieco e soprattutto ostile. Così vulnerabile, così fragile, così pronto a lasciarci andare… Eppure tutto il racconto ruota sulla “fatalità“ di questo sentimento, sulla sua necessità, sul suo potere salvifico. Ma cos’è l’amore, appunto? Perché accade? Quanto di noi siamo disposti a concedergli? Si può amare in modo ragionevole? Dove inizia la patologia e dove si può parlare di amore “sano“ o insano? Quali soni i limiti?  Il prisma di questo romanzo ruotando continuamente su se stesso, ci invia sensazioni e indicazioni contrastanti, lasciandoci da soli a risolvere i nostri vissuti, le scorie di amori finiti, i nostri fallimenti, la nostra incapacità di saper amare. Ma esiste un modo giusto per amare? E si può vivere senza amore? Esiste forse la possibilità che un amore sia per tutta la vita? E perché? Quanto incide la Fortuna in questo sentimento o quanto invece siamo noi, con la nostra incapacità, o forse impreparazione, immaturità, a condizionarne la sua durata? Potrei continuare all’infinito, e continuerei sempre con pormi delle domande, perché le risposte stanno nella Vita, nell’abbracciarla nella sua complessità, nel sapere che risposte non ci sono. Eppure, eppure l’amore esiste, ed è fatale sempre. “Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce“, scriveva Pascal…
“Viviamo avvolti dentro una nebbia percettiva in parte condivisa, ma inaffidabile, e i nostri dati sensoriali ci arrivano distorti dal prisma dei desideri e convinzioni che alterano persino i ricordi. Avevamo visto e registrato la scena e ci eravamo persuasi della nostra buona fede. L’oggettività spietata, specie riguardo a noi stessi, è sempre stata una strategia sociale funesta. Discendiamo da una stirpe di spacciatori di mezze verità i quali per convincere gli altri, escogitarono l’espediente di persuadere se stessi. Nel corso delle generazioni, il successo ci ha selezionati lasciandoci anche inciso nei geni, però, il solco profondo del nostro peggiore difetto: se qualcosa non risponde ai nostri interessi, siamo portati a negarne l’esistenza. Credere coincide col vedere. E’ per questo che la gente divorzia, litiga e si fa la guerra: per questo una statua della Vergine Maria si mette a piangere sangue e un’altra di Ganesh incomincia a bere latte. Ed è sempre per questo che la scienza e la metafisica costituiscono imprese tanto coraggiose, invenzioni tanto sorprendenti, più della ruota, più dell’agricoltura, perché sono prodotti umani che si oppongono all’essenza stessa dell’umana natura. Verità disinteressate. Ma non bastano a salvarci da noi stessi, i solchi sono troppo profondi. L’oggettività non può essere strumento di redenzione del singolo.“

Ian McEwan.
                                                                                   Stella Marina




11  Agosto  2016
Racconti cubani
di Stephen Crane


Nel deserto                                                          
ho visto una creatura, nuda, bestiale,
che, rannicchiata a terra,
teneva il suo cuore tra le mani,
e ne mangiava.
Gli chiesi, “E’ buono, amico mio?”
“E’ amaro – amaro,” mi rispose,
“Ma mi piace, perché è amaro,
e perché è il mio cuore.”



Stephen Crane morì di tubercolosi a soli ventinove anni, La novità della sua scrittura affascinò Ernest Hemingway che nell’uso del suo “dialogato“ dimostra tutta l’influenza  che Crane ebbe sul suo modo di scrivere. Ma la sua influenza in realtà si propagò su un’intera generazione di scrittori, non solo su Hemingway.  Fu amico di Joseph Conrad e di H.G Wells che di lui,  dopo l’uscita del bellissimo romanzo   “ Il segno rosso del coraggio “ ( che traeva spunto dalle vicende della  Guerra di secessione ) disse: ”  travolse il pubblico come un uragano”. Crane aveva iniziato a scrivere da giovanissimo e chissà quali altre meraviglie sarebbe stato capace di donarci. Il suo talento lo si riconosce subito, immediata la sua capacità di coinvolgere il lettore, impossibile staccarsi dalle pagine di questi tre brevi racconti, impossibile non rimanere coinvolti da quelle immagini forti che evoca e che insistono a perseguitarci anche molto tempo dopo aver chiuso il libro. Il giovane soldato Dryden del primo racconto, continua come uno spettro a visitare i miei sogni, continua a interrogarmi con la sua inquietante presenza, ogni notte. Mi domanda di quella guerra che ci abita tutti, da sempre, di quella sua inesorabile pulsione di morte, di quella costante coazione a ripetersi in tutta la Storia dell’umanità. Dryden è molto giovane e ha paura.  Mi chiede se riuscirà a sopravvivere a quella notte dentro cui tutta la sua storia è racchiusa.  Se riuscirà a sopravvivere, senza prima impazzire. E se quelle ombre che gli sembra di distinguere mentre è di guardia, che la luce azzurra della luna deforma continuamente, siano delle creature infernali sopraggiunte di nascosto per ucciderlo. O non siano piuttosto le ombre spettrali di cactus giganteschi. Il fucile ben appoggiato sulle ginocchia, non osa muoversi, paralizzato dalla paura, dal fantasma della linea del fuoco che crede di scorgere davanti a sé. Canta. Canta nel delirio del terrore. Canta e aspetta. Aspetta che l’alba dissolva le ombre su quella terra cubana, su quell’enorme distesa di solitudine, sperando di aver salva la vita, ancora per un giorno. L’alba si apre sul secondo racconto e una nuova storia sta per essere raccontata. “Tutta la foresta pareva essersi messa in movimento. Da un campo, all’altra parte della strada, una colonna di uomini vestiti d’azzurro si stava immettendo lentamente; più avanti la batteria crepitava; dalla retrovia giungeva il brusìo dei reggimenti che avanzavano. Quindi a un miglio di distanza risuonò uno sparo, poi un altro; in un attimo tutti i fucili presero a rispondere ritmicamente: buuum buuum buuum. L’artiglieria scoppiò all’improvviso. Era cominciato un giorno di battaglia”.
 Crane scrisse in modo febbrile, scrisse molto più che leggere, aveva fame di dire e aveva poco tempo. Sperimentò vari generi, fu narratore, poeta, giornalista Sperimentò il linguaggio, sperimentò la punteggiatura, cercando un suo personale e nuovo modo di scrivere, il più possibilmente vicino alla realtà, alla vita. La guerra lo affascinò sempre, fino a diventare per lui quasi un’ossessione. Voleva raccontarla, e la raccontò perfettamente senza averla mai vista da vicino. La raccontò con il suo sguardo interiore, guardandola dal di dentro, non lesinando l’orrore, il sangue e la morte. La raccontò con la sua voce, con quella voce che scavava nell’orrore, nell’assurdità e nella forza della guerra.  “Vorrei che qualcuno di loro dicesse che cosa sentiva in quelle battaglie. Parlano anche troppo di quello che hanno fatto, ma pare che non abbiano mai avuto emozioni, sono fermi, come rocce”.  Tentò di arruolarsi come marinaio, ma le sue condizioni di salute non glielo permisero. Riuscì però a diventare inviato di guerra ed a imbarcarsi clandestinamente sul Commodore, per raggiungere Cuba e così poter finalmente  raccontare la   guerra in presa diretta, descrivendo la realtà di ciò che vedeva, con quello stile crudo,  realistico  che lo contraddistinse  e che spesso gli causò censure e  rifiuti editoriali .Raccontando  di quella linea di confine tra il coraggio e la paura in quella guerra che era, come tutte le guerre lo sono, “la bestia rossa, il dio gonfio di sangue“, e che fu definita, giustificata dall’America  come  “ la splendida breve guerra di liberazione del popolo cubano oppresso”. Il cargo sul quale lo scrittore si era imbarcato per raggiungere Cuba naufragò e Crane fu costretto a riparare in Florida. Di questa esperienza scrisse nel racconto “La scialuppa” che in questa raccolta però non è contenuto ma che inizia così, con questa mirabile descrizione: “Nessuno di loro sapeva il colore del cielo. I loro occhi guardavano avanti, fissi, incollati alle onde che incalzavano, cupe come l’ardesia, tranne la cresta bianca di spuma; ma tutti gli uomini sapevano i colori del mare. L’orizzonte si stringeva, si dilatava, affondava e s’innalzava, e ogni volta il suo profilo era frastagliato di onde che parevano drizzarsi appuntite come rocce“.
La guerra non scomparirà, continuerà a devastare, a spezzare vite, a imporsi. Cambierà nome, interessi, modi, volti. Continuerà ad offendere la Vita di questo pianeta che credo non veda l’ora di sbarazzarsi finalmente e definitivamente di noi. Le parole di Crane continueranno a domandarci, echeggeranno spettrali fino all’ultimo istante di vita, di noi, “ umani esseri “.
“…lo scatto metallico dei grilletti, quasi che ci fosse una mano sola ad azionare tutta l’operazione, faceva pensare a un telaio, un grosso, greve telaio di acciaio che sferraglia, ritaglia , ripiega,  intesse, fila rosse esili trame, il sudario della morte “
“ Egli  insegnò  all’America a scrivere in americano “
                                                                                                                     Stella Marina

                 
11  Luglio  2016

Il libro vuoto                                                            
 Josephina Vicens

 Editori Internazionali Riuniti




Scrittrice, sindacalista, giornalista, sceneggiatrice cinematografica messicana, Josefina Vicens, autrice interessante e anticonvenzionale, controcorrente, rivoluzionaria, forte e libera, insomma quella che si dice una mujer con bolas. Quando firmava articoli di politica diventava Diógenes García, Luis Alfonso Fernández quando scriveva per El sol y sombra , Pepe Faroles quando si occupava di tauromachia per le pagine della rivista Torerías. Considerata dalla critica assieme a Juan Rulfo, la più importante e rappresentativa scrittrice messicana del Novecento, ha scritto soltanto due romanzi, intervallati tra loro da lunghissimi anni di silenzio. E’ però riuscita a vincere il Premio Xavier Villaurrutia nel 1958 con “El libro vacìo“. Questo, per l’appunto.
“La misura di un uomo, è sempre un altro uomo“. 
Josè Garcia ha due quaderni. E due io. Come essere in due, due persone con lo stesso nome, che perennemente girano in tondo, inseguendosi costantemente. Una vuole scrivere, l’altra no, non vuole farlo, preferisce il silenzio, per essere risparmiata dall’ineluttabile disfatta della sua totale incapacità. Su un quaderno, pozzo tollerante e benevolo, Josè Garcia appunta ogni minimo dettaglio, tutti i pensieri che lo attraversano, tutti gli stati d’animo di ogni giorno. Josè Garcia, il cinquantaseienne Josè Garcia, ha anche un secondo quaderno, che è assolutamente vuoto, ed è su questo quaderno che lui vorrebbe riportare l’essenza, solo quello che è necessario dal primo quaderno, e scrivere così un libro. Un libro importante, capace di parlare a tutti, proprio come un vero scrittore, che possa renderlo famoso. Qualcosa che possa riscattarlo dalla sua vita di uomo qualunque e senza talento, da quella vita sempre uguale, monotona e grigia, dove succede ben poco, cadenzata dalla medesima routine, dai medesimi problemi economici e familiari, dai medesimi gesti, frasi, pensieri, dagli stessi sensi di colpa. Ma quello di cui riesce a scrivere e da cui non può liberarsi, è solo un incessante e disordinato flusso di coscienza, che contemporaneamente lo libera e lo incatena a se stesso. A quel se stesso che non può cessare di scrivere, di recuperare quello spazio vitale che la vita gli ha tolto, ma che è anche spazio claustrofobico e misura del suo fallimento, della sua inettitudine. La notte deve alzarsi per scrivere, per aprire quel primo quaderno, consapevole che il secondo quaderno rimarrà vuoto, che nessuna frase sensazionale, incisiva, esatta, riuscirà a segnare l’inizio del suo romanzo, quella possibilità di sogno, quell’idea di volo. Non riuscirà a farlo perché non ne è capace. “No, credo proprio che non lo farò mai “. L’urgenza lo incalza, la necessità di scrivere lo tormenta, il quotidiano lo incatena alla notte, alle confessione più profonde e intime, ai desideri più reconditi, agli istinti repressi e spinti a forza nel buio, ingoiati da compromessi. L’immaginazione non riesce a sollevarsi, rimane imprigionata tra le maglie strette di questo flusso di pensieri mentre i suoi due io, lottano in profondità, fino all’esasperazione, in quell’ angoscia di voler finalmente comprendere che tipo di uomo sia stato. Se mai lo sia stato, un uomo. I due quaderni sono impietosi, sono la testimonianza viva della sua vita, si riflettono l’uno nell’altro come il pieno e il vuoto. L’impotenza e l’incapacità del primo, non permettono che una qualche sensualità calligrafica si riversi nell’immacolata consistenza del secondo, che rimane “inutile attesa“.Ma contemporaneamente, l’uno non potrebbe esistere senza l’altro. È proprio quel vuoto bianco, quella tensione spasmodica del desiderio, a spingere Josè a riempire convulsamente ogni sera il primo quaderno, inchiodandolo a se stesso, alla sua tenace incapacità, alla sua ostinata dipendenza, tranquillizzante monotonia, segreta e intima cerimonia del vuoto, gioco letterario del doppio, in cui Josefina Vivens si riflette completamente. Da Josè a Josefina il passo è breve. “Scriviamo per essere ciò che siamo e per essere ciò che non siamo. Nell’uno e nell’altro caso, cerchiamo noi stessi. Se abbiamo la fortuna di trovarci, scopriamo che siamo uno sconosciuto“, scriveva Octavio Paz commentando l’opera di Fernando Pessoa. Passeggiando nel labirinto del No, come suggerisce Vila-Matas nel suo splendido Bartleby e compagnia, ”lungo i sentieri della più inquietante e attraente tendenza della letteratura contemporanea. Una tendenza che offre l’unica strada rimasta aperta all’autentica creazione letteraria; una tendenza che aggirandosi intorno all’impossibilità della scrittura, si interroga su cosa essa sia e dove si trovi; una tendenza che dice la verità sulla prognosi grave, ma estremamente stimolante, della letteratura di questo fine millennio“. Un io scisso che contempla se stesso e si interroga incessantemente sulla propria identità. Così ne “Il libro vuoto“, una spirale che si apre sull’incompiuto, nella circolarità insoluta dell’opera come suggerisce Roberta Arrigoni nella postfazione al libro. Una ferita aperta nel cuore del reale, che si carica di una tensione sensuale calligrafica. “Avverto sulla fronte una pulsazione calda e costante. Quando sono in procinto di scrivere, mi dilaga nel corpo un’allegria sfrenata. Mi appartengo da cima a fondo, mi uso senza esclusioni, non c’è atomo in me che non mi tenga dietro, vigile e cosciente, (…) in questo istante totale, pieno di gioia, di possibilità e di fiducia in me stesso “, appunta Josè Garcia sul primo quaderno. Una circolarità che acquista spessore e forza da ogni capitolo, ruotando costantemente attorno al nulla, alla mancanza di ispirazione letteraria che però incalza a scrivere di continuo dall’insignificanza di una vita, con la parola che traccia i contorni delle cose, delimita spazi, raggiungendo il respiro intimo dell’essere, restituendolo a un transitorio pieno che diviene opera letteraria nel momento stesso che il primo lettore si appropri della sua prima frase, legandola alle successive. E quel quaderno sotterraneo diviene quel libro importante, capace di parlare a tutti, segno di un passaggio che ci accomuna, in quel silenzio che parla ai bordi della scrittura nel cuore della notte.
“A chi vive in silenzio dedico queste pagine, silenziosamente “. Josefina Vicens. 

                                                                                                                                    Stella Marina




11  Giugno  2016

Breve trattato sulle coincidenze

Domenico Dara




...quello era il luogo acconcio a nascondere al mondo il proprio dolore, tra lo zucchero e il sale ...

Aveva letto sui giornali che gli americani stavano arrivando sulla luna. Era il 1969. Lui alla luna ci pensava sempre, ogni giorno, mentre attraversava le vie della sua mappa quotidiana di consegne a Girifalco, il suo paese. Conosceva tutte le strade, fin nei più piccoli dettagli, conosceva tutte le abitudini dei suoi abitanti. Ma soprattutto conosceva intimamente le persone e in un certo senso tutte quelle persone “abitavano“ la sua vita, la animavano, la rendevano viva. Lui era il postino di Girifalco e attraverso le sue mani scorrevano le vite di tutti i suoi concittadini: i loro segreti, confessioni, amori, dolori clandestini. Sembravano avere tutti una vita parallela, nascosta. E per un uomo solitario come lui, dedito alla malinconia, senza particolari ambizioni, amante dei “pensieri astrusi“ e delle lettere d’amore, quelle lettere che già soltanto sfiorandole emanavano vibrazioni , per quelle parole che dentro si animavano e si componevano, reinventandosi ogni volta nell’urgenza di comunicare quel vitale sentimento, quelle lettere appunto erano il suo unico modo di sentire, di accostarsi alla vita. Forse anche un modo per dimenticare, per dimenticarsi di lei...e di se stesso. “Le lettere d’amore che fanno diventare tutti poeti e non fanno dormire “, attraverso le quali lui poteva ascoltare ancora l'amore, percepirlo nella vita degli altri, incapace ormai più di toccarlo. Dotato di un unico talento che aveva scoperto fin da piccolo appena aveva imparato a scrivere, quello di saper imitare perfettamente, in maniera ineccepibile, la calligrafia delle persone. Ecco che così questa sua dote a poco a poco si era andata definendo divenendo la traccia di un destino. E per un uomo che si sentiva un inutile dettaglio, un nulla senza nome, con la paura di essere nient’altro che una “ zeccola impigliata nel vello d’una pecora incurante “, un sacco vuoto da riempire con la vita di carta degli altri , che guardava la luna e sognava un ipotetico viaggio in Patagonia, perché il luogo più estremo della terra, possibile punto di non ritorno, luogo definitivo della dimenticanza , questo suo particolare talento era diventato per lui l’unica possibilità per ancorarsi alla vita. Avvicinandosi ai cuori degli uomini, vivendo nei riflessi delle loro vite, ascoltando il battito segreto delle loro esistenze. Come un deorum nuntium si era trasformato a poco a poco in un messaggero occulto di destini, imparando la difficile e rara arte di saper attendere, o affrettare se era il caso, sorridere o distrarre, in quel suo modo tutto personale di recapitare le lettere. Lettere che lui aveva imparato ad aprire, a leggere, a ricopiare e conservare , catalogandole in un archivio, in una sorta di cartografia sentimentale, come se tutto il cuore pulsante del suo paese battesse all’unisono in quelle schede perfettamente compilate. Anche quello era un modo di amare, di avvicinarsi agli altri, in silenzio. Un modo per colmare i propri vuoti, le assenze nella sua vita, per dare ordine alla sua esistenza. Ma anche un modo per colmare le vite degli altri, deviando, quando possibile, il corso del destino. Le lettere d’amore erano quelle che più amava, che apriva per ultime, delicatamente…
“Appena vedeva un calzino bucato, lo rammendava subito e si sentiva più leggero per aver chiuso un buco nel mondo, così come, intervenendo nei fatti del paese attraverso le lettere, gli sembrava di riparare i buchi degli uomini “.
Un’idea molto bella questa di riparare i buchi degli uomini, la possibilità di “modificare“ i destini altrui, di intervenire nelle vite degli altri e di riportare a volte la “giustizia“. Idea che mi è piaciuta moltissimo e che conferisce al personaggio del libro una sensibilità così rara e preziosa da renderlo unico, indimenticabile. Una di quelle care presenze nella memoria del lettore a cui spesso ritornare, per attingere ancora alla sua ristoratrice fonte. Saper “intervenire“ amorevolmente nella vita degli altri per renderla più tollerabile, più luminosa, per rimediare qualche volta ai torti e alle ingiustizie del destino, dispensatore cieco e irriverente della sorte, è in realtà un nobilissimo compito che solo chi veramente ha attraversato il dolore, vivendolo fino in fondo, accettandolo come un elemento intrinseco e inevitabile della vita , può riuscire a compiere con quella empatia profonda, generosa e disinteressata. Solo un eroe discreto e silenzioso come il postino, ignoto a se stesso ma con quella sua grandissima capacità di osservare, di decifrare gli eventi, per quella sua “ maledizione “ del pensiero, può essere in grado di “ far accadere “ quei piccoli luminosi miracoli nelle vite degli altri. Due sono gli “ accadimenti “ principali che muovono la trama del libro, in una Girifalco alle soglie delle elezioni comunali, attorno a quali si muove una galleria straordinaria di personaggi indimenticabili, colti nella loro quotidianità e resi vivi e presenti nella nostra immaginazione da quelle parole dialettali sapientemente inserite dall’autore che ha usato diversi registri linguistici per narrare la sua storia. L’autore, se non erro, se non ricordo male, ha impiegato nove anni per scrivere questo libro, un libro complesso che ha però il dono di scorrere in “leggerezza“, memore forse delle lezioni americane di Italo Calvino, a cui tutti siamo più o meno debitori, e a cui comunque la lettura di questo libro mi ha rimandato: "l'agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza ..." Con una malinconia di fondo che sfocia spesso in garbata e irresistibile ironia, quell'’ ironia popolare che nasce nella quotidianità, che poi è quella più immediata e che riesce spesso ad ammorbidire i contorni tragici della vita e a renderla più tollerabile e più umana. Un libro che si può leggere a più livelli, dove le domande non finiscono mai di interrogarci. In fondo è questo quello che chiediamo principalmente ad un libro: che sia capace di interrogarci, ponendoci continuamente nuove domande Di questi nove anni di scrittura del romanzo, quattro Domenico Dara ha dedicato allo studio del linguaggio, che qui è veramente architettato alla perfezione, con una padronanza magistrale della lingua. Chapeau. Un linguaggio colto, filosofico, meditativo che eleva il linguaggio dialettale a puro godimento uditivo e sensoriale, necessario controcanto di una lingua “alta“ che altrimenti alla lunga suonerebbe vuota o talmente distante dalla vita da non saperla più raccontare, da non essere più capace di comunicarci l’emozione di volti unici che risplendono invece nella luce della parola popolare , fotografandone per sempre l’intensità e la memoria. Tutti i personaggi descritti sono "vivi", vividi, risuonano di quella essenza che li ha animati, si incarnano sotto il nostro sguardo e sembra veramente di conoscerli in quella immaginifica Girifalco dove le distanze spazio-temporali sono state annullate. Un romanzo che si chiude su se stesso in un cerchio perfetto, elegantemente tratteggiato, in punta di pennello, dove linee sottili ridefiniscono gli ultimi tratti del personaggio che, voltandosi dietro di sé, come altrove ha scritto un grandissimo scrittore di nome Jorge Luis Borges, può finalmente rintracciare nel labirinto di linee che è stata la sua vita, le linee del suo volto. Attraverso gli altri, attraverso “quel suo tessere trame di vita usando i frammenti di esistenze altrui“, il postino ha imparato a tessere la trama della propri esistenza. Accostandosi con attenzione a quella sottilissima ed invisibile rete di relazioni che unisce tutti a tutto, individuando le connessioni tra le cose nella ricerca di un significato. Tutto è interconnesso in questa vita e nell’universo. In questo meraviglioso , insondabile e incomprensibile universo: “in questa manciata di tipi di particelle elementari, che vibrano e fluttuano in continuazione fra l’esistere e in non esistere, pullulano nello spazio anche quando sembra che non ci sia nulla, si combinano assieme all’infinito con le venti lettere di un alfabeto cosmico per raccontare l’immensa storia delle galassie, delle stelle innumerevoli, dei raggi cosmici, della luce del sole, delle montagne, dei campo di grano, dei sorrisi dei ragazzi alle feste, e del cielo nero e stellato la notte“, come ha scritto Carlo Rovelli in un suo bel libro. La struttura elementare delle cose, è un tema assai affascinante che ci coinvolge in quel sogno ad occhi aperti, quello di penetrare finalmente il Mistero e le leggi che lo governano, per arrivare a comprendere il senso di questo nostro esistere. Questo libro di Domenico Dara mi ha portato a ripensare al libro di Rovelli, a dimostrazione che tutti i libri sono tra loro segretamente e misteriosamente interconnessi e che all’unisono, lavorando al buio e in segreto,spesso anche contro di noi, formano la personalità e il gusto di ogni lettore, e legano ogni lettore a tutti gli altri lettori in una catena infinita. E chi come il postino, per natura ha questa tendenza alla solitudine, alla riflessione filosofica, riuscirà ad osservare come lui le connessioni tra le cose, imparando a decifrare la catena di coincidenze, che come diceva Leonardo Sciascia “sono le sole cose certe in questo mondo”. “La coincidenza, è come una piccola lente di ingrandimento che chiarisce il groviglio e riporta ordine e significato dove non sembra ci sia altro che confusione e accidentalità“, ci dice Domenico Dara. E osservando, poco prima di chiudere con nostalgia questo bel libro, poco prima del punto finale, questo continuo moto perpetuo che alimenta la Vita, e quella luminosa scia di coincidenze che questo breve trattato lascia dietro di sé, saremo in grado di vedere quella armoniosa architettura di inimmaginabile Bellezza comporsi o ricomporsi sotto il nostro sguardo. Come guardando la volta celeste brulicante di stelle nelle notti di piena estate, paghi soltanto di quella risplendente luce che si irradia dall’alto e ci avvolge nel suo mistero, aspettando solo di veder cadere una stella, quel piccolo miracolo di luce che illumina un istante e accende un sogno.
                                                                                                     Stella Marina




11 Maggio 2016

I palazzi lontani

Abilio Estèvez

“Non ci unisce l’amore, ma lo spavento; sarà per questo che la amo tanto“ (Jorge Luis Borges)


Un atto d’amore ma anche di risentimento per la sua isola questo splendido, imperfettamente perfetto, libro di Abilio Estèvez, da alcuni anni esule e felice cittadino spagnolo. Qualcosa però si impone alla nuova libertà agognata per lungo tempo e finalmente raggiunta, quella che adesso riempie e appaga la sua vita di uomo e di scrittore. Qualcosa che non si lascia dimenticare e che ha aderito alla sua essenza più profonda, alla trama sottile della sua vita. Qualcosa che ha a che fare con quella consistenza immateriale, impalpabile dell’Habana, quella città invisibile e segreta di cui lui ha percorso ogni dedalo, ogni labirinto, respirandone ogni mistero, ogni miseria, ogni tristezza, ogni odore, ogni sogno, ogni dolore. Ne ha conosciuto tutti gli umori, tutte le colpe, tutti i peccati.  Penetrando dentro ai suoi spazi più nascosti, più intimi, nelle sue viscere fatiscenti e barocche, nei passaggi sotterranei consumati dal sale marino, nei palazzi devastati nelle cui crepe sono cresciute rigogliose le felci, camminando sulla riva di quel mare sporco di sargassi, in quell’estate eterna interrotta solo dai rovesci che fanno sollevare, con più forza, il vapore della terra. Amandone e odiandone contemporaneamente ogni contraddizione, ogni alba, ogni silenzioso mutamento, ogni promessa, ogni resa. Forse il modo migliore per continuare ad amarla o ad odiarla di meno, è stato per Estèvez  proprio quello di essersela lasciata alle spalle, contemplandola dalla dovuta distanza, da una distanza di sicurezza,  lasciando finalmente  emergere i ricordi dal  loro turbinante vortice. Nella sapienza di parole nuove, docili, mescolate a quella salsedine spessa, stratiforme di un linguaggio che procede per intuizioni, per balenii, improvvisi disvelamenti, nella angosciosa ricerca di sé in quella deriva di solitudine, di rassegnato sconforto, di desolante abbandono, di delirio subtropicale   che solo il trascorrere del tempo ha saputo riconsegnare come atto di puro, inconfessato-inconfessabile amore per la propria isola.  Terra- madre generatrice di significati profondi e contraddittori, paese di diabolici estremi, di drastiche scelte, di definitivi abbandoni. Troppe solitudini, troppi addii, troppi esili. Troppe incomprensioni, troppe rinunce, troppe collere e ingiustizie.   

“A Victorio la città suscita due impressioni allo stesso tempo: quello di una città bombardata, che aspetta solo uno scroscio di pioggia, uno sbuffo di vento per disfarsi in un mucchio di pietre; e quella di una città sontuosa ed eterna, appena sorta, eretta come lascito a future immortalità. L’Avana non è mai uguale ed è sempre uguale. L’alba dell’Avana possiede infiniti modi di apparire sempre la stessa, diversa e identica, con il colore indistinto del cielo, le sue tonalità incerte che seguono le nubi bianche, basse, precise, veloci; e con la brezza dell’alba, sempre scarsa, ma che riesce a planare sulla città come un immenso uccello benefattore”.

Sarà Victorio, il protagonista di questo libro, a trovare le parole e il passo che consentiranno a Abilio Estèvez  di ricongiungersi con la sua Cuba.  A ritrovarsi ancora una volta nel grembo della sua isola-madre, lasciandosi cullare dalla forza visionaria dei suoi ricordi, resi possibili e vivi dalla trasposizione letteraria affidando al protagonista del libro le confessioni più intime, i rancori più profondi, tutta la sua rabbia e tutta la sua passione. Ripercorrere “allo stato randagio della solitudine “ancora una volta   le strade segrete dell’Avana, i quartieri più miserabili, più umili, a sud, a ovest, a sud-est, dove la gente vive ancor peggio, Jesùs Marìa, Pogolotti, La Lisa, Zamora, El Fanguito, La Jata. Adentrandosi nei suoi palazzi terrosi, scrostati, un tempo residenze fastose dove ancora si possono percepire le sue voci antiche, strane lingue che si mescolano tra loro in inni e canti indecifrabili. Il vento del mattino, “profumato di salsedine, di sargassi, di rifiuti, di città addormentata, di città che sogna e soffre di fronte al mare“,accompagna il cammino della memoria, quello sguardo incerto che si posa nuovamente sulle cose, come a ritrovarle, rinnovandole in quel loro incerto equilibrio  tra realtà e oniriche visioni.  Nel silenzio dell’alba avanese si muove un vecchio pagliaccio, sempre con indosso un frac e una tuba.  Una lacrima blu gli scende lungo le guancie.  Si lascia scivolare di tetto in tetto, con il suo sorriso imperturbabile, sfidando le leggi di gravità, sfidando la città che dorme, la città che non ha più sogni, immobile e consumata come una vecchia fotografia. E’ presenza fondamentale e indimenticabile di questo romanzo, si chiama   Don Fuco. Discepolo di Baudelaire, ha diversi anni ma non si sa mai quanti, mille, forse duemila anni, sopravvissuto a infiniti disastri, voce segreta e intima dell’isola, custode del vecchio teatro Pequeno Liceo de La Habana. Mago, pagliaccio, equilibrista.  Nelle rovine del vecchio teatro il tempo trascorre in modo diverso, trascorre al contrario.  Un tempo prezioso, eterno, che collega i ricordi e le voci, all’impalpabile significato del vivere. Il palcoscenico si riempie di colombe bianche, il profumo del mare diventa più intenso. C’è una qualità nel ricordare che è diversa da quella che si vive fuori, distendendosi sulle antiche assi di legno del palcoscenico è un po’ come navigare. ”L’Avana si trova a una latitudine esente da trasformazioni; hanno pensato di situarla nella parte immobile del mondo“. Mentre dentro a quel piccolo teatro, tutto è trasformazione, magia, delirante possibilità, un’allucinazione fuori dal tempo e dallo spazio.  I ricordi continuano a far male, ma forse un po’ meno. Senza la morsa della fame e del sesso, della miseria e dell’impossibilità. I meccanismi delle marionette sono precisissimi, sembrano persone in miniatura, sono senza peso, non conoscono l’inerzia, e l’inerzia si oppone alla danza…

“Nudo, il corpo dipinto di bianco, il pagliaccio cammina su una fune presumibilmente tesa da un stremo all’altro della platea. Per mantenere l’equilibrio, con la mano destra tiene aperto un ombrello a spicchi colorati, mentre con la sinistra muove la marionetta che lo riproduce nudo e bianchissimo. Con la bella voce da tenorino intona una strana melodia che Victorio non conosce. Salta, e la sua figura risplendente sembra rimanere sospesa nell’oscurità del teatro in rovina“.

L’Avana possiede molte facce. Gli esseri umani che la abitano anche.  E anche l’oblio.


Dichioso el àrbor que es apenas sensitivo,

y màs la piedra dura, porque èstà ya no siente,

pues no hay dolor màs grande que el dolor de ser vivo

mi mayor pesadumbre que la vida consciente

                                                                           ( Rubèn Dario )   


Voce forte ed elegante quella di Abilio Estèvez. Imperfettamente perfetta. “La buona lettteratura è di per sé un gesto di anticonformismo. Nascendo dalla necessità profonda di dire no è destinata a essere in contrasto con i regimi“.  

                                                                                                    Stella Marina
 
11 Aprile 2016

Il libro di mio fratello 
Bernardo Atxaga
 Edizioni Einaudi


In  basco esistono più di cento modi per dire farfalla ci  racconta Bernardo Atxaga in questo  libro che è essenzialmente un libro sulla memoria e sull’importanza di  riuscire a farla vivere  il più a lungo possibile, donandole quella capacità di  resistenza al tempo e all’oblio che solo l’opera accurata della parola  può compiere. Come scriveva  Fernando Pessoa in un suo saggio sulla lingua, il problema di una lingua internazionale è un problema di rimorso. Quando cerchiamo una lingua simile, in verità non stiamo cercando qualcosa di nuovo, ma qualcosa che abbiamo perso. Ed è  proprio su quello che abbiamo perso, su ciò che è andato perduto, che trae origine questo libro. Intento  che l’autore ci svela subito, in apertura a questo splendido ed intenso romanzo. E lo fa con un dono, con questa Poesia, da leggere in silenzio, lentamente, pieni di gratitudine.
 
Così muoiono le parole antiche: come fiocchi di neve
che dopo aver esitato nell’aria cadono al suolo senza un lamento.
Dovrei dire: tacendo. Dove sono ora i cento modi di dire farfalla?
Sulla costa di Biarritz raccolse Nabokov uno di quei nomi: miresicoletea.
Guarda, ora è sotto la sabbia, come il frammento d’una conchiglia.
E le labbra che si mossero e dissero proprio miresicoletea quelle di quei 
bambini che furono i padri dei nostri padri, quelle labbra dormono.(…)

Il romanzo è raccontato da un amico, Joseba, “fratello“ del protagonista David, fratello in quanto  uno dei suoi migliori amici d’infanzia, e che racconta dal racconto dell’amico, ampliandolo e riscrivendolo, quindi… ri-raccontandolo. Sembra un gioco di parole la mia precedente frase e mi piace che sia così, che conservi questo meraviglioso suono di racconto raccontato, mantenendo  intatta la sua originaria matrice orale, con le sue aritmie della memoria, con le sue inevitabili anarchie letterarie. In questo romanzo, scritto a quattro mani (nella finzione letteraria, naturalmente), sta la forza di questa narrazione. La potenza di una memoria che si rafforza per passaggi, per consegne, affidando all’altro il cuore di una esistenza, andando a recuperare il suono e il significato di parole antiche, per lo più scomparse, dissotterrandole in tutta la loro integrità per poter scrivere questa storia da affidare ai posteri sperando di salvarla  dall’oblio.  Si   tratta proprio di andarle letteralmente a dissotterrare queste parole, scritte sopra minuscoli rotolini di carta e nascoste, dopo averle nominate una ad una, dentro scatole di fiammiferi e sotterrate poi, per conservarle, in un gioco tra padre e figlie.  Quel padre, David, che desidera che la sua lingua d’infanzia, la lingua basca appunto, la sua vecchia lingua non venga dimenticata, non scompaia, perché quando una sola persona la abbandonerà, la condannerà all’estinzione, alla dimenticanza. “Le parole muoiono tacendo“, Con quella vecchia lingua  scomparirà tutto un mondo, un universo di relazioni, di lotte, di conquiste per la libertà, l’identità di un popolo, identità per cui il popolo basco ha a  lungo lottato.  Si andranno scolorendo i contorni di storie, i volti di persone, i confini di quel piccolo villaggio rurale, Obaba, dove gran parte del romanzo è ambientato.  In quella patria dell’infanzia e della giovinezza dove le scelte iniziano a prender forma e ad imprimere le orme di un destino.  Si perderà l’importanza di quell’audacia e soprattutto il valore con cui un’intera   generazione di giovani   si impegnò per combattere la dittatura franchista e liberare finalmente  la Spagna da quei  lunghissimi anni bui di tirannia,  generazione  che subì anche  il fascino del  separatismo basco e che si trovò a dover affrontare il nuovo orrore del terrorismo dell’Eta. E quindi l’esilio, la morte, il tradimento. Di quei giovani faceva parte anche Atxaga che non rinuncia ad essere presente nel suo libro, affidando la propria identità a Joseba, il fratello-amico di David, che appunto, riscriverà la storia dalle parole basche  di David. E guarda caso, Joseba è anche il vero nome di Bernardo Atxaga. “Scrivono“, possiamo allora dire, per la loro generazione, scrivono  con forza e con passione,  perché la Storia non dimentichi l’importanza  di  quella lotta  feroce che vide un figlio contro il proprio padre. Per non dimenticare le colpe di cui quel  padre si macchiò,  appoggiando  la dittatura e rendendosi complice se non addirittura  esecutore di tremendi crimini. Raccontano con la “ri-scrittura“, come incidendo con il coltello sulla corteccia degli alberi, in una sorta di carving, come avevano visto fare  ai  pastori baschi  sugli alberi di  Humboldt County.  Raccontano l’ostinata resistenza di quel figlio, spietato nella ricerca della verità, affinchè la lugubre e tragica ombra della colpa non si allunghi sulla sua giovane vita, macchiandola per sempre. Sarà appunto per questo che David, appena adolescente, imparerà e sentirà la necessità di tracciare   una cartografia dei sentimenti, una mappa con cui imparare ad orientarsi nella vita, separando nettamente il bene dal male, per mettersi al riparo, al sicuro, dall’orrore di quella eredità paterna. Compilerà le sue “liste sentimentali“, i nomi dei suoi migliori amici in ordine di importanza, li riscriverà più volte nel corso degli anni, scegliendo come luogo ideale della sua giovinezza l’incontaminata  campagna di Iruain, dove ancora  le persone  sono capaci  di parlare   nella loro  antica lingua, generosi e silenziosi portavoce di un mondo puro e leale.  Un luogo in cui David si sente al sicuro, cullato dal dolce suono di parole semplici e poetiche al tempo stesso, pulite e incorrotte.  L’orrore di Guernica torna dal passato e spalanca le sue fauci, come una belva mai  sazia, mai sazia di morte e di orrore, continuando  a riesumare le ossa, il sangue, di tutte quelle tante troppe   morti. “I secondi occhi“di David non smettono mai di guardare a quel passato  e il suono giovane  della sua fisarmonica continuerà a cantarle incessantemente. “Io credo che abbiamo altri occhi oltre a quelli della faccia, degli occhi notturni che nella maggior parte dei casi ci mostrano immagini impressionanti“, una frase, detta dalla madre, che David non  dimenticherà. I suoi occhi notturni impareranno presto a frugare  nella bellezza di un paesaggio incontaminato, pulsante e vivo, vero più di qualsiasi altra realtà, a frugare  nell’epifania dell’adolescenza, nell’amicizia, nell’amore, in tutti i vari strati  con  cui è tessuto meravigliosamente  questo libro. Storie dentro altre storie, che si dipanano lentamente, lasciando che il ricordo abbracci ancora una volta l’essenza di una vita e le essenze di tutte quelle vite toccate o solo sfiorate, comunque incontrate. Quegli occhi notturni capacidi individuare quel passaggio necessario oltre il quale c’è forse la salvezza, la speranza di  una nuova vita, e un passato che forse è destinato a ritornare sempre. E’ dal limitar della propria vita che si può dare uno sguardo onnicomprensivo su ciò che è stata, per assaporarne la consistenza, per vedere la forma di quell’impronta che si è lasciata  ietro di sé. Per questo l’autore privilegia il tono elegiaco più che quello della memoria, con cui è comunque intimamente connesso. Dalla morte si ritorna alla consistenza della vita, ripercorrendola al contrario. Fin dentro la prima parola per nominarla ancora, là…dove nevica verso l’alto.

(…) Dici: un giorno di pioggia mentre camminavo su una strada della Grecia 
vidi che le guide di un tempio indossavano impermeabili gialli 
con un gran disegno di Mickey Mouse. Anche gli antichi dèi dormono.
Le nuove parole, aggiungi, sono fatte con materiali volgari.
E parli di plastica, di poliuretano, di caucciù sintetico, e dici che finiranno 
tutte assai presto nel cassettone dell’immondizia. Sembri un po’ triste.
Ma guarda le bambine che strillano e giocano davanti alla porta di casa,
ascolta attentamente quel che dicono: Il cavallo è andato a Garatare.
Cos’è Garatare? Domando. Una parola nuova, rispondono.
Vedi, le parole non sempre sorgono in solitarie aree industriali;
non sono necessariamente prodotto degli uffici per la pubblicità.
Sorgono a volte tra le risate, e sembrano pollini al vento.
Guarda come vanno verso il cielo, come nevica verso l’alto.

                                                                                   Stella Marina
              



11 Marzo 2016

La Crociera dello Snark

di Jack London
edizione Mattioli 1885
L’idea di costruire lo Snark (nome che fa subito pensare a Lewis Carroll), quella piccola imbarcazione che sarebbe poi misurata quarantatre piedi sulla linea dell’acqua, progettata con l’intento di riuscirci a fare il giro del mondo, nacque improvvisamente nella mente di Jack London, un pomeriggio in una piscina a Glen Ellen. Realizzata con quelle sue belle linee, “linee da sogno“ e con quella sua prua magnifica che il solo toccarla per London significava; “toccare quella prua significa poggiare la mano sul naso cosmico delle cose”. L’idea di quella imbarcazione era sempre stata presente in lui, nata con lui, corrispondeva perfettamente alla sua vita di vagabondo, al suo modo di sentire e di intuire il significato profondo dell’esistenza. Corrispondeva perfettamente a quella sua sete costante di avventura e di scoperta, a quella fame di conoscenza, a quel desiderio forte di confrontarsi con gli altri, con culture diverse dalla sua per guardare direttamente negli occhi tutte le diversità del mondo. Sostenendo con forza, con audacia, quello sguardo, senza ritrarsi mai.  Quel suo inesauribile desiderio di mettersi continuamente alla prova, in gioco con tutto se stesso, senza mai risparmiarsi, spingendosi sempre più in là, fino all’estremo limite me lo fa amare infinitamente, tocca corde profonde del mio sentire e le smuove, le rivitalizza, le rende incandescenti. E questo mi piace, mi piace moltissimo. Come mi piace quell’amore prepotente che nutriva   per la natura primitiva, selvaggia, per la sue forze misteriose e imprevedibili.  L’amore per il mare, quel piacere fisico e mentale che provava nel riuscire a dominarlo. “Questo piacere mi appartiene in maniera particolare e non dipende da testimoni. Quando faccio cose simili, mi esalto. Irradio luminosità. Sono consapevole di un orgoglio per me stesso che è mio e mio soltanto. E’ biologico. Ogni fibra di me freme con esso. E’ molto naturale. E’ una semplice questione di una soddisfazione dovuta all’adattamento all’ambiente. E’ il successo.” Seguirlo in queste pagine è vitale e rigenerante. Le parole di questo libro hanno la forza della gioventù, del coraggio, il fuoco dell’avventura, l’entusiasmo del partire lasciandosi tutto alle spalle andando incontro all’Ignoto, al mistero. Soprattutto è il sapersi lasciare alle spalle tutto ciò che noi definiamo civiltà. Come London scrisse altrove “La vita individuale tende ad essere statica piuttosto che dinamica, e questa tendenza viene trasformata dalla civiltà in una forma di propulsione, dove solo l’ovvio viene visto e l’inatteso raramente accade, ed è di portata sufficientemente grave, chi non si adatta perisce. Costoro non vedono ciò che è ovvio, sono incapaci di fare ciò che non è atteso, non riescono ad adattare le loro vite che corrono su ben oliati binari ad altri e insoliti binari. In breve, quando arrivano al termine del loro binario, muoiono (..) Non siamo più bagnati dalla pioggia né raffreddati dal gelo; e intanto la morte, invece di aggirarsi tra di noi sinistra e accidentale, diventa un corteo pre-organizzato, che si muove lungo i binari ben oliati fino alla tomba di famiglia, dove i cardini sempre puliti non arrugginiscono e la polvere dell’aria è continuamente spazzata via“.
 Saliamo con lui sullo Snark, assetati di libertà, libertà che lui ci restituisce e ci promette ad ogni pagina. Saliamo per la bellezza e il gusto del viaggiare, di tracciare rotte, per imparare ad orientarsi con le stelle, ascoltandole e ”sentendole“ mentre ci indicano  la via sopra l’oceano.  Imparare a guardare attraverso un sestante. L’odore forte del mare, la forza del vento, quel piacere di smarrirsi, di perdersi e di sapersi ritrovare, ritrovandosi diversi da quando siamo partiti, sempre più orientati verso una Comprensione più profonda, in un interminabile abbraccio cosmico che si allunga per milioni di anni, fino ai primi istanti di vita sulla Terra, fin dentro ai suoi elementi primordiali, in quel significato incomprensibile ma magnifico, stupefacente e perfetto. In quelle vibrazioni primordiali che sommuovono gli animi aprendo una invisibile crepa in questo feroce buio. Noi, questi animali chiamati uomo, che siamo solo “un  po’ di materia dotata di vita, centosessanta libbre di carne e sangue, nervi, tendini, ossa e cervello”, così fallibili e fragili. Noi, insieme a lui di fronte alle grandi forze della Natura, a quei Titani della distruzione. Cicloni e tornado, fulmini e raffiche di pioggia, le forti correnti e le onde di marea, le risacche e le trombe marine, i grandi gorghi, i risucchi e i mulinelli, i terremoti e i vulcani, i frangenti, le mareggiate… Sentirsi assolutamente vivi e mortali assieme a lui, cavalcando le tempeste. E sentirsi anche divini per un attimo, in quei momenti di totale dominio sugli elementi, assaporando la vittoria che sappiamo essere transitoria, brevissima e illusoria.    Veleggiando sullo Snark, sempre insidiato da mille problemi, sempre sul punto di cedere e sfasciarsi donandoci però la possibilità unica di aprirci completamente, totalmente all’Incontro. Accanto a questo giovane Jack London, dalle mille vite e dai mille mestieri, dagli occhi luminosi e ardenti, con quel suo spudorato talento per la scrittura, nato per scrivere e raccontarci le sue avventure, che ci ha lasciato pagine bellissime, di immacolata purezza, di incontri unici e irripetibili, dentro quella “fantasia preistorica limpida e inquietante“ dove ancora si sente pulsare la Vita.
                                                                         Stella Marina





11 Febbraio 2016

L'aborto. 
Una storia romantica. 

di Richard Brautigan.




“Teneva gli occhi bassi, aspettando che aprissi e la lasciassi entrare“.
 Mi piacciono tutte le fotografie che ritraggono Richard Brautigan, mi piacciono moltissimo perché moltissimo mi piace lui, gli voglio bene, un gran bene. Ma c’è una foto che amo di più. Lui è in piedi, sul ciglio di una strada, presumibilmente alla periferia di San Francisco o di qualche altra città americana, sorregge con devozione la  sua macchina da scrivere che non è  più un mero  oggetto, ma un essere molto amato che ricambia il suo affetto appoggiandosi con fiducia al suo corpo magro, sbilanciandolo un po’. Insieme sanno, che in ogni luogo e in ogni momento, potranno contare l’uno sull’altra, che insieme affronteranno ogni avventura e soprattutto ogni disavventura, i momenti più bui, la solitudine più disperante, uniti e forti per le strade tortuose e imprevedibili della vita, in America o in Europa, o in Giappone, e che ogni luogo per loro sarà sempre il luogo ideale in cui fermarsi a scrivere, in cui trattenere l’istante per osservarlo più da vicino, contemplandolo nella sua fugacità mentre in perfetta sincronia il pensiero guiderà la mano e i tasti risponderanno velocemente al suo impulso, in quella delicata simbiosi capace di rendere così potente il linguaggio, così vicino, così semplicemente complesso, così “complessamente“ semplice, diretto a illuminare il cuore nascosto  delle cose. Cose dimenticate e apparentemente insignificanti, inutili, capaci però di conservare il flusso vitale del tempo, il risuonare di una antica memoria che se ascoltata amorevolmente sa restituire l’intensità della vita, il respiro segreto del mondo. Questa fotografia mi trasmette un senso di gioioso benessere, di immediata empatia, di affetto senza riserve, le stesse emozioni che provo ogni volta che leggo i suoi libri. Anche questo libro non fa eccezione. Basta lasciarsi scivolare nel suo incipit, e seguirlo, nei territori a lui familiari, nell’incanto del suo fraseggio, nell’anarchia del suo procedere, in assoluta beatitudine, senza domandarsi più niente.
“Questa è una bellissima biblioteca, molto fornita, molto americana, e l’ora è perfetta. E’ mezzanotte. La biblioteca dorme profondamente. Come un bimbo che sogna, la porto dentro l’oscurità di queste pagine. Adesso la biblioteca è chiusa, ma io non devo tornare a casa, perché è questa la mia casa, da anni. Del resto, devo stare sempre qui. Rientra nelle mie mansioni: non vorrei darmi il tono di un piccolo burocrate, mi spaventa solo l’idea che possa venire qualcuno e non trovarmi. Da ore siedo a questa scrivania, a fissare gli scaffali nella penombra, zeppi di libri. Amo la loro presenza, il modo in cui fanno onore al legno su cui posano. Sta per piovere, lo so.”
Brevissimi capitoli, fotogrammi di istanti si susseguono, traghettandoci nel cuore della storia, dove l’amore per i libri si unisce all’amore per una donna. Dove l’amore per le cose dimenticate, per le parole mai lette e che nessuno mai leggerà, si unisce  all’amore per una  umanità dimenticata, stramba e solitaria,  in  una biblioteca molto particolare, un vecchio edificio che sorge su un pendio molto ampio e che ricorda una vecchia cattedrale, dove sono accolti solo i libri rifiutati altrove e dove finalmente riescono qui a trovare casa, sapendo che lì rimarranno per sempre, intatti, al sicuro, nel posto che si sono scelti, dove i loro autori li hanno depositati, finalmente appagati.” I volumi respinti, lirici e disperati, dell’America che scrive“. Bizzarre le persone e bizzarri i titoli di questi libri unici, “Il mio triciclo“, di Chuck, “Il giradischi e Dio“, del Reverendo Lincoln Lincoln, “I tuoi vestiti sono morti“, di Les Steinman, ”Inchiostro tipografico“, di Fred Sinkus, un ex giornalista, che ha portato il suo libro interamente scritto a mano, illeggibile e incomprensibile, ogni parola sguazza nel whisky, “L’uovo deposto due volte“, di Beatrice Quinn Porter… Una biblioteca che rimane aperta tutto il giorno e tutta la notte, ininterrottamente, e dove un solo bibliotecario la gestisce, vivendoci dentro con amore e devozione. Bibliotecario che ha cura di accogliere ogni libro e ogni persona che lo porta, i libri non possono essere spediti ma solo consegnati a mano, suonando un vecchio campanello d’argento che può risuonare anche nel cuore della notte, con il suo leggero vibrato quasi angelico suono. Il bibliotecario accoglie con profondo rispetto ogni persona, come se ognuno portasse un tesoro unico, come se ognuno insieme al libro consegnasse anche quella parte di sé altrove rifiutata, non accettata, non compresa. E registrando tutto con accurata precisione su un “Catalogo Generale “; titolo, autore, qualche riga di commento. Accogliere è missione sottile, accogliere incondizionatamente necessita di un grande, grande cuore, di uno sguardo ancora innocente, o innocente nonostante il mondo, nonostante la vita. Lo sguardo di Richard Brautigan. Sguardo che in questo libro è anche capace di saper accogliere l’amore, l’amore per quella donna bellissima, Vida, dai lunghi capelli neri, “sparsi morbidamente sul guanciale, come un ventaglio, come un lago oscuro“,  anche lei con il suo libro rifiutato, con il suo libro intimo da depositare. “il libro era rivestito con carta da pacchi e non c’era titolo. Pareva una zolla di terra brulla che ardesse di calore congelato “. L’amore accade e ha le sue leggi segrete e intime. Lo sguardo lo attraversa in una morbida sensualità, i muscoli e i tendini si tendono “tutti come fantasmi verso l’avvenire“. Brautigan ci porta con “leggerezza dentro la passione amorosa, dentro l’amore profondo, dentro una scelta difficile, attraversando la polverosa frontiera  del Messico, fino a Tijuana. Nel rito dell’acqua e del fuoco. E in un nuovo inizio, un nuovo giorno, nell’umano sguardo di un anarchico vecchio bambino che ha saputo conservare la comprensione. La leggerezza, nonostante tutto. E ce la regala, nei suoi irresistibili, preziosi e unici doni di carta. 
                                               Stella Marina



11 Gennaio 2016

LESABENDIO                              
di Paul Scheerbart




Ti prego, - replicò Biba fattosi più calmo,- non scherzare: non puoi certo sostenere che la vita di questi terrestri che in orde si annientano reciprocamente possa presentare un qualche lato positivo“
Pallas è un asteroide, ed è abitato da creature elastiche ed oblunghe, i pallasiani. Dai loro occhi fuoriescono due lunghe protuberanze a forma di cannocchiale con le quali possono osservare nitidamente le stelle. Le verdi stelle del loro cielo di un colore tenuamente viola. I loro nomi sono strambi e corrispondono alle prime parole che hanno pronunciato appena sono nati. Attratti dalla superficie del Sole, dove pensano risieda la suprema ebbrezza vitale. Intorno al collo portano una collana alla quale sono legati tantissimi fili, alle cui estremità penzolano rotoli di carta, libri, che possono consultare in qualsiasi momento. Ogni pallasiano è in grado di portarsi al collo la sua intera biblioteca. Sono esseri superiori, o quantomeno si ritengono superiori agli abitanti del pianeta Terra, che considerano ad un infimo grado di sviluppo, “Non solo gli uomini annientavano gli esseri meno intelligenti della crosta terrestre, ma, a causa del cibo, si annientavano addirittura reciprocamente. E anche se non li ho visti divorarsi tra loro, ebbi comunque modo di vederli in grandi orde, a migliaia, lanciarsi uno contro l’altro e arrecarsi con armi da fuoco ed aguzzi pezzi di ferro le più orrende ferite per le quali i più, dopo poco tempo, morivano“.
Pallas ha una forma a botte. Sia sopra che sotto, ci sono due imbuti vuoti che si incontrano al centro. L’ astro ruota lentamente su se stesso. I pallasiani si muovono servendosi dei loro piedi a ventosa e di piccole ali posteriori di cui sono dotati. Hanno però costruito anche un efficientissimo sistema di nastrovie, per potersi muovere più agilmente verso le cime e le valli, e per raggiungere in tempi rapidi i due punti più estremi del pianeta. Un sistema di collegamento che non si ferma mai, i pallasiani volano continuamente su e giù dai nastri, in un continuo, costante moto perpetuo. Quello di cui principalmente si occupano queste efficientissime creature è di creare armoniose strutture architettoniche per abbellire Pallas, sono devoti alla Bellezza e all’armonia, non conoscono guerre, né il dolore. Nascono da gusci di noce, sono creature asessuate, quando muoiono diventano trasparenti e vengono interamente assorbiti da un pallasiano in vita, da loro scelto, che porterà dentro di sé la sua essenza. Tutta l’energia dei pallasiani è concentrata nel rendere più splendido e grandioso il loro astro, illuminato da una brillante nube bianca posta sopra l’imbuto nord, più che dal Sole, del cui sistema comunque fa parte. Hanno una sorgente inesauribile di acciaio-kaddimohn, con il quale costruiscono le strutture sulle quali poi innalzano le loro spettacolari torri di luce, audacemente lanciate nello spazio cosmico.
All’irrompere della notte, i pallasiani planano verso il fondo, nella ricchezza di luci multicolori. Ogni cosa e tutti gli esseri su Pallas palpitano nel buio di una luce fosforescente, come tante, tantissime piccole lucciole. Si dirigono verso il Centro dove spontanea sgorga la musica con i suoi suoni grandiosi, prodotti dall’incontro dalle varie correnti d’aria. Sapientemente diretti quei suoni, grazie ai rivestimenti di pelle montati sulle pareti rocciose, producono tra le più sublimi e sofisticate melodie, grazie all’ingegno del pallasiano Sofanti.
Un sogno temerario cova però nella mente di Lesabèndio, il pallasiano più audace; quello di costruire la torre più alta di Pallas, unendo così il corpo del planetoide con la nube bianca che lo sovrasta, con il suo sistema-di-testa. E forse finalmente riuscire a comprenderne il mistero, la consistenza impalpabile. E forse finalmente riuscire a sciogliere l’enigma del segreto della Vita. Questo progetto cambierà completamente l’assetto del pianeta e quella che fino ad allora era stata la sua filosofia di vita, l’arte come bellezza in sé, rasserenante e pacificatrice presenza, fine ultimo dell’esistenza. La Torre diviene ponte tra le due parti del corpo astrale, tra il sopra e il sotto, rigenerazione di parole antichissime riportate a nuovo stupore. Ma…..
Paul Scheerbart è stato uno scrittore, critico d’arte, un eccentrico visionario della Berlino inizio Novecento, molto amato da Walter Benjamin e Bruno Taut che ne fu molto influenzato. Appassionato di filosofia e di storia dell’arte, di architettura, coniuga in questo romanzo le sue due passioni con la sua visione utopica della vita. Trasferendosi su Pallas, crea il suo mondo privo di dolore, erigendo le sue cattedrali di vetro, in una liberazione immaginifica in cui l’inafferrabile riluce nella policromìa del colore. Il vetro diviene organo dello spirito fantastico e l’immaginazione l’unica possibilità di salvezza. La metamorfosi delle forme, ne dissolve i contorni. ”Un accadere che disfà le forme“ dandole la consistenza di una nube; avvicinandola delicatamente al fragile stato del sogno“. Su Pallas sopravvive tutto quello che sulla Terra si è estinto, nella trasparenza e nella lucentezza dei colori, questo autore, cittadino onorario della luna, come fu definito dai suoi contemporanei, con una scrittura limpida e tersa, quasi infantile, “ha la freschezza delle gote di un lattante“, (come ci racconta Walter Benjamin), ci ricorda che il fantastico, e i bambini ben lo sanno, è vero. Non è reale ma è vero. La sua verità rappresenta una sfida, un invito a riflettere profondamente, a scardinare ogni tipo di credenza, a ribaltare i nostri punti di vista. Nel suo rifiuto di accettare come definitive le limitazioni che la realtà gli ha imposto, Scheerbart costruisce il suo asteroide luminoso, la sua costruzione fantastica di cristallina trasparenza, non tanto per svelarci l’essenza delle cose, quanto piuttosto per sottolinearci l’assenza, nel suo gioco del rovescio tra realtà e finzione. Il comico e non l’incubo soggiace dall’altro lato delle cose in Paul Scheerbart, la “porosa“ affettività di questi esseri, i pallasiani, ancora capaci di accogliere l’altro anche se completamente diverso da sé, di assorbirne l’essenza continuando a farla esistere. Al di là del valore letterario, è questa purezza autentica che si respira in questo racconto, che mi ha affascinato e che mi ha fatto così bene sentire, proprio adesso, adesso che non vorrei sentire l’agonia della Terra, i suoi continui devastanti bollettini di morte. Una costruzione profana, come la definisce Fabrizio Desideri nella sua esaustiva introduzione, che lascia scorgere il vuoto dietro la propria forma.
Il romanzo Lesabèndio –scrive Benjamin– è il frutto di una vita spirituale di grande purezza e riflessione e la coscienza di esser legato ad alcuni elementi del reale e dell’esterno gli ha conferito la purezza che noi chiamiamo stile“.
                                                                           
 Stella Marina                                                                 
                                                                                      
                                                                          
 
11 Dicembre 2015

VICINO AL CUORE SELVAGGIO             
Clarice Lispector





Uno dei due figli di Clarice Lispector, Pedrinho, provando a descrivere sua madre in pochi tratti essenziali disse che lei ricordava un incrocio tra una tigre e un cervo. Un misto di temperamento e dolcezza, magnetismo e ritrosia. Una descrizione amorevole e bellissima che ci restituisce totalmente lo sguardo magnetico e affascinante della Lispector, la cifra segreta e potente della sua scrittura. L’erranza ha caratterizzato la sua vita fin da piccola. Lo scrivere è stato per lei quel luogo dove potersi finalmente riappropriare del suo io più intimo, per poterlo ascoltare, e riascoltare ancora, in quel suo pulsare vitale e “selvaggio“. Quel luogo in cui le percezioni originarie, ancora trasparenti, pure e forti, impossibili da esprimere con parole perché antecedenti al linguaggio stesso, si liberano in visioni continue e potenti che vanno a scontrarsi con gli strati solidificati della realtà. La scrittura vibra nella tensione di parole che cercano di esprimere un mondo intellegibile e impalpabile, nella tensione di portare alla luce quel sommovimento interiore che fluisce istante dopo istante, mai identico a se stesso. Sono linee sottili e continue che si sovrappongono l’una all’altra e che si legano in quei reticoli cristallini di momenti d’essere, uniti tra loro da quei punti lievi e fragili, ma anche forti ed eterni, che si chiamano istanti. Una enorme ragnatela fatta dai più delicati fili di seta pronta a catturare nella sua trama ogni più lieve metamorfosi del sentire, le più impalpabili pulsazioni del vivere.
Ah, la vita è meravigliosa nelle sue tele captanti. Limitatevi a ricevere, come io mi limito a dare, ricevetemi come fili di seta”. ( Clarice Lispector )
Vicino al cuore selvaggio“ è il suo primo libro. Lo scrisse che aveva appena diciannove anni e questo sorprende e intimorisce al tempo stesso. La qualità della sua scrittura, fragile e pura, forte e feroce, rivelatrice e nascosta; spicca il volo per abbandonarsi nuovamente alla caduta, vertiginosamente a picco, a cercare il suo centro misterioso e segreto. Joana, la protagonista di questo romanzo, è una donna la cui vita è tutta interiore. All’inizio del romanzo è una bambina. Il viso bianco, vago e lieve, a occhi chiusi danza leggera e alata al centro di sè, immaginando mondi, inventando parole che dilatino le sue visioni. E’ capace di giocare per pomeriggi interi con una sola parola, con quel suo suono rivelatore di possibilità infinite, di storie che continuamente possono reinventarsi e prendere contemporaneamente direzioni diverse. Non importa che lei tocchi le cose, lei riesce a possederle anche da lontano. Sentire le cose senza possederle in quel suo infantile gioco desiderio-potere-miracolo dal quale forse mai riuscirà a liberarsi. Lieve e pura, pronta ad accogliere quel suo dono di saper immaginare, riuscendo a “vedere”, in punta dei piedi, percependo il resto del mondo solo inclinandosi dalla terra verso lo spazio. Così ardente e leggera, muove i suoi passi in un mondo che non è preparato ad accoglierla. “La sua vita era formata da tante piccole vite complete, da cerchi interi, conchiusi, che si isolavano gli uni dagli altri. Indipendenti e forti, condensati in se stessi da non aver bisogno di passato né di futuro per esistere.” La trama è quasi inesistente; il breve periodo di vita trascorso insieme al padre, il trasferimento a casa della zia, il professore che le insegna a vivere, la pubertà che sorge misteriosa e all’improvviso, gli anni del collegio, il matrimonio con Otàvio, l’incontro e l’amore con uno sconosciuto…Non sono i fatti a dare movimento al racconto, a renderlo vivo, ma sono i pensieri. Quei pensieri la cui materia è sottilissima, che nascono dal silenzio, o dall’ascolto di un certo tipo di musica o che si “provano“ di fronte alla potenza sconfinata e rivelatrice della Natura. Sono vibrazioni sottili, proiezioni vibranti della materia, che si legano a quella radice misteriosa che ha originato la vita. Pensieri nati dall’istante, pronti a dissolversi e a trasformarsi, a nascere ancora e ancora, nella vertigine del sentire, guardando gli occhi aperti e muti delle cose La percezione di essere viva, viva oltre se stessa, schiacciata dall’eccesso di vita, Joana è simultaneamente donna e bambina, fluisce costantemente tra i suoi stati, abbagliata dalle sue stesse visioni che si spalancano sul mistero, sempre sul punto di ricevere una rivelazione. Libera, di una libertà incomprensibile agli altri con i quali non riesce quasi mai a trovare un modo di incontrarsi, di comunicare le sue percezioni che sono troppo organiche per essere formulate in pensieri, troppo vive per riuscire davvero a toccare gli altri. Gli altri che però saranno “toccati“ da lei, irrimediabilmente. Analizza istante per istante, affascinata immerge il corpo in fondo al pozzo, percependo il nucleo di ogni cosa fatto di tempo e di spazio, gioendo di quei rari istanti di pienezza d’ essere, con una allegria intensa e serena, in quel miracolo trasparente e puro in cui sa di essere completamente viva, in perfetta connessione con tutte le cose che esistono. Senza limiti e senza tempo, materia semplicemente viva. Ascoltandosi, di continuo, “cogliendo l’opportunità fugace che, con piedi leggeri, danza sull’orlo dell’abisso “. “Se il brillio delle stelle mi fa male, se è possibile questa comunicazione lontana, è perché qualcosa che forse assomiglia a una stella mi freme dentro “. Sprofonda di continuo per riemergere da terre non ancora possibili. “ In realtà lei era sempre stata due, quella che sapeva vagamente di essere e quella che era davvero, profondamente.” La distanza che separa i sentimenti, le emozioni, le intuizioni dalle parole, l’inquietudine di vivere e di riuscire ad esprimere quell’inquietudine con parole vive. A occhi chiusi.
A occhi chiusi, abbandonata, pronunciò sottovoce parole nate in quell’istante, mai udite prima da nessuno, ancora tenere di creazione – nuovi e fragili germogli. Erano meno che parole, appena appena sillabe, prive di senso, tiepide, che fluivano e s’incrociavano, si fecondavano, rinascevano in un solo essere per poi smembrarsi, respirando, respirando…”.
Sostando negli intervalli sospesi delle epifanie con la forza dirompente di un’amazzone, corre a perdifiato in territori silenziosi e incontaminati, puri e liberi, dove la parola si trasforma in visione, e la visione in suono. Impercettibili continue vibrazioni,sottili increspature dello spazio. Ci lascia nudi, esausti, senza fiato, a contemplare la bellezza del mondo.
(…) Lalande è anche il mare all’alba, quando non un solo sguardo ha ancora sfiorato la spiaggia, quando il sole non è ancora nato. Ogni volta che ti dirò Lalande, dovrai sentire la brezza fresca e salata del mare, dovrai camminare lungo la spiaggia ancora buia, lentamente, nudo.(…) “
La perfezione della scrittura.
                                                                          Stella Marina


11 Novembre 2015            

PURGATORIO

Tomàs Eloy Martìnez

“ Santa Evita “, libro scritto nel 1995, è sicuramente il capolavoro di Tomàs Eloy Martìnez. Indimenticabile e bellissimo in cui il genio giornalistico-letterario, quel genere che lo scrittore definì “ ficcìon verdadera “, riesce ad esprimersi in tutta la sua potenzialità. “ Purgatorio “ lo ha scritto nel 2008 ed è l’ultimo libro che ha potuto scrivere. Iniziato quando già si era gravemente ammalato , quando era ormai sulla riva della vita. Una costante vena melanconica ne attraversa le pagine, come a cucire le storie, a rammendare gli strappi, a condensare i ricordi, per trovare quel punto di congiunzione tra verità e finzione, “ attraverso quel linguaggio giornalistico che comunica, per contagio, un effetto di realtà “. Thomàs Eloy Martinez si affaccia sul bordo della vita , a rintracciare quel segreto passaggio che tieni uniti i vivi ai morti, sul bordo di quei confini che esistono al di là delle parole e a cui uno scrittore deve essere capace di dar voce.
“ Aveva immaginato infinite volte il momento in cui lo avrebbe rivisto, e mai, mai, si era posta il problema dell’età “.
Ad immaginare è Emilia, argentina di nascita, una donna che ha poco più di sessant’anni . Costretta molti anni prima ad esiliare in America da un padre dittatore, il ricchissimo dottor Dupuy. Reso ricco dal regime naturalmente, di cui era il fido consigliere, ideologo, inventore di slogan. Lo slogan preferito era “ Dio, Padre, Famiglia “, l’immagine di un Argentina pulita e senza macchia, pronta ad ospitare i mondiali di calcio, ripulita da ogni corrente sovversiva, vincente e all’avanguardia. Immagine che lui aveva cura di promuoveva ogni giorno tramite le pagine del suo influente giornale, “ La Repùblica “. Il denaro gli pioveva addosso a catinelle. Dopo trent’anni Emilia ancora aspetta il marito, Simòn, un desaparecidos, e non si rassegna a considerarlo morto, pur avendolo cercato ovunque senza risultato e avendo seguito tutte le tracce possibili, tra Venezuela, Brasile, Messico e America. Non si rassegna neppure quando tre testimoni durante il processo della giunta, giurarono di averlo visto morto, abbandonato come spazzatura in un cortile con un foro di proiettile tra gli occhi. Lettere anonime, telefonate, continui depistaggi spesso architettati dal padre per tenerla lontana, troppo scomoda e imbarazzante averla per figlia e soprattutto troppo pericoloso averla vicino. Ma lei non si ferma e non si scoraggia davanti a niente, rivuole il suo amato Simòn , rivendica la sua vita con lui, sa che lui tornerà. Lui , come lei, è un disegnatore di mappe, un inventore di luoghi, non può essere scomparso nel nulla. Finalmente un giorno riesce a “vederlo “ in un sèparè di un ristorante nel New Jersey. E’ ancora lui, identico a come se lo ricordava, senza neppure una ruga, come se il tempo per lui non fosse trascorso, vestito con gli stessi abiti di allora, esattamente come quel giorno che si erano dovuti separare. Lo stesso timbro giovanile nella voce, la stessa curva del collo, lo stesso neo scuro sotto l’occhio destro. Si erano conosciuti in una cantina dell’avenida Pueyrredòn, ad un concerto, entrambi studiavano cartografia. Avevano venticinque anni. Si erano sposati quasi subito, dopo due anni, il 24 aprile, un mese dopo il colpo di Stato. Avevano trovato lavoro come cartografi presso L’Automobil Club. L’amore, il sesso, la nudità come reciproco donarsi in quel loro giovanile ardore . L’imene di Emilia che cede per la prima volta , il patto di rimanere per sempre uniti, un unico essere, come l’Essere unico ed eterno di Parmenide . Le parole d’amore sussurrate mentre scorrono le note di Keith Jarrett, quelle di Koln concert del 1975, nel loro flusso anarchico e impetuoso. Ci sono sempre delle note in sottofondo a suggellare le più intense storie d’amore. In questo romanzo quelle di Keith Jarrett si spalancano sul brivido dell’assoluto, dell’irripetibile, esattamente come irripetibile fu la serata del concerto all’Opera House di Colonia quando Jarrett, dopo aver richiesto sul palco l’amato pianoforte Steinway , il suo preferito, quello sul quale amava improvvisare, fu costretto dalle circostanze ad acconsentire ad un Bösendorfer, e anche di seconda scelta. Dopo lunga attesa , il palco vuoto, e il panico dell’organizzazione, Il risultato fu quel sorprendente concerto, e quel brivido che ci coglie ogni qual volta lo ascoltiamo, che propagandosi da quel piccolo punto sensibile situato in mezzo alle scapole , che per Nabokov è la sede del piacere artistico, a poco a poco ci pervade totalmente. Unica e irripetibile è stata anche quella lunga notte d’amore tra Emilia e Simòn , prima che il lavoro li chiami a Tucumàn, il punto di non ritorno, milleduecento chilometri fuori Buenos Aires. Lì avrebbero dovuto rilevare dieci chilometri di una strada invisibile, una strada che sulla carta appariva come una sottile linea tratteggiata. “Poche linee tratteggiate su una carta avevano attirato il caso, e il caso li stava annientando “. Se continuiamo a camminare sul tracciato di quella linea tratteggiata, entriamo nel delirio e nella perversione della dittatura dell’ultima giunta militare argentina, quella del 1976-1983, di cui tutti purtroppo conosciamo la storia. Le parole che espresse il generale Ibèrico Saint-Jean ne riassumono in toto l’orribile essenza; ” prima elimineremo i sovversivi, poi i loro collaboratori, poi i loro simpatizzanti, successivamente quelli che resteranno indifferenti e infine gli indecisi”. La luce in lontananza è di un chiarore violaceo in quell’alba in cui il tempo si ferma per Emilia e Simòn . Il tempo si interrompe , si ripiega su se stesso, si sdoppia , per seguire un altro corso. Vengono arrestati ed è l’inizio di quell’eterna erranza in quella terra di nessuno. Emilia ha salva la vita, perché figlia del dottor Dupoy, Simòn invece scompare nel nulla perché già schedato come sovversivo, un rosso pericoloso da eliminare quanto prima. Emilia sa che un cartografo, se vuole, può cambiare la rotta del mondo.” Le mappe le avevano insegnato a confondere la logica della natura, a creare illusioni là dove la realtà sembrava invincibile “. Sarà questo a tenerla in vita, a farla continuare a sperare, a non farla cedere davanti a chi vuole annientare il ricordo, cancellarlo nel nulla. La memoria è per Emilia l’unica forma possibile di resistenza, come per tutte le madri e le nonne di Plaza de Mayo. Come i cartografi anche i romanzieri hanno la possibilità di correggere la realtà, di reinventarla. Di intervenire là dove la realtà ha fatto perdere le sue tracce, ha cancellato volti e nomi, ha annullato storie. I romanzieri hanno la possibilità di intervenire su tutto quello che scompare a nostra insaputa, “ perché conosciamo solo quello che esiste e non sappiamo niente di quello che non arriva a esistere “. I romanzieri sono chiamati a rimediare all’assenza perpetua di ciò che non è mai esistito.
“ Ma che cosa succede quando questo qualcosa che non esiste si alza e ricambia il tuo sguardo? Smette di essere qualcosa, ti rivela che esiste, si ribella, è un qualcuno provvisto di consistenza, di energia. Gli esseri umani non sono illusioni, Charlie. Sono storie, memorie, sono invenzioni di Dio, proprio come Dio è l’invenzione di tutti noi. Se cancelli un solo punto di quella linea infinita, la cancelli per intero, e tutti possiamo cadere in quel buco nero “…
                                                                               Stella Marina


11 Ottobre 2015
                                                                                                       

Punto omega               
Don De Lillo





 “ La vita vera non si può ridurre a parole dette o scritte, nessuno può farlo mai. La vita vera si svolge quando siamo soli, quando pensiamo, percepiamo, persi nei ricordi, trasognati eppure presenti a noi stessi, gli istanti submicroscopici “

Romanzo, racconto lungo, cos’è  Punto Omega  di Don  De Lillo?  Essenzialmente  una riflessione profonda sul tempo, sulla percezione del tempo, un ingranaggio di frasi perfette,  impulsi luminosi  sulla soglia del vuoto  che ci invitano a riflettere. Non ha una trama, e se la ha, è alquanto sottile  e secondaria. Scorre come un fotogramma di una pellicola cinematografica.  Il primo capitolo, “ Anonimato “,  inizia con la videoinstallazione, “ Hour Psyco “ di Douglas Gordon, allestita in una sala del MoMa di New York nel 2006. Una versione rallentata del film Psyco di Alfred Hitchcock, proiettata alla velocità di due frame al secondo, in modo da coprire ventiquattro ore di proiezione , contro i centoventi minuti della versione originale. Lo schermo al centro della sala buia, il film che scorre in bianco e nero, senza dialoghi né musica. Uno spettatore,  senza nome , è il  protagonista di questa prima parte . Lo osserviamo anche noi da  spettatori  mentre viene risucchiato insistentemente   dalla  proiezione, fino al punto che  dovrà tornare ogni giorno   per  vederla. E lo farà per tutti i sei giorni che durerà la videoinstallazione. Assorbito, ingoiato  da ogni minimo  dettaglio, da quella  profondità che le  cose riescono ad assumere  grazie a  quel lentissimo scorrere  delle sequenze  dove  ogni  “azione viene scomposta in parti così distinte  dall’entità originaria  che l’ osservatore si trova scollegato da ogni aspettativa” . La mancanza di aspettativa permette di poter  “ vedere quello che c’è, finalmente guardare e sapere che stai guardando, sentire il tempo che passa, essere sensibile a ciò che accade nei più piccoli registri di movimento “. Il film , proiettato senza sonoro, ”  non poteva che assorbire l’individuo a una profondità al di là delle solite supposizioni, al di là delle cose che l’individuo ipotizza, presume e dà per scontate “. Il bianco e nero come  elemento neutralizzante, “ un modo per fare dell’azione una cosa affine alla vita primordiale, una cosa che piano piano si riduce alle sue componenti narcotizzate “. L’osservatore  diviene così  puro sguardo,  essenza-coscienza   che assorbe il  tempo allo stato puro. 
Nel  secondo frame, quello più lungo,  la storia sembra aprirsi ad  una trama, ad un brusio di fondo,  voci sommesse  parlano e si raccontano.  In una casa isolata nel deserto, a sud del nulla, forse nel deserto del Sonora, due uomini disquisiscono sulla  natura del tempo e sul senso  dell’agire umano nella storia. Sono gli stessi  due uomini intravisti solo per un istante  nel primo capitolo e che qui diventano  protagonisti.  Già in Underworld  Don DeLillo  si era  interrogato  sulla natura del tempo usando  queste parole: “ Quanto è profondo il tempo? Fino a quale punto dobbiamo calarci dentro la vita, prima di capire cos’è il tempo ?” Il  deserto, spazio metafisico,   essere alieno , “ saturante e remoto”,  sembra essere il luogo ideale per approcciare  questa domanda. Io non sono certo -  scrive DeLillo in una intervista -  di quello che penso, finchè non scrivo. Devo scrivere per comprendere ciò che penso. La scrittura è un estremo atto di concentrazione. Il deserto così come  lo schermo nel museo, diventano luoghi di concentrazione assoluta , di pura coscienza. Richard Ester, uno dei due protagonisti, ha settantatre anni. E’  ormai stanco  della città, nauseato da News e Traffico ,  nauseato ormai da tutto.  Ha deciso di ritirarsi in  quella sua malandata  casa nel deserto,  principalmente per smettere di parlare ed essere riassorbito  dal silenzio. Perché in quel luogo il tempo ha la capacità di  rallentare, il tempo diventa cieco . Si fa  Enorme. Tocca contemporaneamente l’alba dell’uomo e il suo tramonto,  tocca l’istante dell’inizio e sfiora quello della  fine.  Ex Teorico della Difesa per il Pentagono,  consulente per la guerra in Iraq , concettualizzare era essenzialmente il suo lavoro. Una guerra in tre versi era quella che voleva,  una guerra formato haiku . Intellettuale  e studioso, lettore della teoria  del gesuita Padre Teilhard sul punto omega. Attende il momento dell’introversione. “ Vogliamo essere la materia inerte che eravamo un tempo. Siamo l’ultimo miliardesimo di secondo nell’evoluzione della materia. “ Cosa siamo? “ Siamo una folla, uno sciame. Pensiamo in gruppi, viaggiamo in eserciti. Gli eserciti portano il gene dell’autodistruzione”. “ (…) Un salto fuori dalla nostra biologia. La coscienza è esaurita. Ora si ritorna alla materia inorganica. E’ questo che vogliamo. Vogliamo essere pietre in un campo.”
L’altro personaggio , Jim Finley, è  un giovane regista, che ha cercato in tutti i modi possibili di contattare  Richard Ester. Il suo desiderio è quello di girare un lungometraggio sulla sua  vita, farlo parlare a ruota libera per fargli  raccontare tutto quello che sa. L’anziano si rifiuta più volte, ma poi lo invita  nella sua casa nel deserto. “ Tu vuoi riprendere il crollo di un uomo “, un uomo che si fonde con la guerra, che crede ancora nella giustezza della guerra “,  un uomo con  le spalle al muro, ecco cosa vuoi riprendere, sentenzia  Richard Ester. “ Il film è la barricata, quella che erigiamo io e te. Quella dove c’è un uomo dritto in piedi che dice la verità “, si difende  Jim Finley.  L’arrivo della figlia nella casa altererà il gioco di equilibri, la percezione sottilissima del tempo, il senso  e il significato della propria vita.  Il tempo  si espande  all’infinito  per poi nuovamente  infrangersi, collassando  come un buco nero nel cuore maledetto e muto del deserto.
Nell’ultimo capitolo, breve , Anonimato 2, c’è  di nuovo  l’uomo al MoMa  di fronte alla videoinstallazione di Douglas Gordon. E’ l’ultimo giorno, mancano poche ore alla chiusura definitiva.  Quello che l’uomo  pensa adesso,  è che  non  potrà più essere in grado  di  vedere il film nella sua versione originale. Quello che ha  visto proiettato  durante  quei sei giorni è  il film vero, l’altro,  l’originale,  è il falso.  Solo lì è riuscito a   vedere  tutto per la prima volta…Immagini in dissolvenza.  Adesso ci  cammina dentro.
Per la teoria della gravità quantistica non ha senso parlare di tempo; il tempo non esiste. Ma per noi, esseri limitati e mortali, stretti nella morsa dell’estinzione, il tempo è l’unico modo per riappropriarsi di un significato, di un senso, seppur illusorio.  L’enigma credo rimarrà irrisolto, ma leggere pagine di così intensa bellezza aiuta a soffocare l’urlo. Con questo romanzo siamo al punto omega della scrittura, difficile immaginare cosa possa esserci ancora.  Grandissimo libro.

“ Tutto ruota intorno al tempo, tempo cretino, tempo inferiore, la gente che controlla l’orologio e altri aggeggi, altri sistemi che aiutano a ricordare. E’ il tempo che scorre via lentissimamente dalla nostra vita. Le città sono state costruite per misurare il tempo. C’è un eterno conto alla rovescia, diceva. Quando hai strappato via tutte le superfici, quando guardi sotto, ciò che resta è il terrore. E’ questo che la letteratura vuole curare. Il poema epico, la favola prima di andare a letto “

Don DeLillo                                                       Stella Marina
 
11  Settembre  2015 
NON SCRIVERE DI ME                     

di Livia Manera Sambuy



Livia Manera Sambuy è una giornalista letteraria e collaboratrice del Corriere della Sera. ”Scrivo di libri e di scrittori; è il mio mestiere“. Questa volta il libro lo ha scritto lei, una piacevolissima passeggiata nella letteratura americana. O meglio, ritratti inediti e interessanti di alcuni scrittori americani che lei ha conosciuto e intervistato personalmente e con cui spesso è entrata in profonda sintonia e amicizia. Ma anche un’occasione vera e profonda di parlare di letteratura, che si sa, procede per diramazioni continue. Una donna che ha fatto del leggere il proprio mestiere convinta che abbiamo bisogno di storie perché le storie ci aiutano a vivere. Sicuramente sì, ci aiutano a vivere meglio. E come aggiunge la scrittrice americana Nicole Krauss, “credo che la letteratura abbia il potere di aprire dei canali di comunicazione che altrimenti ci sono preclusi“. Questa idea dei canali mi piace moltissimo. Ogni volta che leggiamo un libro, non leggiamo “soltanto“ il libro, la storia, il racconto, ma leggiamo di noi. Siamo noi che entriamo nel libro, in quel bianco e nero che ritenevamo protettivo e assolutamente neutro ma che diviene lo specchio più veritiero della trama sottile e profonda della nostra esistenza. Siamo là, nel racconto, immersi totalmente  con ogni fibra  del nostro essere, in quel mare orizzontale di parole, a sbrogliare i fili della nostra vita mentre canali silenziosi e misteriosi ci mettono in risonanza con il nostro vissuto, con il vissuto degli altri, con il vissuto di questo pianeta di cui, per una frazione di secondo, forse meno, abbiamo il meraviglioso dono di essere   parte. Una ragione d’essere della letteratura, ha scritto Mavis Gallant, una scrittrice assolutamente brillante e  da riscoprire, è che è “un ponte per attraversare il fiume“. Eccoci allora salvi, ancora una volta, al di là della riva, dentro il rosso potente di un tramonto che si stempera nella sera, accovacciati a rileggersi le pagine immortali di Faulkner, sulle tracce di Old Ben, immersi nella natura selvaggia, “nella fatale natura selvaggia i cui orli venivano via via, di continuo, pateticamente rosicchiati da sparuti individui muniti d’ascia e d’aratro, i quali la temevano perché era selvaggia, uomini e miriadi e anonimi l’uno per l’altro nella terra dove l’orso s’era guadagnato un nome e dove scorrazzava, non una bestia mortale, ma l’anacronismo indomito e invitto d’un tempo morto e sepolto, un fantasma, epitome e apoteosi dell’antica via selvaggia che quei nani di umani invadevano e attaccavano in una furia di avversione e di paura, come pigmei avventati ai malleoli di un elefante assonnato“.
Ho divagato. Mi sono lasciata trasportare da un canale sottile, nella Bellezza di un racconto che sto ancora metabolizzando e che non fa parte di questo libro. Ma fa parte sicuramente di me. E sicuramente anche di Livia Manera Sambuy, del suo profondo amore per la letteratura, per la grande letteratura. Della quale la sua vita è intessuta. Letteratura e vita difficilmente scindibili, l’una dentro l’altra in un rapporto dinamico di reciproca, costante contaminazione. Non scrivere di me, il titolo del libro, è l’intimidazione con cui Philip Roth proibisce all’amica Livia di scrivere di lui. Un’amicizia profonda e tormentata, non priva di malintesi quella che li unisce. Ma questo non impedisce alla scrittrice di affrontare la sfida, di liberarsi dall’ingombrante monito  dell’ingombrante amico, e ricostruire il volto segreto e nascosto e forse mai del tutto reale, di uno dei più grandi scrittori contemporanei. “ E’ strano come la vita si mescoli alla scrittura e alle letture. La gente pensa che lo scrivere autobiografico sia un processo lineare, ma non c’è niente di più lontano dal vero. L’ho capito in modo inequivocabile anni dopo, scrive Livia Manara, quando in uno scritto che Philip mi ha dato da leggere -una cosa sua, non destinata alla pubblicazione-, ho trovato questa frase: “Uno scrittore è qualcuno che non sa niente della propria vita o della vita di chiunque altro, fintanto che non solo l’ha immaginata, ma ha scoperto, scrivendo, come immaginarla“. E aggiungerà David Foster Wallace “Perché una delle ragioni per cui gli scrittori di narrativa diventano scrittori è che nulla di veramente importante può essere detto in modo diretto“. E ritornando, in un gioco di rimandi e passaggi segreti, alle parole di Mavis Gallant, “La Letteratura non è niente di meno e niente di più che una questione di vita e di morte“. E gli scrittori citati in questo libro, ognuno a modo loro, hanno affrontato contemporaneamente la vita e la morte , scrivendo sull’orlo del precipizio, o come meglio esprime Richard Ford, “Ho scritto Sportswriter seduto su una sedia in fiamme“.  
Vestiti, l’acqua è profonda ( Anne Carson )
                                                                                       Stella   Marina



11  Agosto  2015
                
AMY  FOSTER
di Joseph Conrad



 

“La vita letteraria porta spesso a cercare nutrimento nei ricordi e a confrontarsi con le ombre del passato, sempre che non si voglia scrivere con l’unico scopo di criticare l’intero genere umano per ciò che è, lodarlo per ciò che non è, o – più in generale – insegnargli come comportarsi. Non essendo io né litigioso, né adulatore, né saggio ho rinunciato a scrivere di queste cose e sono pronto ad accettare la sorte che tocca a quanti decidono di non immischiarsi in un senso o nell’altro. Ma rassegnazione non significa indifferenza. Non mi piacerebbe essere considerato un mero spettatore immobile sulla riva del grande fiume che trasporta così tante vite. Anzi, sarei portato a riconoscermi tutta la capacità d’intuizione che si può esprimere con la voce della comprensione e della compassione“
Leggendo questo breve racconto sono subito riaffiorate alla memorie, come essenziali, queste parole che Conrad scrisse nelle sue “Memorie“. Amy Foster, pubblicato nel 1901, è un racconto perfetto, di quelli che si leggono traboccando di gratitudine per l’autore, ringraziandolo per ogni frase, immagine, virgola e punto. Perfetto nella sua brevità. Nel nostro mondo invaso ormai più da “scrittori“ che da lettori, ritrovarne uno vero, dà un senso di vertigine. Nessuna forzatura, nessuna frase ad effetto, le parole fluiscono da quella necessità intrinseca alla trama, necessarie nell’esecuzione del loro compito. Si viene rapiti dalla storia, stregati dalla sua armonia di fondo, sedotti da quell’orizzonte marino, dalla luce di quel faro che lampeggiando, traccia e segnala  instancabilmente  il confine tra terra e mare. Dietro si estende la campagna verdeggiante e silenziosa del villaggio inglese di Brenzett, davanti si apre l’infinità misteriosa del mare. Ma prima di allontanarci da questa linea di confine e incontrare il medico Kennedy, ex chirurgo della Marina ritiratosi in campagna dove continua a svolgere  la sua professione di medico,  qualcosa ancora preme dalle Memorie. “Non c’è nulla di più umiliante che scoccare la freccia delle proprie emozioni e mancare il bersaglio di lacrime e pianto“. “Nell’assolvere il proprio compito, che sta nel rivelare la propria anima più o meno nuda al mondo, un certo rispetto del pudore, anche a costo del successo, significa semplicemente rispettare la propria dignità che è indissolubilmente legata alla dignità dell’opera stessa“. Ecco, dico, mentre ben consapevole di aver letto un piccolo capolavoro di perfezione letteraria, ecco il segreto della cifra di Conrad, la sua misura, il suo pudore. Anche Cesare Pavese, nell’introduzione a “La linea d’ombra“ parla del pudore conradiano, come di chi  “mantiene davanti all’enigma, all’angoscia del vivere un’ironica e rassegnata altezza; alza le spalle e a denti stretti, se pur non convinto, sta sulla breccia e dà una mano, sempre staccato, sempre corretto, sempre gentlemen.“
E ritornando adesso su quella linea di confine, dentro il territorio del racconto, dentro l’heart of darkness di ogni anima, incontriamo lo sguardo di Amy Foster, “dai lenti, sporgenti occhi bruni“, e “foschi“, questa creatura che contemporaneamente dona salvezza e morte attraverso la sua conoscenza del mondo, attraverso la sua sensibilità rozza e diretta che la mette in comunione con l’anima delle cose, nonostante la sua natura ottusa. Ma non abbastanza, non  fino in fondo. Un amore  la coglie di sorpresa,  come un sortilegio, si innamora disperatamente, fatalmente. Una possessione dalla quale si risveglia senza più riuscire però a vedere l’uomo,  pensando di trovarsi alla fine di fronte ad un mostro perché incapace lei stessa di comprendere la diversità di chi giunge da un altro paese, ed ha abitudini, atteggiamenti, modi di essere diversi dai suoi. In  un paesaggio di campagna che si tinge del rosso del tramonto “Il bruno uniforme del campo erpicato ardeva di una leggera tinta rossa, come se le zolle polverose avessero trasudato in minute perle di sangue la fatica di innumerevoli contadini “, il racconto procede lentamente, direttamente dalle labbra del dottor Kennedy. Scorre lentamente nonostante la sua brevità. Contiene tutta l’incomprensione e l’intolleranza possibili . L’eterna lotta di chi, considerato selvaggio, deve lottare per affermare la sua uguaglianza e la sua capacità, spesso anche la sua umanità, ogni giorno, ogni istante, pur avendo un’anima solare e sensibile come quella di Yanko. La diversità crea disagio, intolleranza, chiusura. E l’uomo venuto dal mare, un emigrante dell’Europa Centrale diretto in America, naufragato e approdato in Inghilterra, incontrerà amore, ma per poco, e non fino in fondo, solo nello sguardo di Amy Foster. La sposerà, e avranno un figlio. Non si sa bene in realtà chi sia il protagonista in questo racconto, potrebbe proprio essere  lui, il naufrago, il giovane dallo sguardo forte, dai lucenti occhi neri, dai denti bianchissimi e dalla voce musicale, morbida e vibrante, la figura più viva e vera di tutto il racconto. Ma potrebbe  anche essere il dottor  Kennedy, a cui è affidato il delicato compito di raccontare la storia, e la racconta  fumando la sua pipa, con eleganza e pudore, mentre sul filo dell’orizzonte si scorge lo splendore freddo di un mare vaporoso disteso immobile sotto la luna. Ma anche l’incapacità umana di comprendere potrebbe essere la protagonista sottile e nascosta di questo racconto,  che  “riluccica“ in questa notte della vita  dove non si ode né un passo, né un mormorio, non un sospiro. Si può soltanto respirare la fragranza di un gelsomino rampicante nell’immobilità apparente della notte,  mentre una morte sta per compiersi sotto il nostro sguardo attonito, come infinite altre nel mondo, da sempre si sono ripetute e continueranno a ripetersi mentre la terra continuerà a girare sul suo asse ancora e ancora. E ancora. Ed un uomo infangato, assetato e solo, con gli occhi lucidi, che ha tentato di continuare a “cantare“ la sua lingua, come un uccello preso al laccio nel pieno della sua vitalità, chiede perché al suo dio misericordioso, perché. E allora torna la figura tozza e ottusa di Amy Foster, i suoi capelli radi, bruni, polverosi annodati dietro la testa e attraverso il suo sguardo miope si compierà la tragedia dell’assurdo, questa morte gratuita e incomprensibile, questa sordità dello spirito nonostante il suo cuore grande.
“..si dovrebbe pensare che la terra sia maledetta, se di tutti i figli questi che le si stringono più da vicino sono sgraziati nel corpo e di portamento così greve come se i loro cuori stessi fossero carichi di catene. Ma qui, su questa stessa strada, avreste potuto incontrare tra questi uomini pesanti un essere flessuoso, agile e slanciato, diritto come un pino, con qualcosa nell’aspetto che tendeva verso l’alto, come se il cuore dentro di lui fosse stato leggero. Forse era solo la forza del contrasto, ma quando egli passava vicino a qualcuno di questi contadini, mi pareva che le suole delle sue scarpe non toccassero la polvere della strada…”  
Stella Marina                                                                                                           

11 Luglio 2015

F U R O R E                   
di John Steinbeck








Nell’ottobre del 2013 è stato finalmente ristampato “Furore“ nella sua edizione integrale. Inutile dire che leggerlo così è stato puro godimento. Non c’è mai una parola fuori posto, o di troppo,  nella scrittura di John Steinbeck. In America uscì nel 1939, con il titolo The Grapes of Wrath ed ebbe subito un successo enorme, strabiliante, che scombussolò la vita del timido e appartato scrittore.  In Italia, fu per  merito di Elio Vittorini la segnalazione del libro  all’editore Bompiani, che per altro ebbe l’intuizione di tradurre il titolo in italiano  con  “Furore”. Furore appunto, questo libro è puro furore. Ed è di un’attualità disarmante. E di una bellezza inesprimibile. Lo si potrebbe cantare col cuore, ad occhi chiusi, più che descriverlo a parole. Un canto antico e doloroso tra cielo e terra. Tra terra e vita. Tra lotta e speranza nel cuore dell’uomo. Per ogni giorno in più di luce su questa terra amara ma bellissima. Per ogni giorno in più di libertà e di pace. Per ogni attimo in più di speranza.
“In the end is the word, in the word is the man, and the word is with man“, disse lo scrittore a conclusione del suo discorso per l’accettazione del premio Nobel, nel 1962, parafrasando il quarto Vangelo. Perchè l’uomo è sempre il vero soggetto, sempre il centro, nell’opera di Steinbeck. Scrisse questo libro in soli cinque mesi dopo la catastrofe causata dal “Dust Bowl“. Di getto. Con tutta l’indignazione possibile. Un grido di protesta contro l’inumanità dell’uomo contro l’uomo. Contadini dell’Oklahoma costretti a migrare, per cercar fortuna, verso il West. La famiglia Joad, come migliaia e migliaia di americani, lungo la Route 66, in marcia verso la California, perché sfrattata dalla sua terra natale. In cerca della nuova terra promessa, che terra promessa mai sarà. L’epopea tragica di questa famiglia costretta a migrare di continuo nell’indigenza più assoluta. Abbandonare la terra amata, le proprie radici, la propria casa. Con un sogno disperato nella testa. Con un’illusione creata da altri uomini pronti a sfruttare la loro debolezza e la loro fame. L’illusione di un sogno per estorcere manodopera al più basso costo possibile. Mentre sulla loro vecchia terra “i nuovi uomini dei trattori“andavano cancellando ogni loro traccia, precludendo loro qualsiasi possibilità di sopravvivenza.
“Egli non amava la terra più di quanto la banca amasse la terra. Poteva ammirare il trattore, le sue superfici levigate, la potenza del suo impeto, il rombo dei suoi cilindri tonanti; ma non era il suo trattore. Dietro il trattore ruotavano dischi scintillanti che squarciavano la terra con le lame: chirurgia, non aratura, con la terra squarciata sospinta a destra, mentre la seconda fila di dischi la squarciava e la sospingeva a sinistra; scintillanti lame taglienti, lucidate dalla terra squarciata. Trainati dietro i dischi, gli erpici rastrellavano con denti di ferro, frantumando le piccole zolle e spianando il terreno. Dietro gli erpici, ecco le lunghe seminatrici – dodici verghe di ferro erette in fonderia, orgasmi regolati da ingranaggi, che violavano metodicamente, violavano senza passione. Il trattorista sedeva sul suo seggiolino di ferro ed era fiero di quelle linee dritte che non dipendevano da lui, fiero di quel trattore che non possedeva né amava, fiero di quel potere che non aveva modo di controllare. E quando quel raccolto cresceva e veniva mietuto, nessun uomo aveva sbriciolato nel palmo una sola zolla, né lasciato stillare tra le dita la terra tiepida. Nessun uomo aveva toccato i semi, o agognato la crescita. Gli uomini mangiavano ciò che non avevano coltivato, non avevano legami con il loro pane. La terra partoriva sotto il ferro, e sotto il ferro a poco a poco moriva, perché non era stata né amata né odiata, non aveva attratto preghiere né maledizione“.
E così si parte, si deve partire, verso quel sogno che la California incarna e promette, verso la lucentezza di quelle case bianche e di tutti quei frutti colorati, verso quell’abbondanza da paradiso terrestre che essa possiede. Il sogno di riuscir a far fortuna, di riuscire a comprare  una di quelle case bianche, di mettersi in proprio, finalmente. Si parte su un camioncino con tutta la famiglia, con tutto quello che si può riuscire a trasportare. Si parte con il cuore gonfio di speranza, bruciando dietro tutti i ricordi, tutto quello che non può essere trasportato. I rimpianti rimarranno agli anziani, che soccomberanno. Ma gli altri, non possono, non devono voltarsi indietro. “Come facciamo a vivere senza le nostre vite? Come sapremo di essere noi senza il nostro passato? No. Tocca lasciarlo qui. Bruciarlo.“ Bruciarlo e ricominciare. “La famiglia si raccolse nel punto più importante , accanto al camion. La casa era morta, i campi erano morti; ma quel camion era la cosa attiva, il principio vivente.” E via, verso la Route 66, la principale strada migratoria, lungo sentiero d’asfalto che attraversa la nazione, serpeggiando dolcemente su e giù per la carta, dal Mississipi a Bakersfield, attraverso le terre rosse e le terre grigie, inerpicandosi su per le montagne, superando valichi e planando nel deserto terribile e luminoso, e dopo il deserto di nuovo sulle montagne fino alle ricche valli della California. “La 66 è il sentiero di un popolo in fuga, di chi scappa dalla polvere e dal rattrappirsi delle campagne…”
“E così cambiarono la propria vita sociale; la cambiarono come soltanto l’uomo sa fare in tutto l’universo. Non erano più contadini, erano emigranti.”
Emigranti in cerca di una terra e di un lavoro. Con la speranza che però ogni nuovo giorno muore a poco a poco durante il cammino . Con l’illusione che si scolora giorno dopo giorno, ora dopo ora. Una realtà che mostra il suo lato tragico e disumano, con una fame che li incalza sempre più prepotentemente. Finalmente giunti nella terra promessa saranno emigranti, e ancor peggio, saranno Okie. Nulla di quello che si immaginavano, nulla di quello che speravano. Una realtà ancor peggiore da quella da cui si erano allontanati, una realtà assai peggiore. “Quei maledetti Okie non hanno cervello e manco cuore. Non sono esseri umani. Un  essere umano non ce la farebbe a vivere come loro. Non ce la farebbero a vivere con tutta quella sporcizia e quella miseria. Quelli sono mica tanto meglio delle scimmie“. Ecco cosa gli aspetta nella nuova terra. Ma loro sapranno resistere, giorno dopo giorno. Con fierezza, con forza. Con estrema dignità. Con  quel  cuore forte e caldo della Madre, che saprà tenere unita tutta la famiglia, nonostante le morti ricorrenti, il dolore profondo, le continue sconfitte e umiliazioni.
“Macchè finita,“ disse Ma’ con un sorriso. “Non è finita per niente, Pa’. E c’è un’altra cosa che sanno le donne. Me ne sono accorta. Per l’uomo la vita è fatta a salti: se nasce tuo figlio e muore tuo padre, per l’uomo è un salto; se ti compri la terra e ti perdi la terra, per l’uomo è un salto. Per la donna invece è tutto come un fiume, che ogni tanto c’è un mulinello, ogni tanto c’è una secca, ma l’acqua continua a scorrere, va sempre dritta per la sua strada. Per una donna è così ch’è fattala vita. La gente non muore mai fino in fondo. La gente continua come il fiume: magari cambia un po’, ma non finisce mai.“
Come questo romanzo, non finisce mai. Entra nel cuore per non lasciarti più, lettore. E ti chiede, ti chiede cuore. E se credi di non averlo più un cuore, se credi che ormai non ti serva più in questo mondo malato, ingiusto, assurdo e incomprensibile, lo sentirai pulsare al di là della tua volontà. Lo sentirai vibrare ad ogni parola, ad ogni immagine, lo sentirai vibrare oltre la tua vita. Lo sentirai pulsare come il primo battito che c’è stato sulla Terra, con quella forza e con quel coraggio. Nonostante tutto. Ancora e sempre.  
                                                                    STELLA  MARINA




11 Giugno 2015



GLI ANNI 
di Annie Ernaux
 L'Orma editore.


Abbiamo solo la nostra storia ed essa non ci appartiene, scriveva Josè Ortega Y Gasset. Ed è con questa consapevolezza che Annie Ernaux traccia sul labile quanto ingannevole filo della memoria,  questo mirabile racconto.
“Non sarà un lavoro di rievocazione nel senso più consueto, ossia volto alla stesura narrativa di una vita, a una spiegazione di sé. Si guarderà dentro solo per ritrovarci il mondo, la memoria e l’immaginario dei suoi giorni passati, per cogliere i cambiamenti di idee, credenze e sensibilità, la trasformazione delle persone e del soggetto, ciò che lei ha conosciuto, ciò che forse non rappresenterà nulla per quanti conosceranno sua nipote, per tutti i viventi del 2070. Stanare dalle sensazioni che sono già lì, ancora senza nome, come quella che la fa scrivere.“
La storia inizia nel 1940, anno di nascita della scrittrice, a Lillebonne, Francia. “Di ciò che il mondo ha impresso in lei e nei suoi comportamenti se ne servirà per ricostruire un tempo comune, quello che è trascorso da un’epoca lontana sino ad oggi, per restituire, ritrovando la memoria della memoria collettiva in una memoria individuale, la dimensione vissuta della Storia“.
Tutte le immagini scompariranno. La nostra memoria è al di fuori di noi, in un soffio piovoso di tempo, scrive Annie Ernaux nelle prime pagine del libro. Attraverso la grana antica color seppia, un po’ sfocata, di vecchie fotografie, parlando in terza persona, svincolata quindi dalle sensazioni e dalle emozioni di un io che probabilmente avrebbe raccontato la storia in un altro modo, la scrittrice si ricrea, salvando dall’oblio ciò che gli anni hanno già cancellato, ricostruendo se stessa nel suo fluire nel  grande corso della Storia, ritrovando le coordinate di una vita. Così non solo scrive un romanzo autobiografico ma insieme scrive una cronaca collettiva di quel mondo nato dalla Seconda guerra mondiale, in una perfetta fusione tra voce individuale e  grande coro della Storia. Una autobiografia “impersonale“ che affonda lo sguardo nei grandi Eventi, quelli che hanno trasformato il mondo e che continuamente lo trasformano. Non esiste vita individuale al di fuori della storia, lo sguardo è sempre rivolto al  fuori, ai grandi fatti.  La Liberazione, Algeri, de Gaulle, il ’68, l’emancipazione femminile, Mitterand. Il consumismo che diviene uno  stile di vita, le tentazioni subdole e sempre presenti del conformismo, l’avvento di internet, l’11 settembre. Tutti i grandi eventi dagli anni ’40 fino al 2008 che hanno attraversato la Francia e tutto il mondo. All’interno di questi fatti si muove e si plasma  la vita individuale, la sua storia di donna. L’infanzia, l’adolescenza, la scoperta del sesso. L’amore, la maternità. La famiglia, l’amicizia, l’abbandono. Il lavoro. E quindi i sogni, le speranze, le delusioni. I viaggi. Il divorzio. La morte, la malattia. La rinascita del desiderio. La nascita dei nipoti. Tutta una vita che riaffiora e cerca voce. Qualcosa del passato andrà perduto per sempre, qualcosa invece si salverà in quell’arca segreta dei ricordi e delle emozioni. Tutto mescolato insieme dalla somma degli anni. Vecchie foto a testimoniare dei passaggi, utili punti di riferimento per riappropriarsi del passato, per riviverlo ancora una volta, captando il riflesso proiettato sullo schermo della memoria, prima di lasciarlo scivolare sulle pagine del suo libro, a tracciare una storia, un percorso di vita, l’impronta di un’epoca. A tracciare questa splendida autobiografia impersonale. Diversi momenti della sua vita, fluttuanti l’uno sull’altro, in quel tempo in cui passato e presente si sovrappongono, dove le sembra di raggiungere fuggevolmente tutte le forme dell’essere che è stata. “La distanza che separa il passato dal presente si misura forse dalla luce che scivola sui volti, proietta le ombre, disegna le pieghe di un vestito di una foto in bianco e nero; dalla sua chiarezza crepuscolare, qualsiasi sia l’ora in cui è stata scattata.“
“Tutto si cancellerà in un secondo. Il dizionario costruito termine dopo termine dalla culla all’ultimo giaciglio si estinguerà. Sarà il silenzio, e nessuna parola per dirlo. Dalla bocca aperta non uscirà nulla. Né io né me. La lingua continuerà a mettere il mondo in parole. Nelle conversazioni attorno a una tavolata in festa saremo soltanto un nome, sempre più senza volto, finchè scompariremo nella massa anonima di una generazione lontana“.
E allora attraverso la scrittura Annie Ernaux disegna la “forma“ della sua vita, ne traccia i contorni e i chiaroscuri, scrive per la sua futura assenza, stanando delle sensazioni che sono già lì, da sempre, ancora senza nome. In un fluire ininterrotto, come un fiume in piena, prima che l’oblio cancelli e si porti via tutto. Salvare qualcosa del tempo in cui non saremo mai più.
“Mi sono appoggiata alla bellezza del mondo
e ho tenuto l’odore delle stagioni tra le mani“.
                                                                                           Stella Marina

11 Maggio 2015

CON BORGES
di Alberto Manguel,                        



Per qualche anno, dal 1964 al 1968, Alberto Manguel, allora ancora giovane studente, ebbe la fortuna di “leggere“ per Jorge Luis Borges. In quel periodo  il grandissimo  scrittore aveva già perduto completamente la vista, così, per poter continuare a leggere, doveva farsi aiutare da giovani volenterosi. Un grande privilegio, in verità. Questo piccolo delizioso libro è un omaggio a quel periodo e soprattutto un omaggio al grande Maestro.

Alberto Manguel è  uno scrittore argentino,  ha vissuto in vari paesi europei, ma anche in Canada e a Tahiti. Attualmente risiede in Francia. Proprio in Francia è finalmente riuscito a esaudire un suo meraviglioso sogno, che coltivava da anni. Ha restaurato un antico granaio del XV secolo, appollaiato su una collinetta a sud della Loira e qui ha raccolto la sua  pressoché infinita collezione di libri che prima teneva sparsa e un po’ ovunque nelle varie stanze della sua abitazione. E finalmente  una vera, meravigliosa, biblioteca. “Di notte, quando le luci della biblioteca sono accese, il mondo esterno scompare e non v’è nulla che rimanga in vita, se non questo spazio di libri. Per qualcuno che guardasse da fuori, dal giardino, la biblioteca di notte appare come un grande vascello nell’oscurità, con le finestre illuminate e le seducenti file di libri, la biblioteca si presenta come uno spazio chiuso, un universo regolato da norme proprie che fingono di rimpiazzare o di tradurre quell’informe universo che sta all’esterno…(…).

“Allora, leggiamo Kipling stasera ?”, domanderà il sessantenne Borges al giovane Manguel appena lui si appresterà a varcare  la soglia della sua casa. Per un giovane già toccato dal sacro fuoco della Letteratura, quelle serate avranno  sicuramente avuto il sapore del miracolo, una sospensione dalla realtà in uno stato di grazia. Conversazioni interminabili sui libri e sui loro possibili ingranaggi, la citazione  di autori sconosciuti ai più ma che Borges conosceva molto profondamente e che raccontava alla giovane mente di Manguel, pronta ad assorbire ogni cosa. “Idee che non mi erano venute in mente o avevo intravisto in modo incerto e sfuggente, ma che nella voce di Borges scintillavano e abbagliavano, rivelando tutto il loro ricco e in qualche modo evidente splendore. Non prendevo appunti perché in quelle sere mi sentivo appagato. Fin dalle prime visite l’appartamento di Borges mi sembrò esistere fuori del tempo, o meglio in un tempo costituito dalle esperienze letterarie di Borges, un tempo scandito da epoche diverse: l’Inghilterra vittoriana ed edoardiana, l’Alto Medioevo nordico, la Buenos Aires degli anni Venti e Trenta, l’amata Ginevra, l’espressionismo tedesco….” 

E così, pagina dopo pagina Manguel ci fa conoscere un Borges intimo, sconosciuto, rendendocelo più vicino, più accessibile, più umano. La sua profonda e sottile ironia, l’amore per l’epopee,  per i  romanzi polizieschi. L’occhio indugia e si sofferma  sui particolari; la camera piccola e semplice quasi  monacale, un tavolino con sopra  una coppa antica da mate ereditata dal nonno, alcuni quadri della sorella Norah, una scrivania in miniatura della madre. Dettagli, piccoli indizi per avvicinarsi a Lui. Ci si sarebbe aspettati di “vedere“ una casa stracolma di libri, visto che Borges si immaginava il Paradiso“ sotto la specie di una biblioteca“, ma la sua casa conteneva solo l’essenziale, solo quello che veramente contava per lui, e che rileggeva di continuo. Le amate enciclopedie, dove immaginava di “seguire il corso dei fiumi sulle loro carte e di scoprire ogni volta cose meravigliose“. Naturalmente Chesterton, Stevenson, Kipling e Henry James, Marcel Schwob. Il Don Chisciotte, in una prestigiosa edizione, rilegato con una copertina di pelle rossa. E molta molta poesia.  Leopoldo Lugones. Josè Hernandez. Certo tanti libri, ma non così tanti quanti ci saremmo aspettati di trovare nella sua casa. Dotato di una prodigiosa memoria, tutto quello che aveva letto e scritto nella sua vita, era conservato intatto nella sua mente, non aveva bisogno di posseder libri, erano tutti dentro di lui. Era in grado di recitare, correggere e modificare a memoria. Mancavano però all’appello nelle sue librerie, i suoi libri. Neppure un libro firmato da lui, da Jorge Luis Borges. Nemmeno uno. Diceva infatti con orgoglio di non possedere un solo volume che portasse il suo nome “eminentemente dimenticabile“. Per lui importante erano i libri che aveva letto, non quelli che aveva scritto. Ma se non li avessi scritti, il nostro mondo letterario sarebbe infinitamente  più povero, non saprei immaginare il mio, senza la sua imprescindibile e illuminante  presenza. Manuel Mujica Laìnez, scrittore di una generazione più giovane rispetto a quella di Borges scrisse: “E’inutile che coltivi l’idea di progredire, perché anche se scrivessi una marea l’ha già scritta Borges.”

Un piccolo libro questo, che parla della grande Letteratura e di un geniale Scrittore. “Ci sono scrittori che tentano di mettere il mondo in un libro. E ce ne sono altri, più rari, per i quali il mondo è un libro, un libro che cercano di leggere per sé e per gli altri“. Borges, senza dubbio, appartiene a questi ultimi. Borges è il simbolo stesso della letteratura, come scrisse di lui Roberto Calasso.

"La poesia di Borges è l’incanto di un attimo in cui le cose sembra stiano per dirci il loro segreto", dice Claudio Magris. E allora, socchiudendo per un attimo  la porta del suo appartamento, godiamoci questo incanto, ringraziando Alberto Manguel, che intanto continua a raccontarci…

“ Tutte le cose sono parole della lingua in cui Qualcuno o Qualcosa,
notte e giorno, scrive quell’infinito guazzabuglio che è la storia del mondo.

Nel suo vortice passano Cartagine e Roma, io, tu, lui, la mia vita che non capisco,
quest’agonia di essere enigma, caso, criptografia e tutta  la discordia di Babele.

Dietro il nome c’è quel che non si nomina;
oggi ho sentito gravitare la sua ombra su questo ago azzurro, lucido e lieve,

che verso il confine di un mare tende il suo zelo,

che qualcosa di un orologio visto in sogno

e qualcosa di un uccello addormentato che si muove “


(Jorge Luis Borges)

                                                                                Stella Marina


11  Aprile  2015

                IL CENTAURO
John Updike

ll Centauro è stato pubblicato nel 1963. E' stato il terzo romanzo di John Updike con il quale ottenne il prestigioso premio letterario National Book Award. Accusato spesso dalla critica per l'esilità delle sue trame, per la mancanza di una vera volontà di agire dei suoi personaggi ed anche di significato, per quelle derive nostalgiche dalle quali spesso si lasciava volentieri prendere la mano, per una presunta miopia dello sguardo concentrato unicamente su una scrittura ombelicale. Accusato di tralasciare i grandi temi sociali e i conflitti dell'America del secondo Novecento, di un eccessivo abuso di sperimentalismo linguistico. Questo libro però incanta e lascia senza parole, forse proprio perché qui, tutti questi motivi sottolineati negativamente dalla critica, divengono invece monumentali punti di forza, di cambiamento, di modernità. Un rovesciamento di intenti, di propositi, ma che portano verso quell'uomo del Novecento fragile, impaurito, impotente, umano. Sarà pur vero che la sua scrittura si muove e si struttura tra i due poli opposti della grande narrazione e la divagazione narcisistica, tuttavia quello che lo scrittore riesce a compiere con questa sua opera è un perfetto e irripetibile equilibrio tra forze opposte. Un magico bilanciamento di forze contrarie da cui si genera spontaneamente, per implosione, il personaggio romanzesco. L'individuazione di una realtà altra, di un altrove partorito da quell'incontro tra il mito e la realtà, in quella terra di nessuno, solitaria ma imprescindibile, nell'alternarsi tra realtà e finzione. Tutto questo non fa che caricare la narrazione di tensione emotiva, molto spesso regalandoci pagine di pura commozione. In quel luogo di reciproco incontro, di continue contaminazioni, il comico e il tragico trovano il loro punto di fusione. Come pure lo trovano la dimensione mitologica e quella reale, del quotidiano. E' con questo volto bifronte continuamente cangiante che George Caldwell, professore di scienze presso una scuola superiore di una cittadina della Pennsylvania, protagonista tragicomico del libro, questo eroe "che combina il bene e la sua assenza in un modo interessante e spesso comico", attraversa la nostra immaginazione, cogliendola spesso impreparata ad assorbire le sue metamorfosi continue in quel suo viaggio chiamato vita. Lasciandoci felicemente alle spalle ogni possibile critica e giudizio, si entra nel territorio fertile e innovativo di una cifra personale, nella scrittura viva ed unica di un uomo che ha saputo incarnare nella sua opera letteraria la solitudine triste e senza consolazione di un uomo nel mezzo del suo cammino, un uomo incapace di dirigere altrove la  sua vita quando ormai era chiaramente diventata un fallimento. Dentro quel fallimento lo scrittore sosta fino alla fine, fino all'ultimo istante, sospendendo il suo personaggio tra terra e cielo, tra comicità e tragedia, quindi nel cuore della vita. "C'è troppa gente che studia le mappe, e troppa poca che visita davvero i luoghi che vi sono segnati", dice Updike. George Cadwell è un moderno Chirone , il più nobile tra i centauri, che secondo la mitologia, implorò gli dei di donargli la morte per espiare la colpa di Prometeo. Lambisce di continuo la morte Caldwell, la cerca, la accarezza, la invoca, solo alla fine la troverà nella sua metamorfosi definitiva. Sarà il figlio sedicenne Peter, amante di Vermeer e colpito da una fastidiosa psoriasi, a raccogliere queste tracce del padre, quasi come se lui stesso fosse il padre di suo padre. Un figlio che è anche padre, eppur sempre figlio. Nuovamente figlio in quella dimensione irreale del sogno, in quello scarto di annullamento generazionale, dove le distanze si azzerano e padre e figlio nuovamente si incontrano, si amano, aldilà della vita, aldilà di ogni reciproca aspettativa, aldilà di ogni difetto o possibile mancanza. La scrittura diventa lirica, si apre in spirali, in vortici di poesia pura. Non so esattamente dire dove questo romanzo mi abbia portato, ancora dopo averlo terminato da alcuni giorni non lo so, mi lascio trascinare nella sua risacca, lambire dai suoi continui accerchiamenti, dell'onnipotenza dei suoi virtuosismi. Non so quanto ancora continuerà a lavorare dentro di me, a risplendere e a trascinarmi là, in quell'altrove, dove il cuore batte forte, ancora più forte, mentre la mano indica con precisione quel punto luminoso nel cielo: L'Alfa del Centauro. L'Alfa del Centauro dista da noi trecentosettemilaottocentoquarantatre miliardi di chilometri. Là quel "chiassoso altruista" di Caldwell, quell'arciere splendente, tra le stelle.

"Zeus aveva amato il suo vecchio amico, e lo innalzò, e lo pose tra le stelle: la costellazione del Sagittario. Là, nello Zodiaco, ora al di sopra, ora al di sotto dell'orizzonte, egli contribuisce a regolare i nostri destini, anche se in questi ultimi tempi ben pochi mortali tra i viventi alzano gli occhi al Cielo con rispetto, e in numero anche minore sono coloro che studiano le stelle".                            John  Updike

"Il cielo è la creazione inconcepibile all'uomo, la terra la creazione per lui concepibile. L'uomo è la creatura al limite tra cielo e terra".                                                             Karl  Barth
                                                                  Stella Marina
11  Marzo  2015 
FAHRENHEIT  451
di  Ray  Bradbury
 

Montag, il protagonista di questo libro, di lavoro fa il pompiere. Ma è un pompiere molto particolare, che  non è chiamato a spengere gli incendi, bensì ad appiccarli. Lui, insieme a tutti gli altri suoi colleghi, ha il dovere di irrompere nelle case dei sovversivi, e per sovversivi qui si intende chi in casa conserva e custodisce libri, carta stampata. Deve dar fuoco, con il testa il suo elmetto color coleottero, ad ogni libro che trova, ridurlo in pulviscoli di cenere e dar fuoco anche alla cenere. Che non rimanga neppure una parola. Che tutto vada bruciato, perché la lettura porta l’infelicità. Si organizzano veri plotoni di esecuzione a caccia di quelle poche persone che si nascondono, che ancora cercano di resistere, conservando, proteggendo libri. L’incipit ha una potenza straordinaria e crea una tensione che Bradbury sarà in grado di mantenere fino all’ultima pagina del romanzo. Un autentico capolavoro. 
“Era una gioia appiccare il fuoco. Era una gioia speciale vedere le cose divorate, vederle annerite, diverse. Con la punta di rame del tubo fra le mani, con quel grosso pitone che sputava il suo cherosene venefico sul mondo, il sangue gli martellava contro le tempie, e le sue mani diventavano le mani di non si sa quale direttore d’orchestra che suonasse tutte le sinfonie fiammeggianti, incendiarie, per far cadere tutti i cenci e le rovine carbonizzate della storia. Col suo elmetto simbolicamente numerato 451 sulla solida testa, con gli occhi tutta una fiamma arancione al pensiero di quanto sarebbe accaduto la prossima volta, l’uomo premette il bottone dell’accensione, e la casa sussultò in una fiammata divorante che prese ad arroventare il cielo vespertino, poi a ingiallirlo e infine ad annerirlo. Egli camminava dentro una folata di lucciole .
Fu pubblicato a puntate nel 1953 sulla rivista Playboy, perché nessun editore americano in quella particolare congiuntura storico-politica, in cui ancora si allungava l’ombra nera del maccartismo, se la sentiva di pubblicare un libro così scottante. Fu tradotto nel nostro paese tre anni più tardi. Il titolo allude alla temperatura di autocombustione della carta. Distruggere libri è distruggere l’individualità dell’uomo, la sua libertà, la sua capacità di pensare, di creare. Montag è un personaggio triste, assolutamente risucchiato da una quotidianità che non lo lascia pensare, decidere, ma lo inghiotte totalmente in un sistema al quale lui deve solo obbedire. Ha una moglie che trascorre tutta la giornata davanti alla televisione, interamente soggiogata dal suo potere di convincimento-ottundimento. La televisione è per lei l’unica realtà, la vera realtà.  Schermi giganteschi  occupano ben tre pareti del salone,  lei spera di poter aggiungere molto  presto il quarto schermo a ricoprire così l’intera stanza. Ancora persone? Non più. Esseri incapaci di stabilire  relazioni profonde,  capaci soltanto  di rispondere  alle esigenze che un potere più o meno occulto forgia per loro, assieme ad ogni loro desiderio. Una tecnologia sempre più presente, invadente, che priva l’uomo della sua capacità raziocinante. Un romanzo distopico di una chiaroveggenza impressionante. Un libro che affonda le sue radici nel male, nel potere, per estirparlo con la luce della scrittura, della lettura. Chi legge è libero, libero di formarsi la propria idea, libero e capace di sostenerla. Libero di scegliere. Ogni volta che si incendiano libri, si spenge la vitalità dell’uomo, la sua verità unica e profonda. La sua storia. “Dovunque si bruciano libri, si finisce per bruciare anche gli uomini“, scrisse Heinrich Heine riferendosi ai Bucherverbrennungen del 1933 nella Germania nazista.
“E’ un bel lavoro, sapete. Il lunedì bruciare i luminari della poesia, il mercoledì Melville, il venerdì Whitman, ridurli in cenere e poi bruciare la cenere. E’ il nostro motto ufficiale“, racconta Montag a Clarisse. Clarisse, una ragazza di diciassette anni che il nostro protagonista   incontra una sera passeggiando, prima di rincasare, dopo la sua giornata di lavoro.  Si sofferma a parlare, perché aver udito il  respiro di lei, è come, è come….. lui non sa spiegarselo, cos’è. La felicità, forse. C’è qualcosa in lei che lo trattiene. Quell’incontro  sgretolerà una ad una le  “sue“ certezze. Una piccola luce che si fa strada, pulsando intermittentemente  nel suo buio, vuoto interiore. Lentamente va a toccare le corde più sensibili e nascoste, dimenticate, della sua interiorità. “Egli ebbe la sensazione che la ragazza gli camminasse intorno come in circolo, costringendolo a fare un giro completo su se stesso, scuotendolo dolcemente, placidamente, vuotandogli le tasche, senza muoversi una sola volta su se stessa“. Quest’incontro segnerà un passaggio nella vita di Montag, sarà una sorta di iniziazione alla ricerca di sé. Una presa di coscienza. Un risveglio. Ma non svelerò oltre, perché non voglio togliere al lettore l’emozione diretta con questo libro. Che è forte. Potentissima. Vitale. Solo questo, per concludere. Un tocco da maestro: “Un volume scese, quasi docilmente, come un colombo bianco, tra le sue mani, le ali tremule. Nella luce fioca, vacillante, una pagina rimase aperta e ferma ed era come una pinna nivea, con le parole delicatamente dipintevi sopra. In tutta quella confusione, in tutta quella fretta, Montag ebbe soltanto il tempo di leggere una riga, ma quella riga gli fiammeggiò nella mente nel minuto successivo come se vi fosse stata impressa con ferro rovente“         
Non si può non leggere questo libro. Questo libro va letto. Lentamente se possibile, parola dopo parola. E non accontentarsi di guardare il film, seppur molto bello, di Francois Truffaut. No, no, questo è un libro che deve essere letto, sentendoselo vivere, pagina dopo pagina, nei polpastrelli, quasi come a ricrearlo. Sentendoselo scorrere nel sangue e pulsare nella mente. Ascoltando il melodioso frusciare delle sue pagine. Lasciarlo vivere nel cuore, là dove si annidano i nostri sogni più vivi. Godendo di tutta quella gioia e passione con le quali l’autore l’ha scritto. Un grande libro. Chapeau.
                                                              Stella Marina


11  Febbraio  2015


Una questione privata
di Beppe Fenoglio
  
Milton era un brutto: alto, scarno, curvo di spalle. Aveva la pelle spessa e pallidissima, ma capace di infoscarsi al minimo cambiamento di luce o di umore. A ventidue anni, già aveva ai lati della bocca due forti pieghe amare, e la fronte profondamente incisa per l’abitudine di stare quasi di continuo aggrottato(…)“

Fenoglio scelse per il protagonista di questo romanzo, il nome di Milton, lo stesso nome dell’autore di Paradiso perduto, il poema sulla caduta e sulla rigenerazione dell’uomo. Affascinante gioco di rimandi letterari e di significato. Milton è un giovane ragazzo, partigiano sulle  Langhe, studente universitario, imbevuto di letteratura e di cultura inglese. Innamorato di Fulvia (non sapremo mai se corrisposto),  che il suo amico del cuore Giorgio gli aveva presentato  poco prima che si unisse alle fila dei partigiani “azzurri“. Fulvia gli appare subito come un’apparizione, “come una perla mimetizzata nelle alghe“, dagli occhi “caldo nocciola, pagliettati d’oro“. Forse anche Giorgio è innamorato di Fulvia. Forse Fulvia è innamorata di Giorgio. Forse i due si sono amati senza che lui lo sapesse, mentre lui continuava a credere di essere corrisposto. Un racconto d’amore e di struggimento amoroso, che sta nel “fitto“ della guerra civile, come disse lo stesso autore. Una questione privata, dove “questione“ è il continuo interrogarsi di Milton su se stesso, nella ricerca disperata di una verità alla quale aggrapparsi o dalla quale difendersi. Un amore che diventa ossessione mentre una guerra assurda si muove costantemente attorno a lui, una guerra dove i “vecchi“ hanno trent’anni e dove le staffette di appena quattordici anni, devono soccombere al nemico. Una villa solitaria sulle colline di Alba, come punto costante di riferimento, che Fulvia sfollata aveva abitato, luogo in cui è sbocciato l’amore nella primavera del ’42, alla quale Milton tornerà ancora, più volte, nel corso della storia, in cerca di ricordi e di risposte. Un romanzo circolare che riporterà il protagonista sempre al punto di partenza ma con animo mutato dagli eventi e dalla disperazione della guerra. Una circolarità che segna alla fine  un punto di non ritorno; nulla potrà più essere come prima. Nulla avrà più l’incanto dell’origine. Un lungo e doloroso apprendistato che forse si conclude con la salvezza, senza però alcuna risposta, senza alcuna verità da esibire. “Solo“ la percezione potente della vita, di essere in vita e sentirsela scorrere addosso tutta, nella sua interezza in quella sua instancabile e interminabile corsa verso la salvezza. Una chiusa da brivido dopo l’irrompere di una narrazione “di forza e di istinto“,  realistica e sublime al tempo stesso.
“Sono  vivo. Fulvia. Sono solo. Fulvia, a momenti mi ammazzi.“ Quella  folle ricerca di risposte, di verità, di voler sapere a tutti i costi, pone Milton davanti a tutta la sua vulnerabilità, mettendolo pericolosamente faccia a faccia con il nemico, un nemico pronto a ucciderlo, che non aspetta altro che ucciderlo. Una fuga magistralmente descritta in quella natura spesso ostile e protagonista, sempre presente nel romanzo. Un paesaggio interamente calato sulla tensione narrativa. Pesante la pioggia, triste il vento, lugubre la nebbia, insidiosa la strada, sofferente la terra...
“Tu non dai giudizi espliciti, ma come dev’essere, la morale è tutta implicita nel racconto, ed è quanto credo debba fare lo scrittore“, scrisse in una lettera Italo Calvino all’autore. Fenoglio racconta i fatti senza cedere alla retorica dei fatti, questa la forza dirompente di questo libro e la possibilità che offre al  lettore di potersi immedesimare completamente, empaticamente, sentimentalmente con il narrato. Questo romanzo  ruota attorno a temi umani e profondi quali l’amore, l’amicizia, la fragilità, l’eroismo, la viltà, la tenerezza, la vendetta. Rimangono gli interrogativi ultimi e profondi dell’uomo. Un grande, grandissimo romanzo di un autore “brado“ e atipico, “l’unico vero irregolare delle lettere italiane“, come lo definì Pietro Citati. Pubblicato postumo, subito dopo la morte dell’autore, con un titolo apocrifo dato da Italo Calvino. Libro commovente e bellissimo.
                                                                                    Stella  Marina

11 Gennaio 2015                                                  
Musica Distante
di Emanuele Trevi




Emanuele Trevi ha scritto un libro bellissimo. Musica distante. Meditazioni sulle virtù. E la sfida alla quale cerca di rispondere con questo testo, sfida che supera egregiamente, è: può la grande letteratura aiutarci a vedere l’invisibile? Utilizzando come “griglia“ il sistema delle virtù cardinali e teologali. Trevi crea un catalogo di illuminazioni, passando attraverso autori della grandezza di Dante, Apuleio, Leopardi, Virginia Woolf, Conrad e Dostoevskij, Joyce e Melville, Yeats e Rilke,  autori che sono stati eletti “numi tutelari“ di questo viaggio nella fede, speranza, carità, prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, ”queste sette sorelle che provengono da una perfetta fusione della cultura pagana e cristiana“. Parole che sembrano sull’orlo del definitivo tramonto, a cui Trevi ridona  senso e  vigore, riportandoci all’origine della tradizione letteraria occidentale.
“Si tratta di incamminarsi in quella terra di nessuno (waste land disposta a improvvise fioriture) nella quale il desiderio di bellezza e l’esigenza di giustizia inducono a ridefinire senza tregua i confini dell’identità, coinvolta in una interminabile migrazione attraverso tutte le forme possibili della vita, tutti i paesaggi contenuti nella vastità della terra che abitiamo, tutti i sogni che rimangono ancora da sognare. E’ a lettori incamminati in questa stessa direzione , e solo a loro, che questo libro si augura di finire in mano, strada facendo“.
Interrogando i suoi numi tutelari proprio come veri e propri oracoli, Trevi si chiede cosa significhino oggi le parole carità, prudenza, temperanza, alla luce del nuovo linguaggio e della nuova realtà storica, in quell’inarrestabile moto di gravitazione verso l’ insensatezza, e compie un viaggio à rebours, per risalire, “come l’anguilla di Montale“, verso la promessa di significato. Libro consigliatissimo, soprattutto in questi tempi bui.

“L’anguilla, la sirena dei mari freddi
che lascia il Baltico per giungere ai nostri mari,
ai nostri estuari, ai fiumi che risale in profondo,
sotto la piena avversa, di ramo in ramo
e poi di capello in capello, assottigliati,
sempre più addentro, sempre più nel cuore
del macigno, filtrando tra gorielli di melma
finché un giorno una luce scoccata dai castagni
ne accende il guizzo in pozze d’acquamorta,
nei fossi che declinano dai balzi
d’Appennino alla Romagna;
l’anguilla, torcia, frusta, freccia d’Amore in terra
che solo i nostri botri o i disseccati ruscelli pirenaici
riconducono a paradisi di fecondazione;
l’anima verde che cerca vita là dove solo
morde l’arsura e la desolazione,
la scintilla che dice tutto comincia quando tutto
pare incarbonirsi, bronco seppellito;
l’iride breve, gemella di quella che incastonano i tuoi cigli
e fai brillare intatta in mezzo ai figli dell’uomo,
immersi nel tuo fango, puoi tu non crederla sorella?“

          Stella Marina




11 Dicembre 2014
                                                      
Che fine faranno i libri
di Francesco M. Cataluccio
 


Questo è un libricino veramente minuscolo, neppure da tasca, ma da taschino. Però è un libro che mi sta molto a cuore, essendo amante e collezionista di libri cartacei. Quindi sapere la sorte che attenderà i libri nei prossimi anni mi interessa molto. Sono reduce da una full immersion alla fiera della piccola editoria che si tiene ogni anno a Roma al Palazzo dei Congressi, “Più libri, più liberi“. Entrare e vedere quella distesa infinita e palpitante di carta mi ha molto confortato. Lo sforzo che piccole case editrici sostengono per portare avanti i loro sogni letterari è spesso commovente. Una genuinità che lascia ben sperare, nonostante i mille ostacoli e la concorrenza improponibile con le grandi case editrici che troppo spesso condizionano le scelte in libreria. Anche non volendo, sulle pile gigantesche assemblate strategicamente una sull’altra, uno ci sbatte per forza il naso. E non è bello.
Francesco Cataluccio è prima di tutto un grande scrittore e amante del cartaceo. Affrontare insieme a lui questo viaggio nel futuro libresco è veramente piacevole e interessante. Ricordo di lui il bellissimo “Vado a vedere se di là è meglio“ e l’altrettanto affascinate “L’ambaradan delle quisquiglie“. Eh si sa, un libro tira l’altro. Un libro è un mondo in espansione, che contiene suggestioni infinite. Echi di altre letture che segretamente vanno a interagire tra di loro in quel luogo occulto e segreto che si trova tra mente e cuore. Il suo viaggio inizia con queste parole: “Ho qui accanto a me il nemico“. Una scatoletta grande come un libretto tascabile, inaspettatamente leggera, dal colore incerto di un’alba invernale. E’ un oggetto piuttosto elegante e sottile: appena 9 millimetri di spessore…”. Si chiama Kindle e lo ha prodotto il più grande venditore di libri al mondo: Amazon. Kindle non è un libro ma un potente apparato di lettura. Potentissimo. Già nelle grandi librerie, stanno scomparendo migliaia di titoli. Vanno ordinati e c’è un tempo più o meno lungo di attesa, se va bene. “Dal libro di carta alla macchinetta che riproduce sullo schermo il libro, c’è lo stesso salto che ci fu tra il concerto dal vivo e il disco", cioè, come diceva Andrè Gide, "la stessa differenza che c’è tra guardare una farfalla che svolazza e vederla imbalsamata.“ Non è che io sia un brontosauro ostinato e contrario, mi rendo perfettamente conto dei vantaggi che la nuova editoria elettronica propone. La divulgazione a basso costo di un libro, fare libri costerà molto meno, la reperibilità di titoli introvabili, la possibilità di costruirsi una infinita libreria virtuale. Molti mestieri legati alla filiera riproduttiva andranno però scomparendo, mentre la figura dell’editore rimarrà ancora centrale nella scelta, sollecitazione, produzione di opere. Il nuovo modo di leggere si aprirà alla possibilità di inventare ipertesti e l’interazione con l’immagine e i suoni proporranno un nuovo modo di leggere un libro. Certo questo mi incuriosisce e mi mette al passo con i tempi, con le nuove generazioni. L’e-book permetterà di tenere un discorso senza imporlo. Il lettore non sarà passivo ma interagirà attivamente sul testo, riuscendo a modificarlo.  Però le domande e i dubbi sono infiniti, un argomento che meriterebbe molte digressioni e approfondimenti. La rete è per sua natura “democratica“, ma non tutto quello che vi si trova ha lo stesso valore. Riuscire a selezionare sarà sempre più complicato e difficile, a fronte di una proposta praticamente infinita e indistinta. Per questo sarà importante per il fruitore poter andare a colpo sicuro, avere una buona dose di certezza che il testo che sta per leggere sia affidabile sotto tutti gli aspetti.
Forse i due modi di lettura, per noi romantici del cartaceo, potranno convivere per lungo tempo. Non mi chiudo al nuovo, ma non vorrei privarmi mai, per nulla al mondo, dal piacere che mi procura il fruscio di un libro di carta, il sottile rumore di una matita che sottolinea una frase, l’odore  di una pagina appena letta. Forse non sarò democratica, ma vedere i miei libri pacificamente sistemati nei loro scaffali, mi dona un senso di benessere. La loro anima e la mia, palpitano all’unisono. Anni di frequentazioni reciproche, di incursioni notturne, di segreti svelati,di lacrime sospese. Fisicamente sono presenti, sono nella mia vita, e io li amo. E spero con tutto il cuore nella loro sopravvivenza, ingombrante ma insostituibile.
                                                                                                     Stella Marina



11 Novembre 2014

La morte del folletto      

di Anna Maria Ortese



‘I libri, la scrittura, l’invenzione… sono ricordi e malattie dell’intimo. I libri sono ferite dell’anima. L’ostrica costruisce perle vere, io forse no, le mie sono forse perle false. Però questo so fare. La perla è la malattia dell’ostrica. Scrivere è una malattia; mi costano molto queste cose luccicanti che cerco di costruire’.    ( Anna Maria Ortese )

Anna Maria Ortese, Sibilla di quell’antro oscuro e misterioso che è la scrittura, è stata sempre molto schiva, vivendo una vita ritirata, abitando solo e completamente la sua scrittura che è stata la sua vera e unica casa, lei nomade nel mondo senza radice alcuna. E’ ai suoi libri che ha affidato tutta se stessa, la sua meravigliosa visionarietà. Ci ha lasciato molte perle “luccicanti“ lungo il suo cammino terrestre e non le saremo mai riconoscenti abbastanza . 
La morte del Folletto è una brevissima novella, che inaugurò nel 1985 l’appena nata casa editrice Empiria, con il numero uno della collana. E’ una Favola non scritta e pensata per bambini ma per adulti. Può essere letta in realtà a qualsiasi età, senza perdere minimamente la sua magia, senza perdere niente di quell’incanto disincantato che attrae nel suo gorgo con una forza magnetica, irresistibile. Dalla dicotomia tra una realtà, vissuta e sentita come malvagia, un  mondo come  forza ignota, tremendo e brutale nel suo esistere e nel suo farsi,  e quella sua ostinata resistenza, il suo tenace isolamento in cui si rinchiuse,  come prigioniera in un palazzo, nascono molte delle sue migliori pagine. L’invenzione letteraria come massima resistenza in quello spirito tragico del Novecento. “Ogni tanto, di notte o verso l’alba, mi sveglio con un dolore che è il più disperato e intollerabile di tutti quelli che ho conosciuto. Non so dove mi trovo…Dove, sia collocato l’universo, ecco cosa non so. Né come si chiami. E che cosa sia, e di chi sia. Da anni, mi pare, l’idea di queste infinite strade stellari mi si presenta la notte, e mi fa gelare, sognare, tremare. Dove sono? Chi – io – fra miriadi di abitanti la Terra, da ogni tempo Cosa, la Terra, fra miriadi di pianeti, di soli, e che cosa questa galassia fra le altre galassie… (…). 
Uno stato di malessere, una martellante violenza strisciano come  fuoco perpetuo  su tutta la Terra. La vita appare insopportabile per le reiterate violenze tra popoli e nazioni che sembrano non esaurirsi mai. La Storia sembra non aver insegnato niente all’uomo. Con questo stato d’animo e in una Genova toccata dalla grazia di una abbondante nevicata, nasce la “Morte del Folletto“, la ballata triste di questo minuscolo esserino, Stellino, alto non più di un bambino di pochi anni, quasi una bambola, con le gambe simili a quelle di una lepre dorata. Tonda la testa e orecchie a punta, alte e nere. Occhi dello splendore del cristallo, “dolce mestizia all’opale e all’ametista“, pieni di pianto. Una figura dolcissima, uno spirito del tempo che non riesce a comprendere  la cattiveria e la volubilità umana. Che non si rassegna e preferisce lasciarsi morire piuttosto che constatare il disamore, l’abbandono e la crudeltà. “Un essere tutto innocente e sballato“ che aveva più di centododici anni. Chi era veramente questa creatura? Gnomo, fata, elfo, angelo del cielo? Apparentemente assomigliava a uno scoiattolo di luna, con due stelline ai lati degli occhi, stelline impercettibili, che si elevavano, fuggivano, come memorie, come angeli del passato. Per cappotto, una vecchia mantellina fatta di vecchi fogli di giornale, sui quali ancora spiccavano i titoli di una recente guerra mondiale. In lui lo Spirito della Vita, che aveva allietato prima delle due guerre le famiglie italiane, rendendo lo Stivale un fatato giardino. In lui l’amore incondizionato, lo spirito del bene, la lealtà. E quando tutto gli si rivolterà contro  e la vita su questo misero pianeta per lui non sarà più possibile, lui saprà liberarsi nel cielo come felice allodola, dileguandosi nella perfetta purezza del Creato continuando ad amare, ad amare, ad amare. Continuando ad amare chi l’ha tradito, umiliato, offeso. E la sua luce risplende ancora e per sempre nelle notti stellate, illuminando il buio dell’Universo e il buio impenetrabile dell’animo umano.

“ Al lettore silenzioso nascosto nel cuore dei rumorosi tempi moderni,  (…) lettore paziente… fornito di una sua antenna privata per raccogliere il silenzio glaciale dell’ Universo “;  a questo lettore,  la morte del folletto piacerà molto,  saprà decifrare ancora nel suono del vento,  nel rumore delle onde,  nelle forme sempre mutevoli delle nuvole,  le parole leggere di questo indimenticabile elfo.                               
                                                       Stella Marina                     
                                                                                                             



11 Ottobre 2014

IL racconto 
dell'isola sconosciuta                 
di Josè Saramago                                          

Lui le augurò sogni felici. Le augurò sogni felici quando la luce tremolante della candela illuminò il volto di lei, che lui trovò bellissimo, ma ancora non poteva dirglielo perché la conosceva appena. E in quell’augurio c’era già una dichiarazione d’amore, la tacita intesa di quell’unione fatale tra un uomo e una donna. Ma lui chi era? Lui era quell’uomo che si era messo in cammino verso l’isola sconosciuta che nessuna carta geografica aveva  mai rivelato. Era stato dal re appunto per questo, da quel re che non era solito aprire la porta ai sui sudditi, ma che questa volta non aveva potuto resistere dall’aprirla a lui, a questo folle uomo che chiedeva una nave per andare alla ricerca dell’isola sconosciuta senza essere né un marinaio, né un navigatore. La chiedeva proprio a lui, al re in persona, senza nessuna esitazione né timore. “Datemi una barca, disse l’uomo. E voi, a che scopo volete una barca, si può sapere, domandò il re. Per andare alla ricerca dell’isola sconosciuta, rispose l’uomo. Sciocchezze, isole sconosciute non ce ne sono più. Sono tutte sulle carte. Sulle carte geografiche ci sono soltanto le isole conosciute.  E qual è quest’isola sconosciuta di cui volete andare in cerca. Se ve lo potessi dire allora non sarebbe sconosciuta.” Lei? Lei chi era? Lei era una donna delle pulizie, che aveva lavorato per anni alla corte del re e che aveva ascoltato a bocca aperta la folle richiesta dell’uomo e gli aveva spalancato le porte del palazzo per farlo entrare a parlare con il re.  Ascoltato l’uomo, con un misto di gioia e stupore,  era uscita di corsa dalla porta delle decisioni del palazzo lasciandosela per sempre alle spalle. Si era messa a seguire di  nascosto l’uomo, senza farsi vedere, per paura di essere respinta. Lui  si era incamminato verso il porto dove ad attenderlo c’era una vecchia ma per fortuna affidabile  caravella, con  tanto di alberi e vele, quella imbarcazione  che il re gli aveva concesso  quasi per sfida perché andasse alla ricerca della sua isola sconosciuta, convinto però in cuor suo  che tanto  non l’avrebbe mai trovata. La donna  non ne poteva proprio  più di pulire e lavare palazzi, pensò  che era giunto il momento,  proprio il momento di cambiar vita,  quell’uomo le piaceva, sì,  le piaceva e lo avrebbe seguito in capo al mondo per aiutarlo e sostenerlo. Nessuno dei marinai che erano stati convocati dall’uomo si presentò per imbarcarsi, in fondo non  era una buona  idea andare alla ricerca di qualcosa che forse non esisteva, un’isola sconosciuta, ma che follia. Di isole sconosciute non ne esistevano più, perché rischiare con un mare così tenebroso,  che non prometteva nulla di buono. I marinai rimasero a calduccio e al sicuro  nelle loro case.  Solo l’uomo e la donna salirono a bordo, soli, senza equipaggio ma con il forte desiderio di partire.  La donna disse “ bisogna allontanarsi dall’isola per vedere l’isola, è che non ci vediamo se non ci allontaniamo da noi,  da noi stessi “. L’uomo iniziò  a nutrire alcuni dubbi, la sua iniziale certezza andava incrinandosi sempre di più,  a poco a poco. Loro due, pensava, da soli,  ad affrontare quel lungo viaggio pieno di possibili e sicuri imprevisti.  La luna era già mezzo palmo sopra il mare, le ombre del pennone,  dell’albero maestro gli si proiettavano ai piedi . E’ veramente bella la nostra caravella pensava la donna. Ho il presentimento che non lo sarà per molto ancora,  pensava contemporaneamente l’uomo, troppe difficoltà , nessuna esperienza di mare. I due pensieri si sfioravano, ma non combaciavano ancora. Era ora di andare a dormire, l’uomo augurò alla donna sogni felici e la luce tremolante della candela aumentò lentamente di intensità  come fa il chiaro di luna e  illuminò il volto della donna. Illuminò il volto della donna  che lui trovò bellissimo…  L’uomo si augurò  che la notte gli portasse consiglio e scivolando nel sonno,  iniziò a sognare. Sognò che la sua caravella procedeva in alto mare…
Il racconto dell’isola sconosciuta è un gioiellino uscito dalla felice penna dello scrittore portoghese Josè Saramago, ma questo non ci sorprende affatto  vista la qualità letteraria alla quale da sempre ci ha abituato, regalandoci capolavori quali , “ La zattera di pietra “, “ Memoriale del convento “, “ Cecità “, “ Il vangelo secondo Gesù “, “ L’anno della morte di Ricardo Reis “, tanto per ricordarne alcuni.  Manca molto la sua presenza, la forza e il rigore delle sue idee. 
Nessuno può privarci dei nostri sogni, della nostra isola, ognuno deve e può cercarla a suo modo.” Se non esci da te stesso, non potrai sapere chi sei “.
“ L’isola sconosciuta è un luogo mobile che appare e scompare sulle carte della fantasia ma che sta ben saldo nel cuore di ognuno di noi “
                                                                               Stella Marina





11 Settembre 2014             
             
       
La malattia dell' infinito
                 di Pietro Citati


Pietro Citati è uno dei nostri più importanti letterati, finissimo uomo di cultura, ha scritto diversi saggi di critica letteraria tutti molto belli. Ma prima di tutto è un “infinito“ appassionato lettore. E questo libro ne è la meravigliosa testimonianza, scritto con garbo, eleganza, bonaria ironia. Ma soprattutto con amore. Seguirlo in questo suo viaggio dentro la letteratura e la cultura del Novecento è stato un piacere allo stato puro. Il percorso da lui tracciato non poteva che iniziare con il Lord Jim di Joseph Conrad, il personaggio che incarna meglio di qualsiasi altro l’uomo del nuovo secolo che si è lasciato alle spalle le sicurezze del secolo precedente per rivestirsi di fragilità, di dubbi, di vulnerabilità. Abbandonato da qualsiasi credo o certezza, si trova a fare i conti con se stesso, con il suo doppio, con l’errore e la colpa. Lord Jim, bello, giovane, dall’aria schietta, vestito di bianco immacolato, guarda  con occhi scintillanti il luccichio della superficie marina, nutrendosi di sogni e di fantasie letterarie. Sogna di diventare un eroe, e cerca la sua fama imbarcandosi come ufficiale di marina. A bordo del Patna, una nave che attraversando l’Oceano Indiano, trasporta centinaia di pellegrini verso la Mecca. L’imbarcazione durante la navigazione urterà contro un relitto e affonderà. Il capitano e i marinai si metteranno presto in salvo su scialuppe di salvataggio. Lord Jim, dopo un attimo di esitazione, salterà insieme agli altri marinai verso la salvezza abbandonando i pellegrini al loro tragico destino. Sta in quell’esitazione tutta la tragicità dell’uomo del nuovo secolo, in balia dei suoi errori e di se stesso, di un sé ignoto, sconosciuto, ma che agisce dentro di lui e che lo spinge a fare cose orribili. Il senso di  colpa rimarrà in Lord Jim  fino all’ultimo istante di vita, la sua giovane innocenza ne verrà macchiata indelebilmente. Questa storia ci riguarda molto da vicino, crea assonanze così tragicamente realistiche con una realtà che fatichiamo a dimenticare. Da poco i resti di un relitto di una nostra nave da crociera hanno trovato pace nel porto di Genova.  
L’uomo del Novecento è un uomo inquieto, con un’infinità di domande, costretto ad accettare il Male come controparte del Bene qui, sulla terra, ogni giorno, in ogni istante della sua vita. Un uomo che dovrà confrontarsi con se stesso e con il proprio inconscio. Freud e Jung gli hanno spalancato davanti il buio e l’abisso della psiche invitandolo a guardarci dentro. 
“Come essere insieme buoni e malvagi, luminosi e tenebrosi, coscienti e incoscienti, aria, acqua, terra e fuoco? ” si chiede Carl Gustav Jung?
Fernando Pessoa, lo scrittore portoghese del Libro dell’inquietudine, risponderà ai suoi tormenti interiori con la creazione dei suoi molti eteronimi, tra l’angoscia di essere un io e l’ansia di diventare un altro. Pessoa si sentiva abitato dall’infinito, un’ombra perduta nel nulla.
“Mi sono moltiplicato per sentirmi,per sentirmi ho dovuto sentire tutto, sono straripato, non ho fatto altro che traboccarmi…” ( F. Pessoa ) 
Così pure Virginia Woolf, legandosi saldamente alla sua scrittura, al flusso di coscienza, ai suoi momenti d’essere. Tenendo a bada fino a che le fu possibile la sua malattia, scrisse un grande libro filosofico-musicale che rappresentava il ritmo fondamentale dell’universo. Il libro si intitola “Le onde“ ed è bellissimo. 
Hugo von Hofmannsthal, parafrasando anche il pensiero di Robert Musil, scriverà in uno dei suoi saggi: “Sì, nulla sta veramente insieme. Nulla ci circonda se non il fluttuante, l’insostanziale dai mille nomi, e dietro a esso stanno gli abissi dell’esistenza. Chi ricerca l’immobile e il determinato tornerà sempre a mani vuote. Tutto è in perpetuo movimento, tutto è irreale come il gesto continuo della fontana da cui cadono ininterrottamente miriadi di gocce e ne affiorano ininterrottamente miriadi di nuove.“
In un corpo a corpo con l’infinito i più grandi autori del Novecento, affetti dalla malattia dell’infinito, hanno scritto le loro opere, molto spesso dei capolavori. Carlo Emilio Gadda, Italo Calvino, Giorgio Manganelli, Mario Praz, Gesualdo Bufalino, Cristina Campo, Flannery O’Connor, Thomas Bernhard, tanto per citarne alcuni. Autori che hanno lasciato un segno profondo nella nostra cultura e nel nostro modo di pensare. Il libro piacerà a chi con questi autori ha una certa familiarità, conoscerne le opere aiuta senza dubbio nella lettura di questo libro e diviene così occasione di profonda condivisione. Ma se non tutti gli autori sono conosciuti dal lettore, questo libro allora si trasformerà in una splendida occasione per imparare a conoscerli, affidandosi alla sensibilità di Citati. Essere traghettati da lui, è un grande onore. Si viaggia in sicurezza. Con la responsabilità della passione. 
                                                                                             Stella Marina


11 Agosto 2014




La leggenda del santo bevitore

di Joseph  Roth 




Pubblicato nel 1939, pochi mesi dopo la morte dell’autore, questo racconto viene ricordato come il testamento artistico di Joseph Roth. ”In una sera di primavera del 1934, sotto uno dei ponti della Senna, Andreas Kartak, giovane clochard malconcio e dedito al bere, si incontra a tu per tu con il suo destino, destino che gli appare nelle sembianze di un signore ben vestito che gli offrirà 200 franchi. Quei 200 franchi lui dovrà poi restituirli sotto forma di donazione alla piccola santa Teresa di Lisieux nella chiesa di Santa Maria di Batignolles. “Sono un uomo d’onore, anche senza indirizzo“, dirà al suo benefattore, impegnandosi sul suo onore a mantenere la promessa. Ma si sa, la vita non procede mai lungo una linea retta ma è piena di curve e di imprevisti, ricca di tentazioni e di incontri non sempre positivi. Questo denaro cambierà il corso della vita di Andreas che dopo l’ultima notte passata sotto il suo ponte, coperto dai giornali, “i giornali tengono caldo, come sanno tutti i vagabondi“, inizierà a riscoprire se stesso, ad avere nuovamente  la percezione del tempo, a ritrovare il gusto di vivere e di ricordare, rimandando di volta in volta l’impegno preso con il suo benefattore, continuando a concedersi svariati bicchieri di Pernod, in memoria dei vecchi tempi…  In Andreas c’è tutto Roth, “la sua saggezza del giorno e la sua follia di mezzanotte”, dopo l’intero giorno trascorso a bere. Ma anche la sua follia, oltre che la sua saggezza, aveva il sapore della poesia. E’ stato un grandissimo scrittore e questo racconto commuove e lascia una scia di malinconica consapevolezza, la consapevolezza dell’umana fragilità. Un elogio dell’imperfezione in una sorta di beatificazione del perdente.  Bellissima anche la rappresentazione cinematografica  che ne ha fatto Ermanno Olmi in una Parigi che diviene luogo d’anima, luogo della ricerca di sé.
“La vita sta nei concetti come un bambino cresciuto negli abiti troppo corti. Un'unica ora di vita è fatta di migliaia di inesplicabili impulsi dei nervi, dei muscoli, del cervello, e un'unica, grossa, vuota parola pretende di esprimerli tutti.” ( Joseph Roth )
La magia di una favola che ci riconcilia con noi stessi.
                                                                                                                                                 Stella  Marina



11 Giugno 2014                                      

IL MINOTAURO                                               
di  Friedrich  Durrenmatt                                                                                             
Il minotauro, essere per metà uomo e per metà toro, è una figura mitologica che ci arriva dall’antica Grecia. Frutto di una unione mostruosa tra Pasifae, moglie di Minosse e un meraviglioso toro bianco di splendente bellezza, viene rinchiuso nel labirinto di Cnosso progettato da Dedalo. Si ciba di sola carne umana e la città di Atene deve offrirgli in sacrificio ogni nove anni, sette fanciulli e sette fanciulle. Questa creatura mostruosa, completamente dominata dagli istinti e assolutamente priva di ratio, è il risultato di una punizione divina inflitta da Poseidone a Minosse per essersi ribellato alla sua volontà divina. Solo con la discesa di Teseo nel labirinto e l’uccisione del minotauro, si pone fine al rito dei sacrifici umani. Rileggersi la storia nella sua interezza e non nella mia versione semplificata e quindi imprecisa, è molto interessante, anche per meglio comprendere la riscrittura che ne fa Durrenmatt. Il minotauro non è più il mostro distruttore di vite, puro istinto cieco e bestiale. Nel labirinto troviamo un essere indifeso e ingenuo, incapace di comprendere il suo destino, circondato da specchi che ne ritraggono l’immagine all’infinito. Un essere che deve imparare in fretta, senza averne le capacità, a confrontarsi con se stesso, con la sua immagine e con l’altro.   
“ (…)  vide davanti a sé un’infinità di esseri fatti com’era lui, e come si girò per non vederli più, un’altra infinità di esseri uguali a lui. Si trovava in un mondo di esseri accovacciati senza sapere che quell’essere era lui. Era come paralizzato.“
Comprendere per lui, per la sua natura dominata da puro istinto, che lo specchio non fa che riflettere ininterrottamente  solo la sua immagine, non è  semplice da imparare. Inizialmente crede di vedere altri minotauri uguali a lui, che si muovono del suo stesso movimento, che si muovono all’unisono con lui. E questo gli provoca una sorta di ebrezza. Quella felicità che nasce dal non sentirsi più solo, quell’esaltazione di vedersi seguito ed imitato da suoi consimili in ogni suo gesto, anche nel più piccolo. E’ una gioia primordiale di fratellanza, è  una danza della vita. Ma dura poco. Scoprirà che è  solo illusione, lo specchio infatti non fa che riflettere  all’infinito  un solo essere,  lui stesso, chiuso e intrappolato nel suo labirinto. Destino tragico il suo, senza possibilità di scelta e senza possibilità di uscirne.
Quando poi si renderà conto che una fanciulla è entrata nel labirinto, e la vede nuda e bellissima riflessa nello specchio, la sua gioia risorgerà incontenibile da quell’ ammasso di solitudine e di bestialità. “Lui danzò la gioia d’averla trovata, lei danzò la paura di essere stata trovata, lui danzò la sua liberazione, lei danzò il suo destino…(…).” Ma il minotauro non sa dominare i suoi istinti e la sua gioia è troppo grande, la sua forza immensa e non si rende conto che la fanciulla è troppo fragile, troppo delicata per lui. Così la uccide, senza intenzione, dopo averla posseduta, per la sua incapacità di dominarsi e di valutare l’altrui forze. Senza sentire e imparare a comprendere il desiderio o la  repulsione dell’altro. Rimane nuovamente solo, ancor più solo, dominato dai suoi istinti, accerchiato dal suo labirinto, da specchi che amplificano all’infinito la sua desolata esistenza. 
Un’altra creatura entra dopo la fanciulla  nel labirinto a “giocare“ con lui. “Il minotauro gli girava intorno danzando, battendo le mani e pestando i piedi. Danzava la gioia di non essere più solo, danzava la speranza di incontrare altri minotauri, le fanciulle e gli esseri uguali a quello con cui ora danzava“. Ma quello con cui  danza felice e che abbraccia finalmente come un fratello, con nuovo ardore e rinnovata speranza  è Teseo, sceso nel labirinto per ucciderlo e con l’inganno,  ci riuscirà. Ingannando la sua gioia e la sua speranza, uccidendo il suo desiderio di incontrare l’altro, uccidendo quella speranza di confrontarsi finalmente con la dualità. Forse avrebbe potuto imparare a relazionarsi con il mondo, ma il pugnale di Teseo, impietoso, pone fine ad ogni possibile comprensione, ad  ogni possibile via d’uscita.    
Un piccolo libro bellissimo ricco di significati e interpretazioni possibili. Uno di quei libri su cui riflettere a lungo e sempre. Un grandissimo scrittore Durrenmatt, che amava i labirinti e i minotauri, recuperandone l’innocenza, l’ingenuità e la fragilità. Il labirinto come metafora della vita, dell’uomo di fronte alle sue scelte, dell’impossibilità spesso di poter tornare indietro, spiazzato e schiacciato dalle difficoltà dell’esistere. Scritto nel 1985, di anni ne erano passati dalla mitologia dell’antica Grecia e l’uomo nel corso della Storia aveva mostrato il suo volto bestiale, feroce e privo di ingenuità. E proprio perché dotato di ragione e della capacità di discernere il bene dal male, molto più crudele e spietato di un essere inconsapevole come il minotauro, vittima  di umani errori  e  costretto a pagare per loro con la sua stessa vita, senza neppure riuscire a capirne il perché. 
“Teseo riavvolse il filo rosso di lana e scomparve dal labirinto, e tutte le sue immagini riavvolsero il filo rosso di lana e scomparvero dal labirinto che non rispecchiava altro ormai, senza fine, che lo scuro cadavere del minotauro. Poi, prima del sole, vennero gli uccelli. “
                                                                                                            Stella Marina   
              


11  Aprile  2014


IL GIUNCO MORMORANTE


di Nina Berberova




Parigi. 2 settembre 1939. “Lui partiva, io restavo“.

Il breve racconto inizia con una separazione. Una donna e un uomo innamorati ma costretti a separarsi a causa della guerra. Lui preferisce tornare a Stoccolma per motivi di “sicurezza“. Lei esule russa, fuggita dalla Rivoluzione bolscevica, rimane a Parigi. Promesse, abbracci, silenzi. Lui è Ejnar. Lei è la protagonista, la voce narrante e potrebbe chiamarsi “Nina“. Mentre lo accompagna all’aeroporto, in quell’ora di proroga concessa prima dell’addio, in quella sospensione temporale, ancora stretta a lui vedrà scorrere davanti allo sguardo la città amata e condivisa  mentre lentamente si va coprendo di una patina verde scuro sempre più densa. “Uno spesso vetro scuro ci aveva imprigionato - lui, me, la città.“ La città diventa di vetro, impenetrabile, oscurata da un dolore profondo, da una separazione imminente che non lascia filtrare la luce della speranza di un possibile futuro nuovamente da condividere. Uno strappo doloroso da ricucire da sola mentre lui è assente, in silenzio, nei giorni bui della guerra in attesa di un forse. La storia d’amore è il sottofondo, la trama sottile di questo libro che, nonostante la brevità, ha moltissime e altre importanti chiavi di lettura. Un altro personaggio, forse il più interessante del libro, lascia profonda traccia di sé nel lettore. Dmitrij Georgevic, intellettuale russo, scrittore e professore, esule a Parigi, immerso totalmente nei suoi libri, nella sua vecchia giacca color cammello e nella sua papalina. Figura senza tempo, con due paia di occhiali sul naso, accerchiato da montagne di carte. Figura eroica, fedele a se stessa fino alla fine, somigliante a un imperatore cinese. E poi le tre città, Parigi, Stoccolma e Venezia; passaggi dell’anima per una presa di coscienza sempre più profonda di sé mentre il legame originario, ombelicale con la Russia rimane forte e rende forte il senso di appartenenza a se stessi, alla propria verità. Un libro profondo ed intenso, come ogni cosa che ha scritto questa grande scrittrice. Un libro che parla essenzialmente di libertà, della conquista della propria libertà. Libertà di scegliere la propria vita nella difesa assoluta della propria no man’s land, dove l’uomo vive “nella libertà e nel mistero“.

“Fin dai primi anni della mia giovinezza pensavo che ognuno di noi ha la propria no man’s land, in cui è totale padrone di se stesso. C’è una vita a tutti visibile, e ce n’è un’altra che appartiene solo a noi, di cui nessuno sa nulla. Ciò non significa affatto che, dal punto di vista dell’etica, una sia morale e l’altra immorale, o dal punto di vista della polizia, l’una lecita e l’altra illecita. Semplicemente, l’uomo di tanto in tanto sfugge a qualsiasi controllo, vive nella libertà e nel mistero, da solo o in compagnia di qualcuno, anche soltanto un’ora al giorno, o una sera alla settimana, un giorno al mese; vive di questa sua vita libera e segreta da una sera (o da un giorno) all’altra, e queste ore hanno una loro continuità. Queste ore possono aggiungere qualcosa alla vita visibile dell’uomo oppure avere un loro significato del tutto autonomo; possono essere felicità, necessità, abitudine, ma sono comunque sempre indispensabili per raddrizzare la “linea generale“ dell’esistenza. Se un uomo non usufruisce di questo suo diritto o ne viene privato da circostanze esterne, un bel giorno scoprirà con stupore che nella vita non s’è mai incontrato con se stesso e c’è qualcosa di malinconico in questo pensiero  (…) .“                                                                                                                          STELLA  MARINA


11 Marzo 2014

L' UTILITA' DELL' INUTILE       di  Nuccio  Ordine              

"Sarebbe davvero bello, Agatone, se la sapienza fosse in grado di scorrere dal più pi-no al più vuoto di noi, solo che ci mettessimo in contatto l'uno con l'altro, come l'acqua che scorre nelle coppe attraverso un filo di lana da quella più piena a quella più vuota".
Questo spiega Socrate ad Agatone nel Simposio di Platone, denunciando l'idea che la conoscenza possa essere trasmessa meccanicamente da un essere umano all'altro. Tornare alle parole dei grandi classici emoziona e sconforta al tempo stesso. Erano molto più avanti di noi, assai più colti e più dediti alla ricerca della Bellezza. Avevano l'esatta percezione dell'utilità dell'inutile. Nuccio Ordine in questo bel saggio guarda con sconforto al mondo occidentale, governato dal dominio del mercato, ossessionato dalla logica del profitto in cui utile è solo quello che corrisponde al delirio di onnipotenza del dio denaro. Questo saggio/manifesto invita a riflettere sulla crescente desertificazione che soffoca lo spirito dell'uomo moderno. L'homo oeconomicus ha perduto la propria dimensione interiore, la capacità di investire sulla propria interiorità. La capacità di concedersi tempo interiore per la propria crescita. "Se non si comprende l'utilità dell'inutile, l'inutilità dell'utile, non si comprende l'arte", ci ricorda Eugène Ionesco. Scuole, università, ricerca, laboratori, teatri, musei, biblioteche, archivi sono sempre più a rischio chiusura. La barbarie sta dilagando sempre di più, Nuccio Ordine invita a riflettere sui pericoli di questo stato di cose invita a guardare al passato, agli insegnamenti della storia. Invita a rileggersi le parole di Benedetto Croce, scritte sulle macerie di un'Europa distrutta dalla guerra e così attuale:
" ..... quando gli spiriti barbarici (riprendono vigore) non solo soverchiano e opprimono gli uomini che la (civiltà) rappresentano, ma si volgono a disfare le opere che erano a loro strumenti di altre opere e distruggono monumenti di bellezza, sistemi di pensieri, tutte le testimonianze del nobile passato, chiudendo scuole, disperdendo o bruciando musei, biblioteche ed archivi (.......). Di ciò di esempi non occorre cercarli nelle storie remote, perché le offrono quelle dei giorni nostri in tanta copia che perfino se n'è in noi attutito l'orrore".
L'orrore deve essere urlato. Non solo per noi, ma per i nostri figli, i figli dei nostri figli. Recuperare la libertà di pensiero, la gioia della gratuità di un gesto, il desiderio di conoscere fine a se stesso, il sapere in se. La passione e l'amore autentici per la conoscenza, il ricercare, svincolato da qualsiasi utilitarismo può rendere l'umanità più libera, più tollerante, più umana.
"L'utilità dell'inutile è l'utilità della vita, della creazione, dell'amore, del desiderio", perché l'inutile produce ciò che ci è più utile, che si crea senza scorciatoie, senza guadagnare tempo al di là del miraggio creato dalla società".  
(Miguel Benasayag / Gèrard Schmit )
                                                                                                      Stella Marina          





11 Febbraio  2014


L’ INFANZIA  DI  GESU’          
di John Maxwell Coetzee



La storia che John Maxwell Coetzee ci racconta non ha un inizio, né una fine, proprio perché vuole lasciare ad ognuno la propria interpretazione.
Un uomo ed un bambino, non si sa bene da dove vengono e per quale motivo, si ritrovano in un mondo nuovo con una lingua sconosciuta, senza alcun ricordo del loro passato, e dove viene assegnato loro anche un nome nuovo.
Simon, un signore di 45 anni, e David, un bambino di 5 anni, non si conoscono, si incontrano casualmente, ma l’uomo sente di doversi prendere cura del piccolo e di aiutarlo a ricongiungersi con la madre, che poi pensa di individuare in Ines.
Nel paese dove sono arrivati, tutti vengono bene accolti, ogni cosa funziona alla perfezione, salvo i piccoli problemi quotidiani; in questa società c’è sicurezza ed ognuno ha un ruolo che viene accettato con pazienza e tranquillità, ma non c’è passione, non c’è fantasia, non c’è domanda, non c’è ricerca.
Il bambino è dotato di una sensibilità e di una intelligenza straordinarie, ma è testardo e non accetta regole, costrizioni ed autorità, cerca quindi di opporsi a questa società, dove lui non si è del tutto integrato e dove non è compreso.
Le leggi di questa nuova realtà non sono le sue, per cui a scuola si rifiuta di leggere, di scrivere e di contare, è affascinato dalle gesta di Don Chisciotte: può essere nel giusto chi vede i giganti al posto dei mulini a vento o chi sostiene che due più due non fa quattro. 
Il bambino mette tutto in discussione, è un rivoluzionario.
Il libro ha una modernità straordinaria perché può far riferimento allo smarrimento dei giovani di oggi che non hanno un passato su cui appoggiarsi, ma neppure un futuro certo verso cui indirizzarsi. Nel nuovo mondo gli adulti non hanno storia, ma solo l’accettazione della realtà, il bambino si ribella e li vuole portare in una dimensione sconosciuta dove sono liberi di esprimersi come vogliono e dove possono inventare le risposte a tutti i perché.

                                                                                                   Fragola


             
11 Gennaio 2014

IL  GRANDE  GATSBY
di Francis  Scott  Fitzgerald


"Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato". Questa è la frase conclusiva del romanzo che è anche la fine di un sogno. Il sogno di Gatsby.

Gatsby, in realtà James Gatz, figlio di contadini del Nord Dakota all'età di diciassette anni abbandona la sua famiglia convinto di poter cambiare in meglio la sua vita. "James Gatz: era questo il suo nome, o almeno quello legale. Lo aveva cambiato a diciassette anni, nel momento in cui ebbe inizio la sua carriera. Quando vide lo Yacht di Dan Cody gettare l'ancora nella secca più insidiosa del lago Superiore". Parte, si imbarca con il forte desiderio di farcela, di darsi un'opportunità diversa e possibilmente di riuscire a diventare ricco. Ci riesce anche patteggiando con lavori poco chiari, poco puliti. Inviato a Luisville per compiere un addestramento militare, si innamora della bellissima e ricca Daisy Fay con la quale intreccia una relazione profonda. Costretto a partire per la prima guerra mondiale, si promettono eterno amore. Ma quando lui è in Europa, viene a sapere che lei si è sposata con Tom Buchanan, un ricchissimo rampollo di una delle famiglie più importanti d'America. Da quel momento tutta la sua vita è dedicata alla riconquista di Daisy. Gatsby diviene eroe romantico e tragico incarnando nella sua persona, che è anche quella di Francis Scott Fitzgerald, la tragedia del sogno americano degli anni venti. Un mondo folle, impazzito in cui si crede che tutto sia possibile essendo state abbattute tutte le barriere tra lecito ed illecito. Tutto brilla di lustrini e feste. Tutto riluce di ricchezza ma di vuote esistenze. Quel periodo in cui "la bevanda nazionale era il gin e l'ossessione nazionale il sesso". Solo lui, solo Gatsby continua a sognare in quell'estate del 1925 a Long Island, affacciandosi dalla sua sfarzosa villa sull'Hudson, acquistata proprio di fronte a quella di Daisy e del marito. Solo lui continuerà a credere in quella luce verde che di notte si riflette sull'acqua, quella luce che brilla di promesse. Crederà ancora all'amore di Daisy, crederà all'autenticità di lei, alle sue parole, senza accorgersi invece che tutto quello che lo circonda è solo finzione, vuota apparenza. Illusione. Sognerà fino alla fine, fino all'ultimo istante della sua giovane vita, con quella luce verde negli occhi che brilla di purezza e che non riesce a concepire un mondo cinico e privo di scrupoli. Morirà per il suo sogno in modo tragico, ingiusto, in quel mondo dove i sogni non potevano esistere.

"Quando si perde la capacità di vivere i propri miti, si perdono anche i propri dei". (Rollo May).
                                                                Stella Marina                                                                                    -                                                                                                              
         

                Buon Natale
                               





11 Dicembre 2013

MENDEL  DEI  LIBRI                       
di Stefan Zweig





Stefan Zweig scrisse questo libricino, poco più di cinquanta pagine, nel 1929, nel periodo tra le due guerre mondiali. Per quanto sia breve è un racconto di rara intensità che difficilmente potrà essere dimenticato. La figura di Jacob Mendel, un “piccolo grinzoso ebreo galiziano“, diverrà parte dei nostri ricordi, come se lo avessimo conosciuto realmente. Ultimo custode di un mondo andato poi in frantumi, lo ricordiamo al presente per illuderci, almeno per un atti-mo, che le cose realmente ancor oggi possano andare ed essere vissute così, con quella passione furiosa e totale di Mendel. Osserviamolo senza disturbarlo, come dietro a un vetro trasparente. 
Jacob ama i libri sopra ogni altra cosa, sopra la sua stessa vita. Mago e sensale dei libri, li conosce  tutti, pur  avendone  letti  pochissimi, ma  non è questa la sua passione. Sono il titolo, il prezzo, la veste editoriale, il frontespizio la sua vera ed unica passione, il suo unico modo di comunicare e registrare il mondo. “Non fumava, non giocava, anzi -si potrebbe persino dire- non viveva, vivevano solo gli occhi dietro le lenti da vista e alimentavano, senza posa, con parole, titoli e nomi, quell’enigmatica sostanza che era il suo cervello “  Se ne sta  tutto il giorno al Caffè Gluk nella obere Alserstrasse di Vienna, seduto a un tavolino quadrato dal ripiano  in marmo, sempre stracarico di libri. Se ne sta lì, immobile e curvo, senza accorgersi dello scorrere del tempo, cibandosi appena quel tanto che basta per sopravvivere. In uno stato di rapimento ipnotico sfoglia tutti i cataloghi e i suoi libri da mattina a sera. Salmodiandoli sottovoce mentre si dondola come  gli hanno insegnato a fare quando era piccolo alla scuola talmudica. A questo tavolo riceve i più grandi collezionisti ed intellettuali del mondo. La sua parola è quella definitiva. Solo lui conserva nella sua memoria prodigiosa, meglio di qualsiasi schedario possibile, i titoli e le edizioni di tutti i libri e sa come poterli trovare e dove. E’ lui stesso il magico archivio di tutti i libri esistenti. Ne conosce esattamente il valore, il prezzo, ma non è certo il denaro che a lui interessa. “Poter tenere tra le mani un libro prezioso significa infatti per Mendel quel che per altri è l’incontro con una donna“. Fuori c’è la guerra, la tremenda Prima guerra mondiale ma lui non se ne accorge. Continua a cullarsi nel suo mondo di carta ed è molto felice, sono più di trent’anni che vive a quel tavolo quadrato di marmo, in quella felicità inesprimibile che solo lui conosce. Ma il mondo intorno a lui non è così felice né ingenuo. Il mondo intorno a lui è ferocemente in guerra. La sua corrispondenza, inviata a un paese nemico, per lamentarsi del ritardo di ben otto numeri del mensile “Bullettin bibliographique de France“ non viene compresa ma scambiata per un messaggio segreto in codice. Ci fermiamo qui…  un passo dalla fine, con le molteplici chiavi di lettura. Ognuno, a suo modo e come vorrà, si ricorderà di Mendel.
“Solo colui, che riesce a mantenere la propria libertà rispetto a tutto e a tutti, conserva e moltiplica la libertà sulla terra“ ( Montagne )
                                                                                                                         
                                       Stella Marina


11  Novembre  2013

Mattatoio N. 5
ovvero 
La crociata del bambini

di  Kurt  Vonnegut



“E’ tutto accaduto, più o meno“. Questo l’incipit del racconto. In fondo ogni racconto che leggiamo, è accaduto più o meno. Ed è proprio in quel più o meno che si costruisce la grande narrativa. Vonnegut in questa sua opera si serve della fantascienza (anche se non è un racconto propriamente di fantascienza) per raccontare l’indicibile, l’atroce  esperienza della Seconda guerra mondiale e in particolare della distruzione della bellissima città di Dresda nel febbraio del 1945. Americano di origine tedesca, realmente visse sulla sua pelle il bombardamento della città, completamente rasa al suolo mentre lui prigioniero, insieme ad altri soldati, si trovava al ”riparo” in una grotta ricavata sotto un mattatoio, adibita a deposito di carni un tempo, nelle visceri della città. “Dresda ormai era come la luna, nient’altro che minerali. I sassi scottavano. Nei dintorni erano tutti morti. Così va la vita. ”Come raccontare quella carneficina umana, quello sventramento di una intera città impreparata ad una simile tempesta di fuoco se non servendosi della “leggerezza“ di un personaggio letterario come Billy Pilgrim a cui affidare il difficile compito di ricordare, di raccontare la follia umana. Billy Pilgrim, così lungo e così fiacco, così ridicolo nella sua toga azzurra e nelle sue scarpe d’argento, così impreparato alla vita, inizia a viaggiare nel tempo durante la Seconda guerra mondiale. Un suo modo di resistere per non soccombere, per non morire di disperazione. Come poteva l’autore inveire contro l’assurdità della guerra ben consapevole che la guerra esisterà sempre e comunque nella storia dell’umanità, se non creando un’invenzione letteraria, un pianeta chiamato Tralfamadore con abitanti alti sessanta centimetri, verdi, a forma di sturalavandini, con una vista a quattro dimensioni che però possiedono qualcosa di molto importante da insegnare agli abitanti della Terra. Una speciale cognizione del Tempo. Attraverso la distorsione temporale si possono annullare il senso di colpa e la morte. Tutti i fatti dell’esistenza divengono contemporanei, si possono vedere contemporane- amente, ogni attimo diviene permanente. Concentrandosi solo sui momenti felici, puntando lo sguardo solo sulle cose belle, quei momenti possono diventare eterni. ”La cosa più importante che ho imparato dai su Tralfamadore è che quando una persona muore, muore solo in apparenza. Nel passato è ancora viva. E’ solo una nostra illusione di terrestri credere che a un momento ne segue un altro, come nodi su una corda, e che quando un istante è passato sia passato per sempre“. Come affrontare e raccontare la morte di giovanissimi soldati, poco più che bambini, “con i piedi blu e avorio“, la crociata dei bambini  come evoca il sottotitolo del libro, che sicuramente avranno tormentato i suoi ricordi e il resto della sua vita, se non affidandosi ad una trasposizione letteraria, cercando di affrontare lo spettro di un terribile ricordo, rielaborandolo in un racconto a tratti amaro, a tratti ironico, folle e disperato insieme, ma di una ”leggerezza” che arriva dritta al cuore e ti si incolla addosso per non lasciarti  più. 
                                                                  Stella Marina

11 Ottobre 2013                                                                             
     
Una verità delicata 
di  John Le Carrè

I personaggi che si muovono in questo romanzo sono, per la maggior parte, personaggi  minori, sono uomini e donne che per una serie di circostanze vengono a trovarsi sulla linea di tiro di storie più grandi di loro. La sproporzione dei rapporti di forza tra gli attori in campo è incommensurabile: da un lato le vite dei singoli, la dolcezza delle loro e nostre complesse quotidianità, i gesti, le relazioni, il difficile tentativo di dare forma e senso all’esistenza, dall’altro gli interessi di chi scrive o pensa di scrivere la mappa del mondo nel climax asettico di stanze e vite lontanissime dai crucci delle nostre esistenze comuni.  La domanda, che attraversa in filigrana il romanzo, è cosa possiamo fare noi con le nostre limitate forze e risorse, quando la nostra coscienza si trova in una situazione in cui non può più esimersi dalla responsabilità della scelta di campo. John Le Carrè non dà una risposta diretta ad una domanda così complessa, ci regala, come risposta, un’umanità "minore" fatta di eroi silenziosi che non finiranno in nessun libro di storia e che decidono di accettare la responsabilità della scelta e le conseguenze che questa comporta.
                                                                                   Enrico Nicolò

                 
11  Gennaio  2013 
11  Dicembre  2012                                                                    

                                                                                    
                                                      

A  CHRISTMAS CAROL  -   CANTO DI NATALE
Una storia natalizia di fantasmi


di  Charles  Dickens



Il Canto di Natale ebbe un successo strepitoso, tanto che in poco tempo Charles Dickens divenne lo scrittore più popolare d' Inghilterra. 
Quale strenna natalizia riportiamo la rivisitazione di parte della strofa III, scritta a 14 anni da Tiziano Conti.


 

IL SECONDO DEI TRE SPIRITI                    
Rivisitazione  di Tiziano   Conti

                                                          

Quando Scrooge si alzò, immediatamente avvertì che l’orologio della chiesa aveva battuto un colpo e capì che il secondo Spirito voleva visitarlo. Quel lasso di tempo lo usò per leggere, ma si spinse avanti e indietreggiò, eseguì un giro nel suo letto e andò.
All’una in punto, invece, lo Spirito si presentò con le sembianze di una piccola luce sotto il letto di Scrooge. Lui era veramente spaventato. Dopo qualche minuto pensò che la luce probabilmente venisse dalla stanza successiva, ma si alzò e andò alla porta. 
Quando lui lo toccò, una strana voce chiamò il suo nome, e gli chiese di entrare. Lui obbedì. Benché riconoscesse la sua stanza, notò che c’erano delle differenze: i muri erano coperti da luminose verdi foglie e da un buon fuoco che bruciava nel camino. Nel pavimento c’era un grande cumulo dei migliori cibi di Natale: bellissime torte natalizie, fette di pane, arance e mele, piatti di burro giallo, pollo arrosto, pezzi di cioccolata e caramelle di zucchero.
Si sedette vicino in un tavolo largo lo Spirito sorridente, che chiamò fuori allegramente Scrooge: “Vieni, vieni, uomo! Sono il fantasma del Natale presente, guardami.”. 
Dopo la prima visita del fantasma, Scrooge non era più sicuro di se stesso. Nonostante gli occhi dello Spirito fossero gentili e puliti, Scrooge era impaurito nel vedere la sua faccia. Ma lui potrebbe vedere il suo corpo vestito con un abito lungo verde, ha lunghi capelli marroni tirati indietro e la sua faccia sfoggia un amichevole sorriso, una luce da una torcia portata nella sua mano destra.
“Spirito”, disse Scrooge con tranquillità, “Indicami dove devo andare. La scorsa notte ho imparato una lezione quindi oggi voglio lavorare. Se tu hai qualcosa da insegnarmi,  questa sera portami con te”. 
“Tocca il mio vestito” disse lo Spirito, e Scrooge obbedì. Il cibo, la stanza, il fuoco scomparvero e loro si ritrovarono di fuori, in una fredda ed innevata strada di mattina di Natale. Benché gli scarponi fossero grigi e le strade sporche, le persone guardarono con sorpresa allegra: le vetrine erano addobbate per la cena di Natale e stavano cucinando. 
Lo spirito era interessato in particolare alle persone povere.
Lui tenne Scrooge nell'uscio di Baker e distese la sua torcia sopra la cena e lui la trasportò. Qualche volta quando vedeva persone opprimere altre o avere fame, lui alzava la sua torcia sopra le loro teste, e immediatamente loro diventavano gentili o fermava le discussioni, “perché è Natale,” lui diceva spesso. 
“Dove metti la tua torcia,”  chiese Scrooge.
“La metto in un posto che ci permette di mangiare a cena ogni giorno”, rispose lo Spirito.
“Perché tu usi il maggiore interesse con i più poveri”, disse Scrooge. 
“Perché i poveri ne hanno bisogno”, replicò. 
 

Loro andarono da una parte all’altra di Londra e visitarono la piccola casa dove viveva l’impiegato di Scrooge. Lo Spirito sorrise e mise la torcia sopra la porta.
All’interno la moglie di Bob e la seconda figlia, Belinda, con i vestiti quotidiani ma puliti e belli, stavano mettendo i piatti sul tavolo per la cena di Natale. 
Il figlio di Bob, Peter, stava aiutando a cuocere le patate, e due più piccoli, un ragazzo ed una ragazza, stavano correndo emozionati. Solo la più grande figlia, Martha, arrivava a casa dal lavoro.
“Dov’è Martha, mamma,” chiesero i due piccoli figli felicemente.
“E’ andata a prendere un grande pollo per la cena, Martha.” In effetti era solo un piccolo pollo, ma sembrava grande per i bambini emozionati. 
“Mia cara, perché sei in ritardo?” Disse la signora Cratkit, baciando la figlia che arrivava.
“Ho fatto tardi ieri, mamma!” Replicò la ragazza. “E’ perché ho finito solo stamattina”.
“Bene! Non preoccuparti l’importante è che ora sei qui. Dio ti benedica! Siediti vicino al fuoco, mia cara!” 
“No, no! Vai vicino a papà!” Dissero i due giovani. “Vergognati, Martha, vergognati!”
Così, Martha si susò di essere arrivata in ritardo, e andò da Bob e dal suo figlio Tiny Tim. 
Povero Tiny Tim, lui è sordomuto, e benché potesse contare su se stesso e sulle sue piccole gambe, si era aiutato con una stampella di legno, perché altrimenti non poteva camminare a lungo.
“Dov’è, Martha?” Esclamò Bob, guardando in giro.
“Non è venuta.”  rispose la signora Cratchit.
“Non è venuta!” Ripeté Bob. Il suo bel sorriso era sparito: “Non è venuta il giorno di Natale!”.
Ma Martha non voleva spaventare suo padre per altro tempo, così saltò fuori da dietro la porta e lo baciò, mentre i due giovani ragazzi facevano vedere la cucina a Tiny Tim. Adesso si preparavano a mangiare. 
Scrooge e lo Spirito videro cosa stavano mangiando. Era un pasto abbastanza povero,  ma a loro sembrava fantastico, e cominciarono a mangiare.
“E’ il miglior pollo che ho mai provato” disse Bob, sorridendo intorno alla famiglia. Erano tutti con la bocca piena. 
E poi arrivò il momento più emozionante del giorno: Belinda mise un piatto pulito di fronte ad ogni persona e loro si girarono per vedere la signora Cratchit, che andava verso la cucina. La sua faccia è bollente per il lavoro mattutino, ma lei sfoggia un sorriso felice, perché sta arrivando il budino di Natale nel piccolo cerchio di fuoco blu. 
“Oh, è un budino meraviglioso!” Loro ne rimasero deliziati.
“E’ la più grande soddisfazione dell’anno per essere sposati, mia cara,” disse Bob.  
“Bene, sono sorpresa per quanta frutta hai messo”, disse la moglie.
“Ma, sì, è una buona idea”, e lei rise per far felice la giovane ragazza.
Nessuno sapeva che il budino era piccolo per una famiglia numerosa. Nessuno, tuttavia, si lamentò per questo. Cratchit non si lamentò mai. Alla fine, quando finirono il pasto, i bambini sparecchiarono e lavarono i piatti.
Quando loro si sedettero attorno al fuoco mangiarono mele e arance. C’era una grande scodella con frutta e zucchero e acqua calda, ma solo tre persone bevvero allo stesso tempo, perché la famiglia aveva solo due bicchieri e una tazza. Ma questo non preoccupava i Cratchit. 
Adesso Bob alza il suo bicchiere e dice: “Buon Natale a tutti! Miei cari, Dio vi benedica”. 
La famiglia ripeté questo augurio e Tiny Tim disse alla fine: “Dio benedica tutti voi!”
Si sedette vicino a suo padre, con la sua piccola sedia. Bob teneva suo figlio per la piccola mano nella sua. 
Il ragazzo aveva un posto speciale nel cuore del padre.

C'è silenzio nelle parole di Dickens e nella lettura di Tiziano. 
Stampato in filigrana, a cavallo di quasi due secoli, tanti ne passano tra la stesura originale e la rielaborazione, mostra lo stesso senso di delicata osservazione sul procedere delle umane vicende. Quasi una coperta posta con leggerezza, nottetempo, per non disturbare il sonno. Viene da pensare allo struggimento degli angeli descritti da Wenders, così vicini a noi, silenziosi osservatori delle nostre fragili e complesse esistenze.
                                                                                                                                                                         
                                                          
11  Novembre  2012

IL  GIOVANE  HOLDEN
di J. D. Salinger


Holden Caulfield, quando la penna di Salinger lo manda in scena, se ne sta da solo sopra una collinetta in un pomeriggio di dicembre, fa freddo, lo hanno appena cacciato dalla scuola e qualcuno gli ha fregato i guanti. Da sotto la collinetta arrivano gli strilli della partita di football, lontani come può essere lontano un mondo da cui ci si sta allontanando. Holden Caulfield non lo sa dove deve andare, se non vi siete mai trovati a prendere un treno in un pomeriggio d’inverno senza idea precisa della vostra destinazione allora forse il libro vi dirà poco e forse vi infastidirà. Se invece siete tra quelli che quel treno l’hanno aspettato e ci sono saliti allora, beh! Allora è per voi e per tutta quell’umanità che non ha mai avuto familiarità con grandi certezze che il ragazzo Holden attraverserà una freddissima New York in una notte di quasi Natale alla ricerca di un qualche senso alla nostra sgangheratissima esistenza. 
Alla fine della notte non ci trova grandi risposte, ma una mattina in un semi- deserto zoo di New York, è insieme alla sorellina Phoebe, quando all’ improvviso comincia a piovere. Insieme alla pioggia, tra le persone che abbandonano di corsa una giostra di cavalli, arriva una felicità improvvisa. Holden non lo sa di preciso per cosa è felice forse che la notte in un modo o nell’altro è passata, forse che la sorellina continua a girargli intorno con il suo cappottino blu and all!
                                                        
                                                         Enrico Nicolò


11  Ottobre  2012

DIMAGRIRE CON LA  PSICHIATRIA                      
di  Giorgio  Villa


"Franco Basaglia venne invitato in Brasile per una serie di conferenze che costituirono l'ultimo suo sforzo pubblico e scientifico prima della morte prematura. Mentre stava partendo espresse ad alcuni suoi amici il suo pensiero circa quell'invito. Secondo lui gli autorevoli psichiatri che lo avevano chiamato non erano tanto interessati alle sue idee, quanto alla sua persona. "Vogliono scoprire se sono davvero matto".
Ma forse è proprio così: se si è portatori di un modo diverso di raccontare la vita, se si è in grado di fare immaginare un futuro diverso, se si è in grado di attivare un potere visionario nel quale i contemporanei possono rispecchiarsi si rischia inevitabilmente di essere presi per strani, bizzarri, oppure semplice- mente per matti."


Si legge tutto d'un fiato, con stupore tachicardico, lo splendido libro "Dimagrire con la Psichiatria", vissuto professionale e personale di Giorgio Villa, medico psichiatra ed autore di questo libro che con le storie narrate ci porta, anche con ironia e leggerezza, in un "oltre" dove accompagna le sofferenze più oscure, affinchè sia visibile ed umanizzato il dolore più impensabile. Storie che parlano di concreta empatia, di delicatezza, di forte e disorientante impatto, di un lavoro incessante e difficile per trovare un contatto amorevole per chi si sente chiuso o alberga inconsapevole nella "gabbia" del dolore e della non speranza. Penso alle statue solitarie e ferite di Giacometti, immagino che si fermino da quel camminare ossessivo oltre il confine, emarginati in una dimensione di fatalità e di vuoto; le vedo fermarsi, ogni tanto ed una alla volta, quando una voce rivolta singolarmente ad ognuno di loro sa arrivare, senza giudicare nel tentativo di accompagnarle transitando attraverso il "sintomo ed il simbolo", in una dimensione di "visionaria" appartenenza. Ed è in questa individualità accolta, con i suoi rischi e imprevedibilità, passo dopo passo, non schematizzata in classificazioni o percorsi prestabiliti o in classificazioni rivolte solo all'assunzione dei vari farmaci, che il "messaggio psicopatologico, antropologico e clinico che emerge dall'attività dell'autore" trova la strada verso un "modo diverso di raccontare la vita".
                                                                                                        
                                                               Maria Laura                     


11  Settembre  2012                                              

ROMA  NAZISTA                                 
          
di Eugen Dollman
                                          
                                                                                                                                            
Recentemente ho letto un libro che narra la storia di un personaggio, Eugen Dollman, che a Roma tra il 1937 ed il 1943 è stato depositario di segreti della diplomazia di quel tempo e che la maggior parte delle persone non conosce.
Dollman appassionato della storia italiana soprattutto del rinascimento, si laureò a Monaco di Baviera nel 1927 in storia dell’arte, subito dopo venne in Italia per perfezionare le sue conoscenze in merito e qui acquisì tanto bene la conoscenza della lingua italiana che l’inflessione di quella d’origine quasi non si sentiva più. Nel 1933 si stabilì definitivamente a Roma e nel 1937 per volere di Himmler, noto comandante delle S.S. e braccio destro di Hitler, divenne l’interprete ufficiale tra Mussolini ed il capo del nazismo; è scontato che in questo ruolo tanto speciale, Dollman sia stato presente ad innumerevoli incontri politici anche di esponenti di alto rango sia italiani che tedeschi. Invece di svolgere il suo lavoro in modo formale, essendo una persona di notevole cultura e sensibilità, è riuscito ad esercitare anche un importante ruolo diplomatico. E’ sufficiente ricordare che Ponte Vecchio a Firenze era destinato alla distruzione durante la ritirata tedesca verso il Nord Italia e Dollman mettendo in moto tutta la sua capacità di convincimento riuscì ad evitare questo scempio: tutti i ponti di Firenze furono distrutti, meno uno, Ponte Vecchio!  Per non parlare di Roma Città Aperta! Fu proprio lui a convincere il maresciallo Kesserling ad attuare questa formula in modo che la città eterna fosse risparmiata. E che dire della rappresaglia delle Fosse Ardeatine, dove furono fucilate più di 300 persone. Nel dramma dell’accaduto fu lui a convincere Kappler a ridurre il numero da 50 a 10 persone da fucilare per ogni tedesco morto nell’attentato di via Rosella a Roma.
Era un uomo colto, elegante, mondano, di bell’aspetto, raffinato ed amante del bel vivere, questo però non gli impedì, nei momenti più cruciali del suo ufficio, di saper “giusto mediare” ed ottenere i migliori risultati non sempre a favore del nazismo.
Sono affascinato da questo uomo, colonnello delle S.S. suo malgrado, che in fondo utilizzò il suo potere di mediatore non per distruggere l’Italia, paese che amava tanto, ma per evitare, nel marasma della 2^ guerra mondiale, le più efferate decisioni del governo nazista, che in quel tempo governava il nostro paese, visto che Mussolini si era rifugiato a Salò, ed il re d’Italia si era messo al sicuro nel Sud, protetto dai soldati alleati.
Questa storia è la dimostrazione che in mezzo ai gerarchi nazisti folli c’era qualche mosca bianca che pur vivendo nello stesso ambiente non ha profuso orrore, ma l’opposto. Ciò è dovuto alla cultura e alla sensibilità che non dovrebbero abbandonare nessun essere umano, mai!

                                                                                  Alvaro  Galasso 


11 Agosto 2012                                                                    
LA  CASA  DI  CARTA

                                                         
di  Carlos  Maria  Dominguez

                                                                            Un piccolo libricino rivestito di blu Sellerio. E’ già un’emozione. Ed è già l’inizio di un viaggio, ancor prima di aprirlo. In copertina, un olio su tela di John Lavery. Donna con cagnolino in riva al mare in una giornata di vento. Una piccola ombra sulla sabbia, composta, raccolta nella sua proiezione ai piedi della donna, mi fa pensare al doppio, a ciò che non appare, alla sottile demarcazione tra realtà e finzione. Al sottile lavorio della scrittura, al suo incessante rumore, alla costante necessità dell’uomo di raccontarsi, di lasciar traccia di sé di superare con la scrittura i suoi limiti umani.
Apro la prima pagina e trovo scritto “La memoria“. Subito sotto, 854. Penso a tutti gli altri 853 volumi blu disposti ordinatamente su scaffalature di una libreria immaginaria. Penso a Jorge Luis Borges e alla sua frase “una biblioteca è una porta nel tempo“. E penso che questo libro dell’argentino Domìnguez è molto borgesiano, è la storia di un libro dentro un libro. Ma è anche la storia di un grande amore, l’amore per i libri. L’amore per i libri di carta. E proprio adesso, in questo delicato momento di passaggio per quelli della mia generazione che guardano con un certo scetticismo ai libri virtuali, questo è un libro che consola con il suo sottile fruscio di pagine che si voltano lentamente in una sospensione nostalgica. “Avrebbe anche potuto dire: sono sempre i miei amici. Mi danno riparo. Mi fanno ombra d’estate. Mi proteggono dal vento. I libri sono la mia casa. Nessuno lo avrebbe messo in dubbio, sebbene avessero finito per congiungersi nel modo più rudimentale, e sebbene lui stesso, a furia di frequentare la dimensione più delicata del libro, fosse stato gettato su una lontana spiaggia solitaria“. E questa frase mi riporta direttamente dentro la sottile “linea d’ombra“, che è già un altro libro ma anche lo stesso, dentro il mio viaggiare nella vita, alla ricerca di me stessa e degli altri. Mi riporta alla prima pagina, nella mia sottolineatura spessa e cerchiata; “I libri cambiano il destino delle persone“. Certi grandi libri in effetti hanno questo potere, hanno il potere di farci riflettere, di rimandarci l’immagine di noi stessi deformata dalla finzione, ancora più potente nel suo valore universale. Hanno il potere di metterci in cammino verso un luogo incerto e spesso impervio. E questo mi restituisce il sorriso garbato di Antonio Tabucchi e la sua voce impastata di toscanità mentre lo ricordo in un’intervista ad un suo libro dire “Un luogo non è mai solo quel luogo: quel luogo siamo un po’ anche noi. In qualche modo, senza saperlo, ce lo portavamo dentro e un giorno, per caso, ci siamo arrivati.” E sono sempre luoghi di ripartenze da quella sottile e invisibile linea d’ombra conradiana, che mi fanno aggiungere di continuo libri alla mia libreria, tracciando le coordinate del mio essere e del mio esserci. Piccoli segni nel tempo. “Da quando ho memoria, non ho mai smesso di comprare libri. La biblioteca che si mette insieme è una vita. Non è mai una somma di libri“. Volo con il pensiero ad una “solitudine troppo rumorosa“ dello scrittore Bohumil Hrabal. Vedo Hanta, il protagonista del racconto, alla pressa meccanica di un magazzino interrato, lavorare a Praga, mentre questo libro di cui vado raccontando in un modo così personale e anarchico, lasciandomi sedurre dalle libere associazioni che produce, mi porta da Cambridge, in Uruguay, passando per Buenos Aires. Si incrociano le voci, i pensieri, le scritture, i linguaggi. Si incrociano i libri. Si parlano. Si sommano e si sottraggono. Per un attimo diventano lo stesso libro, creano lo stesso riverbero, la stessa sospensione. L’Hanta di Hrabal mentre deve macerare per lavoro i bei libri, soffre. “Quella volta, mentre pressavo alla mia pressa meccanica dei bei libri, quando la pressa trillò nell’ultima fase triturando i libri con la forza di venti atmosfere, sentii la tritatura di ossa umane, come se stessi stritolando in un macinino a mano i cranii e le ossa dei classici triturati nella pressa, come se stessi pressando la frase del Talmud: siamo come olive, soltanto quando veniamo schiacciati esprimiamo il meglio di noi…” E Carlos, il protagonista silenzioso del libro di carta (che per pura coincidenza è anche il nome dell’autore, ma si sa, in letteratura le coincidenze non sono mai casuali) grande collezionista e amante di libri, lascia come risposta a Hrabal, questa immagine di sé sulla spiaggia di Rocha, mentre il mare turbolento e agitato avanza . “Mi immagino Carlos seduto su una sedia, fra la montagna di libri scaricati dal carro e la riva del mare, con un cappello di paglia per proteggersi dal sole furioso di Rocha; le mani sulla ginocchia, attento al rumore della cazzuola sulle costole dei suoi libri annotati a mano, con inutili riferimenti ad altri libri, commenti che mai più avrebbe potuto rileggere, consultare, chiarire con una nuova lettura. Né allegro né triste, ammutolito dalla sua stessa brutalità, protetto dal fischiettio del muratore, dalla radio accesa, oppure dal fragore dell’oceano e dalle grida dei gabbiani sulla spiaggia“. La carta brucia, la carta si macera, scompare, si annulla, ritorna polvere ma le parole e le storie rimangono, camminano a fianco a noi, dentro di noi e lavorano di continuo, ci trasformano di continuo nella misura in cui accettiamo di lasciarci trasformare. La casa di carta lascia questo brusio di fondo “…leggeva a voce alta delle cose che non si capivano, ma suonavano come musica…”.





                                                                      Stella  Marina


11  Luglio  2012

Il gabbiano Jonathan Livingston

 di  Richard  Bach


Metafora del percorso di superamento del proprio sé, di una prospettiva alla ricerca di profonda spiritualità, senza per questo mescolarsi con la religione il gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach, racconta la storia dei pensieri di un volatile alle prese con la vita, percepita attraverso la lente del sacrificio. Un impegno che porta alla trascendenza, verso la dimensione esistenziale successiva. Impostazione narrativa letta, a seconda del periodo storico, in chiave cattolica, positivista, anarchico cristiana e new age.
L’autore si ispirò a un pilota acrobatico di nome John H. “Johnny” Livingston, attivo negli anni venti e trenta.
Jonathan è un gabbiano diverso dagli altri, lontano dallo stormo. Un reietto per la sua comunità, accusato persino dai suoi genitori. Non ama mangiare, la sua ossessione è il volo, o meglio, la perfezione del volo. Desiderio inizialmente represso, viste le rimostranze del mondo intorno a lui, Jonathan vive solo esercitandosi in acrobazie. Solo dopo la morte incontra due gabbiani dalle piume candide, che si librano accanto a lui. Seguendo il loro consiglio, decide di seguirli nel “Paradiso dei Gabbiani”.
Questa dimensione ultraterrena ridefinisce tutto l’impegno profuso da Jonathan sino a quel momento, allungando il cammino verso la perfezione. Diventa anche lui bianco e splendente. Nel paradiso dei gabbiani trova la guida, nonché amico, Sullivan. E quello che sembrava il vero Paradiso non si rivela tale, ma un semplice livello transitorio. Perfezionando il volo, il gabbiano scopre il bisogno di rivolgere il suo impegno verso un nuovo scopo: comprendere il segreto della bontà e dell’amore. Torna al suo stormo di origine dove incontra Fletcher Lynd, a cui poi si uniscono altri gabbiani reietti.
Un' opera profonda che affronta, e fa convergere, numerosi temi: dalla morte alla bontà, dalla solitudine alla ricerca spirituale. E malgrado vi alberghi il fiume carsico della morale, questa resta sullo sfondo oppure si lascia plasmare dall’intenzione interpretativa del lettore. Ma Il gabbiano Jonathan Livingston è soprattutto un’opera che commuove e incanta. Troppo breve, come ogni magia.

                                                     Iacopo  Bernardini



11  Giugno  2012

“LE GRAZIE” 1812                                 

 di  Ugo Foscolo 
                                                                                                                                                 
"Cantando, o Grazie, degli eterei pregi
di che il cielo v'adorna, e della gioia
che vereconde voi date alla terra, 
belle vergini! a voi chieggo l'arcana
armoniosa melodia pittrice 
della vostra beltà; sì che all'Italia
afflitta di regali ire straniere
voli improvviso a rallegrarla il carme.”
                    
                                    Protasi de  “Le Grazie”


Capita che mi prenda una tristezza, che ha un passo lento e potente. Non è  la delusione per un insuccesso: se  giochi, capita di perdere. È una tristezza che ha a che fare con pensieri che prendono la rincorsa da lontano, che hanno il passo stanco degli esuli in terra di altri e va oltre la mia personale condizione. Sono triste e provo tenerezza per la traiettoria presa dalla nostra storia nel momento in cui corteggia l’abisso della più gigantesca delle diaspore: milioni di vite allo spaglio di incerte e precarie fortune.
Sono diversi giorni che penso a Foscolo, non è un pensiero strutturato, è un po’ come quando ti svegli una mattina con una canzone in testa, che poi ti porti dietro per buona parte della giornata.
Ci voleva la solitudine di questa ennesima  sera / notte  di  viaggio per ricordare, e provare profonda gratitudine per l’uomo che, dopo aver acceso le luminarie del secolo romantico si avviò a chiudere la sua esistenza, quando tutti ormai ballavano sotto quelle luminarie, in un rigore classico e ordinato.
Forse, ancorandosi al mito, pensò fosse possibile trovare, se non una soluzione, una via d’uscita dignitosa e decorosa da un secolo in cui faticava a riconoscersi.
                                                                                          
                                                                                               Enrico  Nicolò
                                                                              
                    
11  Maggio  2012

l' Uno detto Dio

alla ricerca  delle chiavi 
della  nostra  esistenza

 di Vittorio Marchi


"Se effettivamente vogliamo un mondo migliore, nel bene e nel male,  dobbiamo incominciare a capire che nessuno può sfuggire alla sua  legge:  quel mondo siamo noi"


L'autore, insegnante di fisica e ricercatore, in questo libro ci conduce in "un viaggio analitico attraverso scienza e coscienza e si propone di sondare le esperienze degli astronauti della scienza del mondo  occidentale e quelle degli psiconauti della coscienza del mondo  orientale, così inconsapevolmente vicini.... riavvicinati dalle ultime  scoperte della fisica quantistica".
I quanta sono particelle quando li guardiamo ed onde quando non li guardiamo. Fisico e mistico, visibile ed invisibile non è divisione, ma armonia dell'Uno, l'amore per i cosiddetti "altri", è il miglior mezzo di rispetto e di comunicazione con noi stessi.
Idee nuove ed intriganti sulla natura viva ed intelligente del pensiero di cui son fatte tutte le cose; una ricerca sensibile sull'uomo e sul suo percorso.  
Da Internet, materializzazione del sogno sciamanico, ai quanta, sogno "eretico" di Akhenaton e Giordano Bruno, gli atomi e le molecole vivono e comunicano tra loro nel micro  come nel macro: tutto è vibrazione, è conscio, è connesso nell'onda continua della vita.
                                      Maria Laura                                                                                
                                               
                                                                                                              
11  Aprile  2012

ANIME DELLA DISTORSIONE IL RISVEGLIO

UNA  CONVERGENZA  TRA  SCIENZA  E  SPIRITUALITA'

di  Jan  Wicherink

"Spero che questo libro sia una scintilla di meraviglia 
e curiosità che vi spinga a cercare da voi la verità." 

                                                                                                                 
Proprio in questo difficilissimo momento planetario, dove tutto sembra indirizzare ad un cataclisma definitivo, Jan Wichering apre uno squarcio sullo scenario dietro le quinte di questo sconosciuto universo, governato da forze cosmiche e leggi ignote, che consentiranno all'umanità di attraversare incolume i secoli futuri con maggiore coscienza e consapevolezza.
La fine del mondo, che in tanti profetizzano per il mese di Dicembre del 2012, è vista invece nel libro come la rinascita di un mondo nuovo pieno di luce.  
Ciò che Jan Wichering vuole significare è che "spirito e scienza" sono facce di una stessa medaglia coniata fuori dal tempo e dallo spazio dall'Essere Supremo che chiamiamo Dio.
Consiglio la lettura del prologo del libro che è meglio di qualsiasi recensione in quanto introduce il lettore all'immenso lavoro che Jan Wichering ha voluto scrivere per chiunque intenda approfondire temi scientifici in aiuto alla comprensione e fenomenologia che governa questo nostro "piano della realtà".  Sembra dirci: "abbiate fiducia"...... perché il progetto di Dio è così grande e meraviglioso che l'uomo e le sue incoscienti opere non potranno mai distruggere.


Il libro tradotto in italiano da Riccardo Viola e pubblicato da Pocket Edition il 24 Aprile 2011 può essere scaricato gratuitamente da: www.soulsofdistortion.nl
                                                                                                          Luigi Sebastiani

11 Marzo 2012

Più vicini alla luce
di  Melvin Morse e  Paul Perry


In questo libro sono numerose le testimonianze di bambini che hanno vissuto l'esperienza di pre-morte, avendo avuto così la possibilità di dare una sbirciatina nell'altra dimensione. I bambini come è noto sono puri, cristallini e le loro testomonianze non sono inquinate da alcun retaggio culturale o religioso. Incontri con esseri di luce, con parenti defunti, racconti dettagliati di esperienze al di fuori del corpo e altro ancora......
Un libro che con la forte testimonianza del dott. W. Penfield (universalmente riconosciuto come il padre della neurochirurgia moderna), riceve anche un sostegno scientifico sulla possibilità di una vita oltre la vita. Penfield, infatti, cambia idea nel corso degli anni sulla sopravvivenza dell'anima alla morte fisica.
Un libro di facile lettura, ma mai banale, fa riflettere ed orienta il lettore verso il vero senso della vita, e cioè, lo indirizza sulla strada dell'amore universale e della sopravvivenza eterna.
Scritto dal dottor Melvin Morse, medico pediatra, con l'aiuto dello scrittore Paul Perry, sul finire del secolo scorso, è un libro che consiglio a tutti, ed in modo particolare a tutte quelle persone che hanno subito un distacco dai loro cari, per il gran conforto che riesce a dare.

 

Edito dalla Sperling Paperback (1999) e facente parte della collana "Orizzonti Paperback" questo testo ha l'unica pecca nella non semplice reperibilità nelle librerie; è più facile acquistarlo da internet.

                                    Mariano  Mandolini


11 Febbraio 2012

LA  VIA  DI  UNO  SOLTANTO
di  T.  B.  Jelloun


Un giorno qualcuno chiese ad Alberto Giacometti: "Quando alla fine le tue sculture devono lasciare lo studio, dove dovrebbero andare? In un museo?"
E lui rispose: "No, seppellitele per terra, così faranno da ponte tra i vivi e i morti"                    
( da My Beautiful / John Berger )           




"La via di uno soltanto" è una strada stretta nella medina di Fez. Porta ad un labirinto lungo e buio; solo una persona per volta può percorrerla, o più di una se si tratta delle filiformi statue di Giacometti. In immagini avanzano nel libro, scorrono tra le parole come presenze concrete, che via via si animano.
Entro da sola quindi, ascoltando le "visionarie" parole di Ben Jelloun. Mentre cammino, mi ricordo di lui. Ho amato i suoi romanzi, la sua scrittura "orale", l'indimenticabile figura di cantastorie che conserva e tramanda parole. Ho amato " le pareti della solitudine ", storie di esistenze ferite, immigrati che vivono ai margini dell'esistenza, solitudini spesse dove l'angoscia è una lama che taglia e incide nel vivo, non un semplice cambio di umore.
Entro nel labirinto e penso che le statue di Giacometti incarnano le solitudini di Ben Jelloun, quelle che in lui si sono fatte urgenza di dire. Occhi muti e densi di lacrime, lacrime inspessite le une sulle altre, talmente pesanti da scavare voragini nell'orbita dello sguardo. Eccole aperte sui volti delle statue di Giacometti. Vorrei toccare e sentire quel lavorio che la mano tanto esperta dello scultore ha saputo incidere su quei volti. Plasmati su memorie di visi incrociati, incontrati, intuiti. Simultaneamente l'urgenza di rappresentare e quella di lasciar scorrere. Non c'è niente di definitivo nei loro tratti. "Di faccia puoi andare in prigione, di profilo in manicomio".
Così disse Giacometti a James Lord mentre lo ritraeva. Sono volti pieni di segni, le mani dell'artista sono affondate e affondate nella materia, "per rendere giustizia, per difendere, per difendersi." Cammino ed il percorso è sempre più angusto. Le statue di Giacometti adesso mi camminano difronte, come a venirmi incontro, silenziose nei passi. "Ogni movimento mi sembrava una successione di momenti immobili separati da abissi di vuoto, da eternità di silenzio. "
Hanno il passo di Don Chisciotte, erette camminano nella loro solitudine e mi osservano. Adesso vedo i loro occhi. Chi le ha create, ha rinunciato a tutto nella vita, scegliendo una insicurezza permanente, spogliandosi di qualsiasi bene. Come un "monaco", ha accolto dentro di sè questa umanità ferita, come uno di loro ha vissuto ed è stato. Ecco perchè sono vive, ecco perchè sono vere e mi camminano accanto. Adesso il bronzo è diventato carne, vedo le statue in ogni angolo della mia città e in ogni città possibile. Riconosco sguardi spesso evitati, riconosco la mia incapacità dentro questo labirinto, ed io sono pietra adesso e loro carne.
Ben Jelloun mi ha sapientemente condotto dentro un percorso affinchè vedessi, affinchè toccassi, affinchè sentissi nella materia così disperatamente plasmata, la sofferenza ed il dolore. La solitudine profonda, che non ha voce.
Non hanno bisogno di sguardi. Nè di consolazione. Hanno l'urgenza di capire perchè il mondo intorno a loro si muove così in fretta. Hanno bisogno di imparare a camminare, a correre. Hanno necessità di spazi immensi di comprensione, hanno bisogno di ascoltare la voce di un cantastorie che le regali storie incantate dei loro luoghi d'origine. Non sono loro a dover cambiare, ma tutto quello che sta loro intorno. E' quello che è sbagliato, che corre troppo in fretta, senza saper più guardare ed aiutare chi è rimasto indietro, senza peraltro averne alcuna colpa.

" Siamo presi tra le dita della febbre e della morte. Allora smetti di raccontare del tuo dolore e dimmi di dove vieni...."             ( T.  B. Jelloun ). 

                                          Stella Marina

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                          
11  Gennaio  2012

Marcovaldo ovvero le stagioni in città 
di Italo Calvino



"…Addormentarsi come un uccello, avere un'ala da chinarci sotto il capo, un mondo di frasche sospese sopra il mondo terrestre, che appena s'indovina laggiù, attutito e remoto. Basta cominciare a non accettare il proprio stato presente e chissamai dove s'arriva: ora Marcovaldo per dormire aveva bisogno d'un qualcosa che non sapeva bene neanche lui, neppure un silenzio vero e proprio gli sarebbe bastato più, ma un fondo di rumore più morbido del silenzio, un lieve vento che passa nel folto d'un sottobosco, o un mormorio d'acqua che rampolla e si perde in un prato. "



                           
Immagino che su questo libro siano state scritte migliaia di pagine tra recensioni, articoli, e tesi di laurea. Il libro, in una edizione Einaudi del 1963, di pagine ne contiene poco più di cento. La prima volta che ci ho messo le mani e gli occhi avevo da poco imparato a leggere, a distanza di una trentina d’anni continuo a portarmi dietro il libro in tutti i miei spostamenti, Marcovaldo è il compagno di viaggio ideale, è discreto, non impone tempi e ritmi ma, soprattutto, ogni volta che lo consulti ha cose nuove da dire. Marcovaldo è, per me,  la risposta ad una preghiera inespressa di comprensione. Nella su sgangherata esistenza Marcovaldo è, come il valoroso hidalgo di Cervantes, ma è un Don Chisciotte più vicino alla quotidianità piccola di questi nostri durissimi anni.
Marcovaldo non ha il piglio eroico e la visione epica, sia pure illusoria, di Chisciotte. Marcovaldo vola basso, cerca, come tutti noi, di scrollarsi di dosso i lacci e i pesi di una precarissima esistenza, dove è difficile non dico realizzare ma anche pensare di dare alla nostra vita una direzione nostra. In questo suo quotidiano tentativo è infaticabile come tutti i grandi eroi, un cavaliere puro e coraggioso. La goffaggine di alcuni suoi tentativi all’inizio fa ridere, andando avanti nella lettura si continua a ridere ma il divertimento si scioglie nella tenerezza verso quest’uomo che con grande dolcezza ci racconta la fragilità della nostra condizione e il desiderio di un po' di pace, al riparo dalle intemperie dell'esistenza.
                                                                             
                                                                                              Enrico  Nicolò



11  Dicembre  2011

SARINAGARA
 di  Philippe  Forest

E'  di  rugiada,  è  un  mondo 
di rugiada, eppure, eppure...... 
                                                    


Quando un figlio muore, inizia il silenzio del sogno e l’incubo del giorno. Mi sono chiesta se potesse esistere una vita possibile  tra le nebbie del silenzio e dell’incubo. Il cuore grida : non c’è, non c’è; tutto si deforma, l’mmaginazione ingoia il tempo-dolore, lo spazio si fa luogo di echi disperati. Per proteggermi dall’oblio, per concedere identità ad un dolore sconosciuto quanto devastante, ho letto molti libri dove  cercare risposte o sperare in una epifania. Una persona speciale, cara al mio cuore, mi ha fatto dono del libro di Forest “Sarinagara”. Inizio a leggere con fatica, annaspo, non oso pensarlo subito; è insopportabile per consistenza e verità. Verità e dolore e morte intorno e dentro; dove sono? e da quanto tempo? e in quale dimensione dell’anima? Nelle pagine del libro c’è qualcosa che vuole essere ascoltato, ne intuisco la profondità ed allora lo leggo più volte. Quelle parole gridano il dolore insidiato in ogni atomo del corpo e l’immobilità agghiacciante di ogni fantasia dell’anima;  scuotono e schiaffeggiano fino ad arrivare come tagli dentro la carne fino a trovare il sangue; somiglia al mio vivere. Ma Forest parla dritto al cuore con forza e ferocia e consapevolezza e sincerità perché, come alcuni di noi, ha perduto una figlia, e “sa”. Inizio a respirare mi concedo una minuscola speranza che non avevo osato neppure pensare che lentamente è diventata, nel mio cuore, unica via percorribile aggrappata a questa vita così fragile, nell’infinita emozione di un “eppure".
                   la mamma di Tiziano 
 dammi la mano, ti sento e cammino con te
                                                                                                                                                                                                                                                              
                                                                                                                                                                          




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